Cobot e sicurezza: un passo doppio possibile

I robot collaborativi: la nuova frontiera senza dimenticare la prevenzione

Cobot e sicurezza.

Fin dal loro ingresso nel campo dell’automazione, i cobot si sono distinti immediatamente per alcune differenze sostanziali, rispetto alla tradizionale offerta robotica, che hanno di fatto riscritto le regole del gioco. Il livello di sicurezza intrinseco dei cobot ha dimostrato la possibilità di una robotica in grado di essere implementata in tempi rapidi, con spese di attrezzaggio contenute, in layout saturi e senza la necessità di segregare porzioni di spazio da destinare all’operatività del robot (separata da quella dell’uomo). In sostanza si è venuto a creare per le imprese un modo nuovo di produrre e automatizzare.

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I robot collaborativi di Universal Robots, il primo e principale player del settore dell’automazione collaborativa, sono nati nel 2005, quando un team dell’università danese di Odense, iniziò lo sviluppo del primo prototipo (un UR5) che poi sarebbe entrato in commercio nel 2008. Si tratta di un braccio robotico collaborativo che offre 5 kg di portata al polso e uno sbraccio operativo di 850 mm. Seguirono UR10 (10 kg per 1300 mm), UR3 (3 kg per 500 mm). Nel 2018 UR presentò la e-Series, la gamma cobot con nuove e incrementate caratteristiche di ripetibilità e facilità di programmazione. Nel 2019 la gamma cobot si arricchì di un’ulteriore proposta: UR16e (16 kg per 900 mm) al momento il cobot più potente della e-Series, nonché il più preciso e potente della sua classe di reach (+/- 0,05 mm di ripetibilità alla massima velocità e al massimo sbraccio).

I cobot nacquero principalmente in risposta a un bisogno di flessibilità per automatizzare operazioni semplici e produzioni con un elevata variabilità. Immediatamente si pose il problema della sicurezza: essendo strumenti dal deployment rapido dovevano anche garantire la possibilità di essere applicati in ogni condizione operativa, anche senza gabbie di protezione.

Abbiamo chiesto ad Alessio Cocchi, country manager Italia di Universal Robots, di guidarci nella definizione di sicurezza e illustrarci perché i cobot sono considerate macchine sicure.

Cobot e sicurezza
Alessio Cocchi, country manager Italia di Universal Robots

«I cobot vengono definiti “quasi macchine” poiché sono automazioni aspecifiche, in grado di svolgere decine di applicazioni diverse. L’abbinamento con un end effector consente l’automazione di compiti specifici. I cobot UR sono intrinsecamente sicuri poiché, in virtù delle 17 safety native, sono in grado di garantire l’incolumità dell’operatore in ogni condizione. Quella che va approfondita ed analizzata – secondo la normativa vigente - è invece l’analisi del rischio e la sicurezza dell’applicazione. Un cobot sarà sempre sicuro, ma se, per esempio, nell’esecuzione del task maneggia strumenti taglienti appuntiti, allora è necessario verificare che l’applicazione nel suo complesso sia sicura per l’operatore. Questa quindi è una prima fondamentale specifica da tenere presente: fare la valutazione dei rischi della singola applicazione».

A quali norme si deve fare riferimento per la cosiddetta analisi del rischio?

«Premetto che il tema della sicurezza è estremamente complesso. Quando lo affrontiamo nell’ambito dei nostri corsi gli dedichiamo un giorno di formazione intero. Qui mi limiterò a qualche accenno orientativo. Le norme sono sostanzialmente di tre tipi, con l’aggiunta di una technical specification che non ha valore obbligatorio, ma funge da linea guida. Abbiamo le norme di tipo A come la Iso 12100, che riguarda in generale l’analisi del rischio. Le norme di tipo B come la Iso 13849-1 (che dettaglia il comportamento delle singole parti dell’applicazione). Infine le norme di tipo C che riguardano nello specifico i robot e danno indicazioni ai costruttori (Iso 10218-1) e agli integratori (Iso 10218-2). Vi è poi la Iso/Ts 15066 che è una specifica tecnica che fornisce alcune indicazioni su parametri come forza e pressione. Premetto però che non ci sono parametri fissi che definiscono sicura un’applicazione. Anche a bassa velocità e con ridotto grado di forza la manipolazione di un oggetto tagliente può risultare pericolosa. I casi vanno valutati uno per uno conducendo l’analisi non tanto sul cobot (che è intrinsecamente sicuro) né sulla cella, ma sull’applicazione robotica nel suo complesso».

 

Cosa distingue i cobot Universal Robots?

«Un buon robot collaborativo deve offrire all’utente la possibilità di incidere su molti e diversi parametri di sicurezza per rendere nullo il rischio per l’operatore. I cobot UR offrono ben 17 funzioni di sicurezza PLD in categoria 3, che significa che vi è un doppio controllo su ciascuna funzione e che in caso di malfunzionamento di un controllo, subentra il secondo. Le safety vanno a regolare velocità, forza, momento angolare, possibilità di movimento dei singoli gradi di libertà del cobot. Ma non si limitano a fare solo questo. Per Universal Robots al concetto di sicurezza si è sempre associato anche quello di collaboratività, intesa come semplicità di programmazione, flessibilità, facilità e rapidità di impiego e reimpiego. Le nostre safety incidono anche su questi aspetti. Ad esempio posso creare un’area di lavoro condivisa in cui il movimento del cobot avviene a parametri “ridotti” (reduced mode: un comportamento ancor più collaborativo e sensibile agli urti) o addirittura aree in cui vieto al cobot di lavorare (restricted zone). È sufficiente impostare un piano verticale virtuale nella programmazione (sono fino ad 8 i piani virtuali configurabili). All’approssimarsi del piano virtuale il cobot rallenta fino ad arrestarsi e non lo oltrepasserà mai,  se questo viene programmato come invalicabile appunto. In questo modo posso far operare gomito a gomito l’addetto e il robot conservando l’apertura del layout. Questo abbatte le spese di attrezzaggio e i fermi macchina. Oppure posso andare ad aumentare il grado di “sensibilità” del cobot quando questi entra nella zona condivisa con l’operatore: velocità e potenza andranno a scemare. Le safety vanno quindi interpretate non solo come un modo per rendere sicuro il robot, ma anche per rendere più flessibile ed accessibile l’applicazione e più semplice e rapido il suo sviluppo».

Ai robot viene generalmente riconosciuta anche la capacità di migliorare l’ergonomia delle operazioni di produzione. Vale anche per i cobot?

«Vale a maggior ragione per i cobot, che quindi non sono solo strumenti sicuri (intrinsecamente) ma anche in grado di aumentare la sicurezza dell’ambiente lavorativo proprio perché migliorano le condizioni di ergonomia dello stesso. Faccio alcuni esempi. I cobot danno il meglio quando applicati in compiti cosiddetti DDD (dull, dirty, dangerous, ovvero noiosi, sporchi e pericolosi). Ad esempio il palletizing. Caricare in pedana decine di volte al giorno dei colli più o meno pesanti può causare disordini muscolo scheletrici nell’operatore. Il cobot, nei limiti del payload, è lo strumento più performante per questa operazione. Entra rapidamente in funzione e in caso di cambiamenti sulla linea può essere facilmente impiegato in altre operazioni, o su pallettizzazioni basate su pattern diversi. E solleva l’operatore da un compito ripetitivo a bassissimo valore aggiunto. Un altro esempio è dato da alcune operazioni di assemblaggio. Il nostro cliente PSA ha integrato i cobot nella linea di avvitatura delle vetture. I cobot vanno a posizionare e serrare tre viti per lato nella parte inferiore della scocca, una zona difficile e molto scomoda da raggiungere per gli operatori. Posso continuare citando esempi in cui i cobot manipolano componenti pericolosi, taglienti, caldi, tossici. Tutti casi in cui svolgono il loro compito in maniera sicura (in PSA operano a fianco all’operatore che interviene sulla parte superiore della scocca) e contribuiscono al tempo stesso a rendere più sicuro e gradevole l’ambiente di lavoro».

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