Fresato di asfalto: una risorsa ancora al palo

Il nuovo D.M. n. 69/2018, che pure rappresenta un nuovo caposaldo legislativo per il settore, non è riuscito comunque a sbloccare una situazione ingessata da rigidità applicative e oscillazioni giurisprudenziali

Nel corso degli ultimi anni la questione del cosiddetto “fresato di asfalto” è stata ampiamente dibattuta, focalizzando l’attenzione sulla qualificazione ambientale del materiale e contrapponendo le posizioni tra l’essere rifiuto e l’essere non rifiuto. Nel contempo, nei piani di sviluppo per l’ambiente dell’Unione europea si sono affermate visioni strategiche per l’utilizzo sostenibile delle risorse seguite da interpretazioni giurisprudenziali e relative sentenze, talvolta contrastanti.

Tuttavia, come spesso accade, il rischio reale è di perdere la consapevolezza della natura e della dimensione del fenomeno senza considerare il contesto di riferimento, assumendo decisioni non adeguatamente ponderate nella valutazione dei diversi aspetti e degli effetti dei provvedimenti adottati.

È quindi opportuno passare in rassegna le informazioni di base relative alle caratteristiche del materiale, agli impieghi e alla qualificazione tecnica secondo le norme vigenti.

Contesto di riferimento

La rete stradale italiana si estende complessivamente per oltre 800.000 km, comprese autostrade, strade extraurbane (statali, regionali e provinciali), urbane e vicinali con un valore economico della sola pavimentazione stimato in circa 1.000 miliardi di euro[1]. Le sovrastrutture stradali esistenti sono essenzialmente di tipo flessibile, composte da strati in conglomerato bituminoso differenziati in sezione in base alla tipologia della strada per corrispondere in modo ottimale alle esigenze specifiche, strutturali, funzionali, ambientali ed estetiche.

In Italia il conglomerato bituminoso è prodotto prevalentemente a caldo ed è costituito da una miscela di:

  • aggregati (i cosiddetti “inerti”);
  • legante bituminoso;
  • additivi funzionali;
  • conglomerato bituminoso di recupero.

Prima della crisi strutturale che ha colpito il comparto delle costruzioni, la produzione di conglomerato bituminoso in Italia era attestata su una quantità di circa 42 milioni di tonnellate, necessaria per la realizzazione di nuove infrastrutture e per l’esecuzione delle manutenzioni programmate. Nel corso dell’ultimo decennio si è registrato un calo della produzione pari al -37%, fino a raggiungere circa 23 milioni di tonnellate nell’anno 2016. E’ opportuno evidenziare come la flessione della produzione sia stata riscontrata anche in altri Paesi come la Francia e la Germania con una diminuzione nell’arco temporale considerato di -20% (Germania), -20% (Francia), -12% (Regno Unito), fino a -69% relativo alla Spagna (vedere la figura 1).

 

Attualmente il conglomerato bituminoso prodotto è destinato prevalentemente alle opere di manutenzione d’urgenza delle pavimentazioni stradali realizzate, nella generalità dei casi, mediante semplice sostituzione degli strati superficiali di usura dove si visualizzano i degradi e i dissesti dell’intera sovrastruttura stradale. Pur non soffermandosi sulle diverse tipologie di interventi manutentivi per la risoluzione delle cause dei deterioramenti, tuttavia, nella generalità dei casi, la semplice sostituzione dello strato superficiale, il cosiddetto “tappeto d’usura”, equivale alla tinteggiatura di un muro portante già gravemente compromesso nella sua funzione strutturale. Nel migliore dei casi si ripristina la sicurezza correlata all’aderenza al piano di scorrimento, peraltro cosa di non poco conto, ma con durata assai limitata se la causa dei dissesti è più profonda. Ad ogni modo, gli interventi di manutenzione della pavimentazione, siano essi superficiali o profondi, comprendono la demolizione degli elementi costruttivi costituenti la pavimentazione per la rimozione dei materiali dissestati e il ripristino dei profili planimetrici. L’attività di demolizione è svolta con modalità differenti, fra le quali è largamente utilizzata la fresatura mediante macchine operatrici con produzione di frammenti di conglomerato bituminoso dalle dimensioni variabili o, in misura decisamente limitata, la demolizione è attuata con l’impiego di escavatori e/demolitori che generano lastre di materiale. Nel gergo comune si parla di fresato di asfalto o, più semplicemente, per gli addetti ai lavori, di fresato.

Il conglomerato bituminoso demolito è classificato come rifiuto non pericoloso (EER 17 03 02), se diverso dal conglomerato contente catrame (EER 17 03 01), rifiuto pericoloso. E’ necessario evidenziare che in alcuni Stati dell’Unione europea è stato fatto uso di catrame nella produzione di conglomerato impiegato per la realizzazione delle prime pavimentazioni stradali del ventesimo secolo. Tuttavia, in Italia, le pavimentazioni stradali flessibili si sono introdotte successivamente rispetto ad altri stati come, ad esempio, Francia, Regno Unito e Germania. Il legante utilizzato in Italia era inizialmente costituito da rocce asfaltiche di matrice bituminosa provenienti dall’attività estrattiva dei giacimenti localizzati in Abruzzo e in Sicilia e ben presto sostituite dal bitume ottenuto dai processi di raffinazione del petrolio grezzo proveniente da oltreoceano. In Italia «i catrami di produzione nazionale, a causa della loro cattiva qualità, venivano impiegati in misura del tutto marginale, derivando spesso da sottoprodotti della pulitura dei gasometri»[2]. Le quantità di conglomerato prodotto con catrame, in Italia, sono del tutto irrilevanti, realizzate in un breve intervallo di tempo tra le due guerre del secolo scorso e, verosimilmente, oggi scomparse. Tuttavia il termine “catrame” è ancora così radicato nell’immaginario collettivo da essere usato a sproposito ancora oggi con riferimento alle pavimentazioni in conglomerato bituminoso; tuttavia, va sempre tenuto a mente che il bitume non è catrame.

I rifiuti delle attività di costruzione e demolizione non sono quantificati per via analitica, ma sono stimati con un margine di approssimazione spesso non accurato. In Italia il conglomerato bituminoso ottenuto dalla demolizione delle pavimentazioni è stimato per l’anno 2016 in circa 9 milioni di tonnellate (vedere la figura 2). Al fine di fornire un’indicazione delle dimensioni in gioco, pur approssimativa, si evidenzia che il conglomerato bituminoso “fresato” rappresenta circa il 17% dei rifiuti da costruzione e demolizione (C&DW) e circa il 7% del totale dei rifiuti speciali non pericolosi. Giusto per dare un’idea realistica della dimensione, le 9 megatonnellate di conglomerato demolito in un anno equivalgono ad una strada a quattro corsie con lunghezza di circa 1.000 km (Bolzano - Brindisi). Dal punto di vista delle risorse si parla, annualmente, di una montagna di aggregati di circa 4.000.000 di m3e di una fila di circa 16.000 autocisterne di bitume lunga oltre 200 km. Una risorsa che può sostituire l’equivalente in volume di materiale naturale con drastica riduzione della mobilità dei materiali e conseguente abbattimento degli impatti sull’ambiente e sulla sicurezza del traffico veicolare.

Nell’analisi del ciclo di vita delle pavimentazioni normalmente non si considera un parametro essenziale di valutazione dei flussi di materiale in ingresso (risorse naturali) e in uscita (scarti/rifiuti prodotti), ovvero la quantità di conglomerato fresato a deposito presso gli impianti in attesa di riutilizzo. Attualmente questa quantità non è definita, ma è ben visibile e rappresenta il vero indicatore di (in)efficienza del ciclo chiuso delle risorse; in sostanza, nel bilancio del sistema tra materiali in uscita e materiali in entrata si rileva un surplus in tendenziale aumento di materiale che potrebbe essere riutilizzato in quantità maggiori negli impieghi di seguito descritti.

Sulla base della classificazione fisica, il conglomerato bituminoso appartiene ai materiali viscoelastici per le straordinarie proprietà del legante bituminoso, proprietà che non si alterano in modo irreversibile con la prima produzione e messa in opera. A differenza dei leganti idraulici, il bitume conserva nel tempo le caratteristiche leganti e di adesione che possono essere valorizzate nei diversi cicli di riutilizzo del materiale. Pertanto, nella gerarchia di riutilizzo delle risorse, il conglomerato bituminoso ottenuto dalla demolizione di un’opera non solo può essere utilmente riutilizzato come recupero di materia, ma è anche valorizzato per le proprietà leganti possedute.

La definizione tecnica del conglomerato bituminoso di recupero è contenuta nella specifica tecnica Uni/Ts 11688:2017«Criteri di qualificazione e impiego del conglomerato bituminoso di recupero proveniente dalla rimozione di pavimentazioni stradali», riportata di seguito: «conglomerato bituminoso recuperato mediante fresatura degli strati di rivestimento stradale, frantumazione delle lastre provenienti da squarci di pavimentazioni asfaltiche, blocchi provenienti da lastre asfaltiche, e conglomerato bituminoso proveniente da scarti di produzione e sovraproduzione (Uni En 13108-8). Il conglomerato bituminoso di recupero è designato mediante l’abbreviazione RA».

 

Impieghi nella filiera delle costruzioni stradali

Il conglomerato bituminoso proveniente dalle attività di demolizione delle pavimentazioni esistenti trova impiego nella medesima filiera delle costruzioni come materiale costituente di altri prodotti o come materiale reimpiegato direttamente. In base al tipo di impiego può essere sottoposto a processi di lavorazione convenzionali di frantumazione/segregazione e/o selezione in classi granulometriche definite. Il ciclo di vita del conglomerato bituminoso è riportato nella figura “Diagramma di flusso” (vedere la figura 3), tratto dalla norma citata. Di seguito sono descritti i principali impieghi del conglomerato bituminoso di recupero.

Produzione di conglomerato bituminoso a caldo

Il conglomerato di recupero (Ra = reclaimed asphalt) è impiegato come materiale costituente nella produzione di conglomerato bituminoso a caldo ed introdotto nel ciclo di produzione con differenti tecnologie impiantistiche. Le quantità di utilizzo sono variabili e dipendono sostanzialmente dal tipo di prodotto finale, dalle tecnologie impiantistiche di alimentazione e riscaldamento e dai materiali utilizzati (costituenti e additivi funzionali). La qualificazione dei prodotti deve essere condotta in conformità alle norme armonizzate della serie Uni En 13108 (da parte 1 a parte 7) che non prevedono limiti massimi di impiego del conglomerato di recupero. Secondo quanto definito da queste norme, l’impiego di Ra in quantità inferiori al 10%, nei conglomerati destinati agli strati superficiali, e al 20%, nei conglomerati destinati agli strati di base e di collegamento (binder) prescrive la determinazione della distribuzione granulometrica e del contenuto di legante aggiunto. Per dosaggi superiori, invece, deve essere anche determinata la consistenza dei leganti impiegati (bitume del Ra e bitume di aggiunta) e devono essere valutate anche le proprietà meccaniche di resistenza della miscela. Le miscele devono essere adeguatamente progettate mediante procedimenti standardizzati (mix design) valutando le caratteristiche dei materiali costituenti e le prestazioni dei prodotti finiti con procedimento di validazione finale. La percentuale di conglomerato bituminoso di recupero impiegata deve sempre essere evidenziata negli studi di miscela, per qualsiasi quantità.

Va tenuto conto che l’impiego significativo di conglomerato bituminoso di recupero, data la presenza di legante invecchiato, tende a irrigidire la miscela e per questa ragione sono diffusi e ampiamente utilizzati appositi additivi rigeneranti, dosati in ragione del contenuto di conglomerato bituminoso di recupero immesso nella miscela, additivi e leganti speciali atti a incrementare la lavorabilità delle miscele anche a basse temperature, in produzione e in consegna. Attualmente, la tecnologia di produzione dei materiali e gli additivi disponibili sul mercato sono in continuo miglioramento e consentono il riutilizzo in quantità significative, anche superiori al 40-50%.

Focalizzando l’attenzione sulle quantità di conglomerato bituminoso di recupero impiegato nelle diverse destinazioni, è utile esaminare l’approccio di alcuni Stati membri dell’Unione europea. I dati disponibili, pubblicati dall’associazione europea di categoria Eapa, sono la risultante di stime, peraltro non precisate nei criteri adottati e nel grado di accuratezza. In Italia, solo il 20% di tutto il conglomerato bituminoso di recupero disponibile è impiegato nella produzione di nuovo conglomerato bituminoso. In altri Stati, invece, la quota è notevolmente superiore come, ad esempio, in Spagna (67%), in Francia (70%), nel Regno Unito (80%), in Germania (87%), fino al 100% della Finlandia (vedere la figura 4) dove la quantità di conglomerato di recupero è modesta rispetto a tutto il conglomerato prodotto.

L’utilizzo del conglomerato bituminoso di recupero nella produzione di nuovo conglomerato bituminoso è una soluzione ottimale per il recupero di materia e per la valorizzazione delle proprietà del legante recuperato.

Produzione di conglomerato bituminoso a freddo

Il conglomerato bituminoso di recupero può essere utilizzato nella produzione di materiali con tecnologie a freddo dove il legante bituminoso di aggiunta è emulsione bituminosa o bitume espanso (schiumato). Oltre al conglomerato bituminoso di recupero e al legante possono essere impiegati aggregati di dimensioni maggiori per incrementare la resistenza dello strato. La tecnologia di produzione del conglomerato bituminoso a freddo è anche nota come riciclaggio a freddo (del conglomerato bituminoso fresato). Anche i conglomerati bituminosi prodotti a freddo devono essere sottoposti a procedimento di qualifica e validazione preliminare e trovano ottima destinazione negli strati profondi della sovrastruttura migliorandone sensibilmente la portanza in esercizio e la durata nel tempo.

Produzione di aggregati riciclati

Il conglomerato bituminoso di recupero può essere anche utilizzato nella produzione di aggregati misti per la realizzazione degli elementi costruttivi del solido stradale come rilevati, sottofondi e fondazioni. In base all’elemento costruttivo di destinazione il materiale deve essere prodotto facendo attenzione alle caratteristiche geometriche, fisiche e di composizione (ad esempio contenuto di Ra). Questo utilizzo consente il beneficio del recupero di materia mentre il potere legante del conglomerato di recupero non è valorizzato come nei due precedenti impieghi (produzione di conglomerati bituminosi a caldo e a freddo).

Riutilizzo in situ

La tecnologia del recupero del conglomerato bituminoso in situè oggi limitata a particolari condizioni in quanto condizionata essenzialmente dall’uso di macchinari importanti per dimensioni e conduzione (i cosiddetti “treni di riciclaggio”).

Altri impieghi

Il conglomerato bituminoso può essere destinato anche per altri utilizzi come, ad esempio, nell’esecuzione di riempimenti e misti cementati. Il materiale utilizzato tal quale, senza aggiunte e leganti, presenta difficoltà di addensamento e assume un comportamento plastico che può avere effetti negativi su tutto il corpo stradale per il manifestarsi di fenomeni deformativi con dissesto strutturale. Con particolare riferimento all’Italia, le stime disponibili riportano un impiego di circa il 30% per l’esecuzione di riempimenti svalutando, di fatto, le proprietà del materiale con utilizzi tecnicamente non adeguati.

Da quanto sopra è chiaro che le possibilità tecniche di impiego del conglomerato bituminoso ci sono e consentirebbero di diversificare le destinazioni dell’immane quantità di conglomerato bituminoso generata dalle attività di manutenzione. Attualmente è impensabile recuperare tutto il conglomerato fresato nella sola produzione di materiale a caldo; infatti, la semplice sostituzione dello strato superficiale genera 100 e, nel migliore dei casi si recupera 50 con un surplus di materiale che deve trovare destinazione in altri strati nel contesto di nuove realizzazioni e di manutenzioni profonde. La progettazione delle opere di nuova costruzione e degli interventi di manutenzione deve essere condotta attentamente nella scelta dei materiali più idonei per la realizzazione dei singoli elementi costruttivi. In generale, è opportuno prevedere il potenziamento degli strati profondi con incremento della capacità portanti delle sovrastrutture corrisposta adeguatamente con materiali riciclati a freddo o con misti granulari riciclati contenti conglomerato bituminoso di recupero. Contemporaneamente, è opportuno anche prevedere in modo sistematico l’impiego di miscele di conglomerati bituminosi prodotti a caldo contenenti conglomerato bituminoso di recupero. Naturalmente tutti i materiali devono essere opportunamente qualificati e sottoposti a controllo secondo le norme vigenti. Oggi, stante la disponibilità di materiali riciclabili e di valide tecnologie costruttive, utilizzare prodotti naturali per la realizzazione di rilevati, sottofondi e fondazioni stradali si configura come uno spreco di risorse.

Riferimenti normativi per la qualificazione tecnica

I prodotti da costruzione devono essere debitamente identificati e qualificati in maniera univoca a cura del fabbricante e accettati dal direttore dei lavori. Le responsabilità in capo al fabbricante, al costruttore, al progettista e al direttore dei lavori sono oggi sancite per legge, anche sotto il profilo del regime sanzionatorio[3]. Una spinta decisiva alla definizione dei procedimenti per la qualificazione dei prodotti è stata data dall’Unione europea che ha definito le regole per la commercializzazione dei prodotti mediante standardizzazione di norme armonizzate e norme tecniche da applicare in tutti gli Stati membri.

Ogni Stato ha poi contribuito a definire ulteriori disposizioni, direttive volontarie e regole cogenti, per la operatività nei territori di competenza. Contrariamente a quanto si suppone, l’Italia, nello specifico comparto delle costruzioni, ha prodotto meno norme e regolamenti dei Paesi d’oltralpe; basti pensare al modesto ricorso a specifiche tecniche per la marcatura basata sulla pertinente valutazione tecnica europea (Eta), opportunità a disposizione dei fabbricanti per qualificare i propri prodotti e distinguerli nel mercato di riferimento.

Il primo riferimento normativo per la qualificazione tecnica del conglomerato bituminoso di recupero risale all’entrata in vigore delle norme europee della serie En 13108 nell’anno 2006. La serie comprende norme armonizzate (dalla parte 1 alla parte 7) e norme non armonizzate (parti 8, 20 e 21), tutte obbligatorie per la marcatura Ce dei diversi conglomerati bituminosi prodotti a caldo e destinati alle pavimentazioni stradali. Queste norme, obbligatorie in tutti gli Stati membri dell’Unione europea, non pongono alcun limite di utilizzo del conglomerato bituminoso di recupero (Ra). In particolare, la norma Uni En 13108, parte 8 specifica i requisiti per la classificazione e la descrizione del conglomerato bituminoso di recupero come materiale costituente di miscele bituminose definendo le modalità di designazione del prodotto e di determinazione dei requisiti del cumulo di materiale.

Al fine di sostenere il riutilizzo del conglomerato bituminoso di recupero, la commissione centrale tecnica Uni ha approvato la specifica tecnica Uni/Ts 11688:2017. La specifica non pone limiti di utilizzo, ma definisce quali requisiti devono essere determinati in funzione della destinazione finale e del quantitativo impiegato. Gli impieghi considerati sono:

  • produzione dei conglomerati bituminosi a caldo e a freddo;
  • produzione di aggregati non legati e legati.

Oltre alla qualificazione del conglomerato bituminoso di recupero la specifica tecnica definisce anche i requisiti da verificare sui prodotti finiti per tutelare le prestazioni del prodotto finale, specie con utilizzo di RA in quantità importanti.

Come riportato precedentemente, il conglomerato bituminoso di recupero può essere anche utilizzato nella produzione di aggregati riciclati destinati alle opere di ingegneria civile e costruzione di strade. Il prodotto ottenuto e il processo di produzione devono essere qualificati e sottoposti a procedimento di marcatura Ce secondo la norma armonizzata Uni En 13242. Nella versione in vigore il produttore deve determinare e dichiarare il quantitativo percentuale di conglomerato bituminoso di recupero (Ra) contenuto nella miscela. A supporto del progettista, nel 2014 è stata approvata la norma Uni 11531, parte 1, «Criteri per l’impiego dei materiali (non legati)», dove sono specificate le modalità di classificazione delle terre e sono definite le prescrizioni dei materiali impiegati negli elementi costruttivi del corpo stradale (rilevato, sottofondo, strato anticapillare, fondazione e base). La norma riporta i requisiti di qualificazione delle miscele non legate contenenti conglomerato bituminoso ottenuto da fresatura e da frantumazione di blocchi e definisce il limite massimo di contenuto di Ra in base all’impiego; il contenuto massimo previsto è del 30%. Attualmente è in fase di elaborazione la norma UNI 11531 parte 2 dedicata agli aggregati misti legati.

E’ bene precisare che il conglomerato bituminoso non deve essere marcato Ce secondo la norma armonizzata Uni En 13043, in quanto espressamente escluso dal campo di applicazione della stessa. La marcatura deve essere fatta nel caso di produzione di aggregati riciclati secondo la norma Uni En 13242 con attenta valutazione del prodotto commercializzato che deve essere conforme anche alla norma UNI 11531 parte 1.

A completamento del quadro normativo di qualificazione dei prodotti contenenti conglomerato bituminoso di recupero è opportuno considerare anche le norme di etichettatura ambientale dei prodotti, oggi particolarmente significative per la valutazione dei parametri di sostenibilità ambientale. Le norme di riferimento sono:

  • Uni En Iso 14021: regola le etichettature e dichiarazioni ambientali di tipo II e comprende una serie di parametri che possono essere determinati al fine di identificare e quantificare le prestazioni ambientali del prodotto come, ad esempio, il contenuto percentuale di materiale riciclato e la riciclabilità del materiale;
  • Uni En Iso 14025: regola le etichettature di tipo III, dichiarazioni ambientali di prodotto (Epd), ed è finalizzata alla valutazione degli aspetti ambientali nel ciclo di vita di un prodotto in un perimetro definito (ad esempio dall’estrazione delle materie prime sino allo smaltimento finale).

La valutazione del ciclo di vita Lca (life cycle assessment) segue una procedura supportata da documenti specifici, Pcr (regole della categoria di prodotto), elaborati per prodotto o categoria. Al fine di non incorrere in conclusioni fuorvianti, è bene sottolineare che la comparazione tra valutazioni elaborate per prodotti differenti debba essere particolarmente attenta nell’esame del perimetro applicato e nella valutazione delle fonti dei dati primari e secondari utilizzati per le elaborazioni di calcolo; il rischio è di effettuare paragoni impropri.

Conclusioni

Il quadro così composto, pur nella semplicità dei dati esposti e compattati, si propone di fornire un’idea delle dimensioni del problema “fresato di asfalto” mettendo in luce i potenziali impieghi di una preziosa risorsa non rinnovabile che può davvero assumere un ruolo strategico per l’efficienza del ciclo applicato alle pavimentazioni stradali. Oggi sono disponibili tutti gli strumenti tecnici necessari per qualificare e controllare i materiali assicurandone il livello prestazionale adeguato a rispondere alle esigenze specifiche.

Il nuovo D.M. 28 marzo 2018, n. 69[4], che sancisce lo status di “end of waste” del conglomerato bituminoso di recupero, certamente costituirà un caposaldo in materia di gestione dei rifiuti e, forse, un riferimento per altri Stati membri dell’Unione. Tuttavia, gli strumenti normativi da adottare per una corretta gestione delle risorse dal punto di vista dei vincoli ambientali costituiscono un elemento utile, ma certamente non sufficiente.

La questione del “fresato di asfalto” è sempre stata vista come un problema in capo al produttore (del rifiuto) e al gestore dell’impianto di recupero e trattamento. In realtà, è una visione riduttiva se si vuole veramente applicare i principi della sostenibilità ambientale fuori dalla facile retorica dei luoghi comuni. Il problema del fresato riguarda chi possiede la strada, chi progetta le opere, chi le realizza e chi le controlla, nell’esercizio delle rispettive responsabilità.

In Italia sono ancora diffuse le prescrizioni delle norme tecniche di capitolato che ne limitano l’uso nella realizzazione degli strati profondi e lo proibiscono negli strati superficiali dove è espressamente richiesto il solo “inerte vergine”, atteggiamento, questo, che non tiene conto dei metodi di qualificazione dei materiali e delle nuove tecnologie di produzione e che spesso nasconde lacune formative di base. Gravi carenze progettuali, marcate inadempienze nei controlli di accettazione dei materiali e immissione nel mercato di prodotti non opportunamente qualificati costituiscono le basi di un sistema negativo nel quale il ciclo delle risorse è solo un’immagine utilizzata negli strumenti mediatici della comunicazione.

Nell’ambito delle costruzioni, le pavimentazioni stradali sono ancora oggi messe in secondo piano spesso relegate nella categoria delle “opere accessorie”, anche se probabilmente le più utilizzate tra le opere di pubblica utilità. In questo contesto, la gestione del conglomerato bituminoso di recupero può davvero costituire un’opportunità per migliorare l’uso di ingenti risorse a beneficio della collettività di oggi e delle future generazioni.

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[1]Carlo Giavarini “Il valore delle nostre strade” in Rassegna del bitume n. 71/12

[2]Giovanni Da Rios “Settemila anni di strade”, Milano 2010

[3]D.Lgs. n. 106/2017 «Adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 305/2011, che fissa condizioni armonizzate per la commercializzazione dei prodotti da costruzione e che abroga la direttiva 89/106/CEE» (in Gazzetta Ufficialedel 10 luglio 2017, n. 159).

[4] Per approfondimenti si veda A. Martelli, Conglomerato bituminoso: le regole sull'end of waste

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