Discariche abusive: le ultime dalla Cassazione

Con la sentenza 31347/2021, la III sezione della suprema Corte è tornata a esprimersi in ordine alle condotte rilevanti ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 256, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006. A margine si segnala un interessante precedente del tribunale di Lecce di riqualificazione in abbandono di rifiuti. L'individuazione della corretta norma applicabile resta questione di primaria importanza, considerati i risvolti sul piano pratico sanzionatorio. La sentenza offre quindi l'occasione per fare il punto sulla legittimità, prendendo in considerazioni altre pronunce e tenendo in considerazione altre fattispecie quali l'abbandono di rifiuti e il deposito temporaneo. CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO

La disciplina

Occorre ricordare che la definizione di “discarica” è contenuta all’art. 2, comma 1, lettera g), D.Lgs. n. 36/2013 come «l’area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno».

Sono esclusi, pertanto, da questa definizione «gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo superiore a un anno».

 

La vicenda

Nel caso che ha dato luogo alla pronuncia in commento, l’imputato, al quale era stato contestato il reato di discarica abusiva di cui all’art. 256, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006, ha rilevato come non si potesse sostenere l’esistenza di una discarica, che presuppone necessariamente la dismissione definitiva del rifiuto; ciò tenendo conto del fatto che nel corso degli anni vi fosse stata una continua movimentazione dei rifiuti depositati presso il terreno di proprietà dell’imputato stesso e che queste operazioni fossero riconducibili alla nozione di deposito temporaneo (vedere il box 1) in quanto funzionali alla successiva attività di recupero/smaltimento. Da considerare, infine, che la constatazione circa l’identità di tipologia e la dimensione dei rifiuti all’esito dei diversi sopralluoghi non implicasse necessariamente la natura statica degli stessi.

 

Box 1

Il deposito temporaneo

L’art. 183, lettera bb) precisa che, per deposito temporaneo prima della raccolta, debba intendersi «il raggruppamento dei rifiuti ai fini del trasporto degli stessi in un impianto di recupero e/o smaltimento, effettuato, prima della raccolta ai sensi dell’articolo 185 bis».

Il deposito temporaneo si configura, quindi, come un’attività che esula dal concetto di gestione dei rifiuti, e si differenzia da altre due tipologie di deposito richiamate dal D.Lgs. n. 152/2006, ossia:

  • il deposito preliminare (D15), che si configura quale deposito prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14, e
  • la messa in riserva per sottoporre i rifiuti a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12 (R13).

Ancora, per soddisfare il requisito della temporaneità, il raggruppamento dei rifiuti ai fini del trasporto in un impianto di recupero o smaltimento deve rispettare, anzitutto, le condizioni di cui al comma 1 dell’art. 185-bis (inserito con la riforma del decreto legislativo 3 settembre 2020, n. 116) del D.Lgs. n. 152/2006, ovvero:

  1. nel luogo in cui i rifiuti sono prodotti, da intendersi quale l’intera area in cui si svolge l’attività che ha determinato la produzione dei rifiuti o, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci;
  2. esclusivamente per i rifiuti soggetti a responsabilità estesa del produttore, anche di tipo volontario, il deposito preliminare alla raccolta può essere effettuato dai distributori presso i locali del proprio punto vendita;
  3. per i rifiuti da costruzione e demolizione, nonché per le filiere di rifiuti per le quali vi sia una specifica disposizione di legge, il deposito preliminare alla raccolta può essere effettuato presso le aree di pertinenza dei punti di vendita dei relativi prodotti.

Infine, i rifiuti devono essere raccolti e avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito ovvero quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi.

In ogni caso il deposito temporaneo non può avere durata superiore a un anno.

 

La legittimità

Nel rigettare le deduzioni del ricorrente, la Corte di Cassazione ha rilevato, in primis, richiamando la precedente giurisprudenza di legittimità, come, ai fini della configurabilità del reato di discarica non autorizzata sia sufficiente l’accumulo dei rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato; del tutto irrilevante è la circostanza che manchino attività di trasformazione, recupero o riciclo (vedere anche la sentenza della Corte di Cassazione n. 39027/2018).

Questa considerazione si pone, dunque, sulla scia di precedenti pronunce giurisprudenziali che hanno sempre ritenuto integrato il reato di discarica abusiva in presenza di circostanze quali:

  • lo stoccaggio del materiale senza alcuna impermeabilizzazione idonea a impedire l’inquinamento del suolo sottostante;
  • le condizioni di degrado del sito;
  • l’eterogeneità dell’ammasso dei materiali;
  • la definitività del loro abbandono.

 

Indicatori quali quelli sopra elencati possono, quindi, effettivamente considerarsi avvisaglia dell’esistenza di una discarica. Per questo motivo, in presenza dei suddetti elementi di fatto, la mera movimentazione dei rifiuti (peraltro, nel caso di specie, avvenuta solo all’interno e non anche verso l’esterno del sito) non può considerarsi elemento idoneo ad escludere l’integrazione del reato contestato.

Inoltre, nel caso in esame, le circostanze di tempo (si è trattato, invero, di diversi anni) sono state tali da escludere di per sé la provvisorietà del deposito.

La recente sentenza in commento ribadisce e conferma, evidentemente, le precedenti pronunce, dettagliando e precisando meglio alcuni criteri caratterizzanti la fattispecie di discarica non autorizzata, quali la non occasionalità della condotta, la preordinata organizzazione, la durata nel tempo e la sua consistenza in termini quantitativi.

La condotta dell’imputato avrebbe potuto essere valutata anche alla luce della meno grave ipotesi prevista dall’art. 256, comma 2.

Come noto, l’art. 256, comma 2 punisce i titolari di imprese e i responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all'articolo 192, commi 1 e 2.

In assenza di definizione normativa del deposito incontrollato, si rileva che – secondo autorevole dottrina – lo stesso si distinguerebbe dalla condotta di abbandono e dalla discarica poiché costituirebbe una forma di gestione intermedia tra la fase di produzione e quella successiva di eliminazione o movimentazione, distinta dalla dismissione definitiva dei rifiuti prodotti[1]Crupi, Abbandono di rifiuti pag. 500 in “Il nuovo diritto penale dell’ambiente” a cura di Luigi Cornacchia e Nicola Pisani.

Il deposito incontrollato, pertanto, si distingue dalla discarica per l’assenza, in quest’ultima, di qualsivoglia attività di gestione volta allo smaltimento o al recupero. La giurisprudenza, inoltre, ha chiarito che il reato contravvenzionale di deposito incontrollato di rifiuti da parte di enti o imprese ha natura permanente perché riguarda un’ipotesi di deposito “controllabile” cui segue l’omessa rimozione, nei tempi e nei modi previsti dall’art. 183, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 152/2006, e cessa solamente a seguito dello smaltimento, del recupero o dell’eventuale sequestro (Corte di Cassazione n. 18411/2019).

 

Un precedente interessante

Sul tema si segnala un’interessante recente sentenza di merito (Tribunale di Lecce, sezione II n. 239/2021) con la quale il reato – originariamente ipotizzato come discarica abusiva – è stato riqualificato in abbondono di rifiuti. Infatti, il tribunale discostandosi parzialmente dall’orientamento maggioritario e richiamandosi a un passato orientamento giurisprudenziale, ha osservato che «poiché nella previsione normativa e nella giurisprudenza la discarica è un luogo deputato allo smaltimento dei rifiuti in forza di una preordinata attività organizzativa di predisposizione dei luoghi e poi di gestione degli stessi mediante riposizionamento dei rifiuti, per aversi discarica debba aversi una qualche attività di trasformazione del terreno, finalizzata a renderlo recettivo di rifiuti, mentre appaiono insufficienti, perché non sempre oggettivizzabili, i criteri quantitativi talora proposti dalla stessa giurisprudenza della Suprema Corte». La sentenza richiamata, pertanto, accantona – almeno parzialmente – quelli che sono i criteri “classici” distintivi delle due fattispecie, per risaltare, invece, la preordinata organizzazione nonché l’effettuazione di attività volte alla «trasformazione del terreno», inteso qui come operazioni indirizzate a preparare il luogo alla costituzione di una discarica.

L’individuazione operata dal tribunale di Lecce circa il criterio della trasformazione del terreno può ritenersi idoneo a desumere la costituzione di una discarica abusiva in modo certamente più netto dei criteri “classici” richiamati dalla sentenza della Suprema Corte in commento. In questa maniera, la sussistenza non verrebbe ricavata solamente dal superamento di limiti quantitativi/temporali caratterizzati da intrinseca incertezza, bensì garantirebbe – in presenza di ulteriori riscontri - maggior precisione nell’individuazione della fattispecie con conseguente riduzione del rischio di un giudizio discrezionale.

Tanto più che, ai fini della configurabilità del reato di discarica abusiva, il requisito della reiterazione non è più considerato essenziale, ritenendosi sufficiente anche un unico conferimento di ingenti quantità di rifiuti che faccia assumere alla zona interessata l’inequivoca destinazione di ricettacolo di rifiuti.

Ciò nondimeno, la corretta individuazione della norma applicabile non è priva di risvolti sul piano pratico sanzionatorio: alla sentenza di condanna o alla sentenza di patteggiamento per il reato di discarica abusiva di cui all’art. 256, comma 3, infatti, consegue sempre la confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica, se di proprietà dell'autore o del compartecipe al reato.

Note   [ + ]

1. Crupi, Abbandono di rifiuti pag. 500 in “Il nuovo diritto penale dell’ambiente” a cura di Luigi Cornacchia e Nicola Pisani

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