Dai reati ambientali, spunti sul D.Lgs. n. 231/2001

La sentenza della Cassazione 44372/2022 tratta aspetti particolarmente complessi della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, concentrando argomenti e osservazioni in poche righe, con i conseguenti rischi interpretativi che da ciò possono discendere. Uno dei passaggi controversi riguarda la sovrapposizione che i giudici di legittimità operano tra l’elemento soggettivo del delitto e una parte dell’elemento oggettivo dell’illecito “231” trova origine nella natura del dolo di traffico illecito

(Dai reati ambientali, spunti sul D.Lgs. n. 231/2001)

 

Il dibattitto sull’applicabilità del D.Lgs. n. 231/2001 a quelle società che, seppur enti giuridici formalmente distinti, di fatto, risultino affetti da una identificazione materiale, concreta, con la persona fisica che, all’interno dell’organizzazione aziendale, riveste il ruolo di legale rappresentante - magari anche amministratore e socio unico - sembra oggi ormai risolto con l’affermazione del principio del libero convincimento del giudice; in altre parole, spetta al giudicante valutare, caso per caso, se la persona giuridica costituisca o meno un autonomo centro di imputazione al quale sia ascrivibile una propria responsabilità, secondo il dettato del D.Lgs. n. 231/2001 (Cassazione penale, sez. VI, 6 dicembre 2021, n. 45100).

Il fine è quello di evitare l’ingiustificata duplicazione della sanzione derivante da reato (rectius, da illecito amministrativo); per dirla con le parole della Suprema Corte, corre insomma «l'esigenza di evitare violazioni del principio del bis in idem sostanziale, che si realizzerebbero imputando alla persona fisica un cumulo di sanzioni punitive per lo stesso fatto, e quella opposta, quella, cioè, di evitare che la persona fisica, da una parte, si sottragga alla responsabilità patrimoniale illimitata, costituendo una società unipersonale a responsabilità limitata, ma, al tempo stesso, eviti l'applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, sostenendo di essere una impresa individuale» (Cassazione penale n. 45100/2021).

La questione “dimensione dell’azienda”

Peraltro, fino a questo momento, l’analisi della giurisprudenza, di merito e di legittimità, ha interessato situazioni relativamente “semplici”: dalla società unipersonale, gestita da un amministratore unico – che coincide con la stessa proprietà – alle imprese familiari, ove, sebbene si assista alla moltiplicazione di soci e amministratori, di fatto l’amministrazione dell’ente resta nelle mani dei componenti del nucleo famigliare. In casi come questo, una sanzione all’ente giuridico, nella realtà dei fatti, interessa nuovamente le persone fisiche e il loro patrimonio, essendo l’organizzazione aziendale in concreto priva di “individualità”.

Discorso certamente diverso deve essere fatto in contesti societari ed economici più complessi, anche nel caso in cui la società incolpata sia una società unipersonale, ma partecipata da società di capitali, ovvero caratterizzata da una complessità e una patrimonializzazione tali da rendere evidente l'esistenza di un centro di imputazione di interessi giuridici autonomo e indipendente rispetto a quello facente capo al singolo socio.

La pronuncia della suprema Corte

Recentemente, la Corte di Cassazione è tornata a trattare del dato dimensionale dell’azienda, seppur incidentalmente, nell’ambito di un procedimento cautelare, con la sentenza della sezione II 13 ottobre 2022, n. 44372.

In particolare, la suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso avverso una decisione del tribunale del riesame che ha confermato, nell’ambito di indagini preliminari per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies, codice penale, il sequestro preventivo dei beni e del patrimonio aziendale della società.

Il tema trattato dalla sentenza in parola è principalmente quello del difetto di legittimità del ricorrente alla presentazione del ricorso e, in particolare, dell’incompatibilità della persona fisica indagata/imputata del medesimo reato dell’ente a conferire mandato difensivo per la rappresentanza in giudizio dell’ente medesimo[1]Vedere l’art. 39, D.Lgs. 231/2001 che, come noto, prevede una incompatibilità tra il legale rappresentante imputato e il legale rappresentante che può firmare gli atti processuali necessari alla partecipazione dell’ente nel processo a suo carico, disponendo che «l'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo»..

Trattando di questo argomento, la Corte di Cassazione si è spinta a trattare anche dell’illecito “231”, lasciando in non poca difficoltà l’interprete, non solo per le normali caratteristiche del procedimento cautelare, stante la sua natura incidentale, ma anche perché non è dato comprendere se il procedimento principale effettivamente sia stato iscritto anche a carico della società.

Si legge, infatti: «Ai fini delle conclusioni che precedono, non rileva che la responsabilità dell'ente non sia stata accertata o che non risulti ex actis formalmente contestata, dovendosi rapportare la situazione contemplata dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 39 alla prospettazione accusatoria e agli atti di indagine - ossia al fumus - con la conseguenza che qualora, come nel caso in esame, la condotta contestata al legale rappresentante e amministratore possa porsi a fondamento dell'illecito della società, così come tipizzato dalla normativa richiamata, diviene ostensibile il conflitto di interessi derivante dall'essere il legale rappresentante indagato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo».

Da questa affermazione è ragionevole dubitare anche sull’esistenza effettiva di un capo di incolpazione, seppur provvisorio, a carico dell’ente. Peraltro, nel testo del provvedimento ora in analisi non si rinviene alcun riferimento agli articoli del decreto legislativo 231 che regolano il sequestro preventivo (artt. 53), il sequestro conservativo (art. 54) ovvero, ancora, l’applicazione della sanzione interdittiva quale misura cautelare (artt. 45 e seguenti).

Qualora questo dubbio fosse fondato, ci si troverebbe nella situazione in cui la Corte suggerisce l’applicabilità di una disciplina non effettivamente ricompresa nelle contestazioni del procedimento principale, quasi in un’ottica preventiva e/o suppletiva.

Proprio questa circostanza avrebbe dovuto consigliare maggiore cautela nell’entrare – a fronte, peraltro, di un difetto di legittimazione del ricorrente – nel merito della responsabilità della persona giuridica (coinvolta?) nel procedimento.

E ancora maggiore cautela avrebbe dovuto essere utilizzata nell’affrontare gli istituti dell’illecito 231. La Corte, invece, ha affermato che, nel caso in esame, «stante l'asservimento della persona giuridica e del plesso aziendale alla realizzazione del reato ambientale, si configura pertanto, ai sensi del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, comma 1, lett. a) e art. 25-undecies in relazione all'art. 452-quaterdecies c.p., già D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 260, una responsabilità dell'ente, in conseguenza del reato ambientale presupposto ascritto al ricorrente, in concorso con altri[...].

Infatti, il requisito dell'interesse o vantaggio dell'ente - quale condizione per la configurabilità della responsabilità amministrativa della società - è particolarmente evidente a proposito del reato in questione, posto che la commissione del reato stesso è finalizzata a conseguire indebiti ricavi dall'esercizio di attività in tutto o in parte abusive ovvero a trarre risparmi di spesa dall'esercizio stesso. E in tale disegno risultano coinvolti tanto entrambi gli amministratori della società, additati come artefici del disegno illecito, quanto lo stesso compendio aziendale, strumentale alla realizzazione del fine illecito».

 

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Cosa non torna

Il quadro appare, quindi, tutto fuorché chiaro.

Infatti, pur potendo astenersi dall’entrare nel merito della vicenda quanto agli aspetti 231, la Cassazione non solo lo fa, ma argomenta sovrapponendo due distinti temi: l’asservimento della persona giuridica alla commissione del reato e l’elemento oggettivo dell’illecito 231 costituito dall’interesse o vantaggio. Temi che, al contrario, sono del tutto diversi tra loro e la cui commistione non consente di fare chiarezza sugli elementi strutturali della responsabilità amministrativa derivante da reato.

Peraltro, il totale asservimento della persona giuridica alla commissione dei reati è caratteristico dell’impresa intrinsecamente illecita, che il legislatore non ha preso in esame, se non marginalmente nel comma 3 dell’art. 16, D.Lgs. n. 231/2001[2]L’art. 16, comma 3, dispone che «se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività e non si applicano le disposizioni previste dall'articolo 17»., anche per l’incompatibilità logica e fattuale di tali realtà con le forme di esonero da responsabilità previste dagli artt. 6 e 7, D.Lgs. n. 231/2001.

Pur non escludendo, come è ovvio che sia, l’applicabilità dell’apparato sanzionatorio del D.Lgs. n. 231/2001 all’ente ontologicamente criminale, è chiaro che il decreto 231 è principalmente volto a sanzionare enti leciti, prevedendo elementi difficilmente realizzabili nell’ambito di una impresa intrinsecamente illecita (si pensi, infatti, ai criteri attraverso i quali si potrebbe individuare l’interesse, il vantaggio e, ancora, la colpa di organizzazione).

E in questo senso prosegue la Corte di Cassazione, affermando come, nel caso di specie, si assista ad «una compenetrazione tra soggetti a cui compete la rappresentanza ed amministrazione della società e la persona giuridica stessa stabilmente asservita con la sua compagine e patrimonio alla commissione delle attività criminose (cd. ipotesi della società strutturalmente illecita), di talché le decisioni dei soggetti di vertice esprimendo realmente la politica aziendale rendono del tutto recessiva, soprattutto nell'ambito della fase cautelare, la verifica dell'esistenza di modelli organizzativi, attesa anche la "confusione" tra gestione e "proprietà", risultando gli amministratori anche titolari, pro-quota, del capitale della società».”

Il dato dimensionale, quindi, torna al centro del dibattito relativo allo strutturarsi dell’illecito “231”.

Una società amministrata da uno o più soggetti “accentratori” aumenta il rischio di essere considerata, quasi automaticamente, come un “bene” nella loro esclusiva disponibilità, annullando l'esistenza di un diaframma (utilizzando le parole del legislatore nella relazione al 231) che separi quest'ultima dal loro operato.

E, quindi, delle due l’una: o si tratta di “impresa criminale” o si tratta di bis in idem[3]Principio in base al quale, per uno stesso fatto, non può esserci un nuovo procedimento nei confronti di un imputato – prosciolto o condannato che sia – già giudicato in via definitiva. sostanziale.

In entrambi i casi non sarebbe stato necessario, anche perché effettivamente non possibile, trattare dell’interesse o vantaggio, in quanto entrambi impossibili da isolare rispetto alla colpevolezza del soggetto agente (persona fisica).

Invece, la Corte di Cassazione tratta anche di questo tema, definendolo «particolarmente evidente a proposito del reato in questione, posto che la commissione del reato stesso è finalizzata a conseguire indebiti ricavi dall'esercizio di attività in tutto o in parte abusive ovvero a trarre risparmi di spesa dall'esercizio stesso».

Preliminarmente, non può non osservarsi che sarebbe contraddittorio il riferimento all’impresa criminale a fronte del riscontro di altre attività non “abusive”, perché ciò dimostrerebbe il non totale asservimento dell’ente agli scopi illeciti dei propri amministratori. Tuttavia, la scarsa comprensione del fatto, come risultante dal testo della motivazione, non consente di spingersi oltre.

Le connessioni con il traffico illecito di rifiuti

Ciò che, invece, sembra evidente è la sovrapposizione che i giudici di legittimità operano tra l’elemento soggettivo del reato e una parte dell’elemento oggettivo dell’illecito “231”.

Il tema trova origine nella natura del dolo del delitto di traffico illecito di rifiuti, per la sussistenza del quale non basta la sola volontà e rappresentazione del fatto tipico, ma occorre altresì il perseguimento del fine particolare specificato dal legislatore («al fine di conseguire un ingiusto profitto»).

L’ingiusto profitto, inoltre, non deve necessariamente assumere la natura di ricavo patrimoniale, ben potendo essere sufficiente il mero risparmio di costi o il perseguimento di vantaggi di altra natura: «ai fini della sussistenza del dolo specifico richiesto per l'integrazione del delitto di gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, il profitto perseguito dall'autore della condotta può consistere anche nella semplice riduzione dei costi aziendali» (vedere la sentenza della  Cassazione, sez. III, 2 luglio 2007, n. 28158).

Da queste poche parole, già risulta evidente come gli argomenti utilizzati ben possano essere calati, quantomeno in astratto, nei concetti di interesse o vantaggio. Tuttavia, limitarsi a questa forte assonanza sarebbe certamente riduttivo e non ineccepibile sotto il profilo prettamente giuridico.

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La maggior parte delle sentenze della Corte di Cassazione si preoccupa di precisare che, ai fini del dolo specifico di ingiusto profitto, non è necessario che il profitto stesso si realizzi. Per quanto ovvio, il fatto che siano ancora emesse decisioni in questo senso, spesso è la conseguenza di ricorsi ove viene esposto questo motivo di doglianza. Tuttavia, è bene ribadire non è assolutamente necessaria la realizzazione dell’obiettivo si realizzi: sarebbe come dire che non c’è il dolo di ricettazione se il ricettatore non riesce a rivendere la merce di provenienza furtiva al prezzo di realizzo in cui aveva sperato.

Resta il fatto che la ricorrenza di questo tema rischia non di rado di avvolgere la trattazione del dolo di traffico illecito in un manto generalizzante, sotto il quale non viene affrontato quello che dovrebbe essere il punto cruciale e cioè se l’imprenditore, nel momento in cui ha deciso di porre in essere una determinata operazione economica riguardante i rifiuti, si sia rappresentato e abbia voluto l’ottenimento di un profitto contra legem.

Infatti, è difficile ipotizzare una scelta imprenditoriale che non sia mossa dall’obiettivo di aumentare il profitto ovvero di diminuire i costi. E anche le realtà no-profit tendono comunque al contenimento dei costi e il loro agire può essere orientato da finalità che, per quanto encomiabili, corrispondono alle aspirazioni dei promotori.

La ricerca del carattere dell’ “ingiustizia” del dolo, che, per quanto possa essere banale evidenziarlo, cosa ben diversa dal requisito (oggettivo) dell’ “abusività” della gestione, impone che si analizzino tutti gli elementi, interni ed esterni all’impresa, di cui il titolare ha tenuto conto nel decidere di porre in essere una determinata operazione economica, per accertare che il profitto a cui l’imprenditore stesso tendeva era un profitto illecito, illegale, non dovuto, consapevolmente maggiore di quello che si sarebbe ottenuto svolgendo l’operazione con modalità diverse (sempre, ovviamente, prescindendo del tutto dal fatto che l’obiettivo sia stato realizzato o meno).

Il ragionamento, quindi, già in relazione al reato presupposto è tutt’altro che scontato, ma, con riferimento all’illecito “231”, assume una connotazione ulteriore. Difatti, seppur non raggiunto il risultato economico, occorre sempre una prova della sussistenza dell’interesse o del vantaggio, prova che deve essere fornita dal pubblico ministero e che non può esser ritenuta provata soltanto con il richiamo, per relationem, all’elemento soggettivo del reato presupposto.

Con la pronuncia in commento, insomma, la Corte di Cassazione sembra essersi mossa dando troppo per scontati temi che, invece, se è chiaro lo spirito e l’impianto strutturale del decreto legislativo 231, tutt’altro che scontati devono essere, richiedendo precisione di trattazione, senza argomentare secondo lo schema del “in re ipsa”.

Note   [ + ]

1. Vedere l’art. 39, D.Lgs. 231/2001 che, come noto, prevede una incompatibilità tra il legale rappresentante imputato e il legale rappresentante che può firmare gli atti processuali necessari alla partecipazione dell’ente nel processo a suo carico, disponendo che «l'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo».
2. L’art. 16, comma 3, dispone che «se l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta l'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività e non si applicano le disposizioni previste dall'articolo 17».
3. Principio in base al quale, per uno stesso fatto, non può esserci un nuovo procedimento nei confronti di un imputato – prosciolto o condannato che sia – già giudicato in via definitiva.

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