Divieto di fumo nei luoghi di lavoro – Il punto del giurista

Fra normativa e giurisprudenza

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro.

Il divieto di fumo - previsto dall’art. 51 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 e dal D.P.C.M. 23 dicembre 2003, in vigore dal 10 gennaio 2005 - si applica ai locali chiusi, aperti a utenti o al pubblico (in buona sostanza alle strutture dove si eroga un pubblico servizio, nonché a tutti gli esercizi commerciali e agli altri locali generalmente accessibili dalla clientela (ad esempio uno studio professionale, una banca eccetera) non anche ai luoghi di lavoro non aperti al pubblico (ad esempio gli uffici o i magazzini di un supermercato).

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Divieto di fumo nei luoghi di lavoro

Dal 2 febbraio 2016, il divieto opera anche con riguardo alle pertinenze esterne delle strutture universitarie ospedaliere, presidi ospedalieri e Irccs pediatrici e alle pertinenze esterne dei reparti di ginecologia  e ostetricia, neonatologia e pediatria delle  strutture universitarie ospedaliere e dei presidi ospedalieri e degli Irccs, nonché nei confronti dei conducenti «di autoveicoli, in sosta o in movimento, e ai passeggeri a  bordo  degli stessi in presenza di minori di anni diciotto e di donne in stato di gravidanza». Quest’ultima previsione ha la finalità di tutelare i minori e il nascituro dal fumo passivo: in particolare, si intende evitare che il minore di anni diciotto o la donna in stato di gravidanza, in un ambiente ristretto quale è l'autoveicolo, respirino il fumo consumato da altri (sia il fumo prodotto dalla combustione della sigaretta, sia quello che è stato prima inalato e successivamente espirato dai fumatori: vedere la circolare del minSalute 4 febbraio 2016).

Peraltro, in tutti i luoghi ove siano impiegati lavoratori subordinati (o a questi assimilabili) il divieto di fumo sussiste primariamente per effetto dell’obbligo di osservanza della normativa di igiene del lavoro (D.Lgs. n. 81/2008, artt.  237 e seguentis., 252, 257, 273 e allegati IV e XIII, oltre alla legislazione speciale di settore: ad esempio, il D.Lgs. n. 624/1996, art. 43; D.Lgs. n. 272/99, art. 35 eccetera).

Il punto del giurista

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: il merito

Del resto, anche la giurisprudenza (tribunale di Milano, sentenza 1° marzo 2002, estensore Saresella; tribunale di Bari, ordinanza 26 marzo 2002, estensore Baldi; tribunale di Roma, sezione I lavoro, sentenza 4 ottobre 2001; tribunale di Roma, sezione I lavoro, sentenza 16 settembre 2000, estensore Mastroberardino), oltre che il ministero della Salute (circolare n. 4/2001 e circolare 17 dicembre 2004), conformemente alle indicazioni dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) facente capo all’Organizzazione mondiale della sanità, hanno riconosciuto che l’esposizione al fumo passivo costituisce uno specifico fattore di rischio professionale, e determina di conseguenza l’obbligo, per il datore di lavoro, di individuare idonee misure di prevenzione e di protezione, con particolare riguardo a quelle inerenti alla salubrità degli ambienti di lavoro.

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: la Corte costituzionale

Anche la Corte costituzionale (sentenza n. 399 dell'11 dicembre 1996) ha affermato che la legislazione di igiene del lavoro, sebbene non preveda espressamente il divieto generalizzato di fumare negli ambienti di lavoro chiusi, appresta tuttavia strumenti idonei e sufficienti a consentire la riduzione dei rischi collegati al cosidetto "fumo passivo" durante il lavoro, atteso che la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona, e impone piena ed esaustiva tutela, operante sia in ambito pubblicistico sia nei rapporti di diritto privato, sicché ove si profili una incompatibilità tra il diritto alla tutela della salute, costituzionalmente protetto, del singolo, e i liberi comportamenti altrui che non hanno una diretta copertura costituzionale, come la libertà di fumare, deve ovviamente darsi prevalenza al primo. Dunque, quand’anche la normativa di igiene del lavoro non regoli dettagliatamente ogni fattore di rischio professionale, nondimeno - secondo la Corte - è preciso compito del datore di lavoro e degli altri soggetti obbligati di «attivarsi per verificare che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata”, trovando “le misure organizzative sufficienti a conseguire il fine della protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio costituzionale dell'art. 32”, di modo che la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di lavoro può ritenersi soddisfatta quando, “mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio».

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: il Tar Lazio

Merita poi richiamare, tra le altre di orientamento conforme, la sentenza del Tar del Lazio (sez. III-ter, 1° agosto 2005, n. 6068), di annullamento dell'art. 51, comma 5, della legge n. 3/2003, nonché dell’accordo della Conferenza Stato-Regioni (punti 4, 2.5 e 3), in relazione all'obbligo dei conduttori di tutti i locali chiusi (locali privati aperti al pubblico, salvo che si tratti di locali «privati non aperti ad utenti o al pubblico», ovvero «riservati ai fumatori e come tali contrassegnati») di operare una generale vigilanza e di segnalare la trasgressione ai soggetti pubblici titolari del potere sanzionatorio.  Di fronte all’obiezione, sollevata dal gestore di un bar, il quale era stato sanzionato dalla polizia municipale per avere omesso di far rispettare la norma relativa al divieto di fumare in tutti i locali privati aperti al pubblico, che del contenuto degli obblighi positivi imposti ai gestori privati (sia dall’accordo della Conferenza Stato-Regioni sia dalla circolare ministeriale) non v'è traccia in alcuna disposizione di legge, e che in tal modo si determina la surrettizia trasfigurazione giuridica di un soggetto privato (gestore) in una figura pubblica, ovvero in un incaricato di pubblica funzione o di pubblico servizio (il che è di per sé sintomo di sviamento di potere), il Tar ha riconosciuto la specifica violazione della riserva relativa di legge contenuta nell'art. 23 della Costituzione, alla stregua del quale «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, nonché nel successivo art. 41, norma che parimenti sancisce che i limiti alla libertà di iniziativa economica, corrispondenti all'utilità sociale privata, possono essere configurati unicamente nel rispetto della riserva relativa di legge». Nel ritenere che occorreva una previsione legislativa per imporre i descritti doveri di vigilanza a fini pubblici nei confronti di soggetti che esercitano la propria libertà di iniziativa economica privata nell'ambito di locali aperti al pubblico, il giudice amministrativo ha stabilito che il contenuto dell'obbligo imposto ai conduttori dei locali sia solamente quello di esporre, in posizione visibile, cartelli riproducenti il divieto di fumo, con l'indicazione della sanzione comminata ai trasgressori (art. 2, comma 3, della legge n. 584/1975), non anche degli ulteriori "obblighi positivi" di richiamare formalmente i trasgressori all'osservanza del divieto di fumare, e di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali competenti a contestare la violazione e ad elevare il conseguente verbale di contravvenzione. Questo orientamento giurisprudenziale è stato confermato definitivamente in alcune pronunce del Consiglio di Stato (sezione V, sentenza 7 ottobre 2009, n. 6167, n. 6168, n. 6169, n. 6170).

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: le ricadute

La decisione del giudice amministrativo consente di riflettere sul contenuto e sulla portata della pronuncia, riguardata dal versante relativo all’applicazione della normativa di tutela della salute dei lavoratori subordinati durante il lavoro. Alla luce del quadro normativo vigente, quand’anche si riconosca l’insussistenza, sul piano amministrativo, dell’obbligo dei gestori di pubblici esercizi di richiamare formalmente i trasgressori all'osservanza del divieto di fumare, e di segnalare, in caso di inottemperanza al richiamo, il comportamento dei trasgressori ai pubblici ufficiali competenti a contestare la violazione e ad elevare il conseguente verbale di contravvenzione, va da sé che quantomeno l’obbligo di richiamo e di pretesa (non invece quello di segnalazione) è autonomamente già contenuto nei precetti contenuti nella normativa di tutela della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro.

Del resto, la protezione dagli agenti chimici pericolosi è prevista dal titolo IX, capo I del D.Lgs. n. 81/2008 (artt. 221-232), e il fumo di sigaretta rientra a pieno titolo tra gli "agenti chimici pericolosi" (ex art. 222, comma 1, numero 3 del D.Lgs. n. 81/2008), il che impone un’azione adeguata di valutazione del rischio.

Si ricordi poi che già l’art. 6 del D.Lgs. n. 184/2003 e ora l’art. 9 del D.Lgs. n. 6/2016 prevedono che sulle confezioni di prodotti da fumo del tabacco siano obbligatoriamente apposte un’avvertenza generale («Il fumo uccide, smetti subito»; oppure «Il fumo danneggia gravemente te e chi ti sta intorno»), un messaggio informativo supplementare («Il fumo del tabacco contiene oltre 70 sostanze cancerogene») e una delle cosiddette “avvertenze combinate” (testuali-fotografiche) tra quelle degli allegati I e II al decreto legislativo.

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: le sigarette elettroniche

Quanto alla produzione e alla messa in commercio delle “sigarette elettroniche”, l’art. 21 del D.Lgs. n. 6/2016 già citato assoggetta a disciplina anche questi prodotti, prevedendo tra l’altro che sulle confezioni sia apposta l’avvertenza «Prodotto contenente nicotina, sostanza che crea un’elevata dipendenza. Uso sconsigliato ai non fumatori». Con l’interpello n. 15 del 24 ottobre 2013, il ministero del Lavoro si è espresso, ritenendo che alle sigarette elettroniche il divieto di fumo previsto dall'articolo 51 della legge n. 3/2003 a tutela della salute dei non fumatori, ferma restando la possibilità il datore di lavoro, nell'ambito della propria organizzazione, di vietare l'uso delle sigarette elettroniche in azienda. Laddove l’uso sia consentito, ciò può avvenire «solo previa valutazione dei rischi, ai sensi delle disposizioni vigenti. La suddetta valutazione dovrà tener conto del rischio cui l'utilizzazione della sigaretta elettronica può esporre i lavoratori, in ragione delle sostanze che possono essere inalate, a seguito del processo di vaporizzazione (nicotina e sostanze associate)». Da ultimo, si ricorda che l’art. 24, comma 3 del D.Lgs. n. 6/2016 ribadisce il generale divieto di fumo per i minori di diciotto anni, introducendo il divieto di vendita ai minori di sigarette elettroniche e contenitori di liquido di ricarica con presenza di nicotina, nonché di prodotti del tabacco di nuova generazione. Il divieto di vendita ai minori di sigarette elettroniche con presenza di nicotina (ora garantito anche per le vendite effettuate tramite distributore automatico), in passato era disciplinato da ordinanze contingibili e urgenti di questo ministero.

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: il ruolo del datore

In base alle indicazioni della circolare del Ministero della salute del 17 dicembre 2004, nell’accezione di “utenti” beneficiari nell’ambito della tutela della salute dei non fumatori devono essere ricompresi anche i lavoratori dipendenti che usufruiscono dei locali nell'ambito dei quali prestano la loro attività lavorativa. Una cosa, dunque, è la tutela della salute pubblica; altra cosa è l’igiene del lavoro, cerchio concentrico di proporzioni minori disciplinato dal diritto penale del lavoro. In quest’ottica più ristretta, l’obbligo di richiamare i trasgressori all'osservanza del divieto di fumare, non è che il necessario strumento per la salvaguardia effettiva e sostanziale dell’integrità psicofisica di ciascun lavoratore dipendente. Del resto, non solo il datore di lavoro ha il precipuo interesse a far rispettare il divieto, anche per tutelarsi da eventuali rivalse da parte di tutti coloro che potrebbero instaurare azioni risarcitorie per danni alla salute causati dal fumo (significative, in tal senso, le pronuncia del tribunale di Milano, 1° marzo 2002 e del tribunale di Roma, 20 giugno 2005), ma è la stessa ratio della legislazione antifumo che, perseguendo il fine primario della «tutela della salute dei non fumatori», implica la massima estensione possibile del divieto di fumare, che, come tale, deve essere ritenuto di portata generale, con la sola, limitata esclusione delle eccezioni espressamente previste.

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: obiettivo Ue

Poiché il fumo di tabacco è la più importante causa di morte prematura e prevenibile in Italia e rappresenta uno dei più gravi problemi di sanità pubblica a livello mondiale, la prevenzione dei gravi danni alla salute derivanti dalla esposizione attiva e passiva al fumo di tabacco costituisce un obiettivo prioritario della politica sanitaria di tutti i Paesi dell’Unione europea.

Se l'obbligo di proteggere i lavoratori dal fumo passivo «discende, oltre che dal rispetto delle prescrizioni legislative, dalle diligenti valutazioni del datore di lavoro in corrispondenza alle diverse circostanze in cui viene prestata l'attività lavorativa, nonché dal controllo dei lavoratori, degli ispettori e del giudice del lavoro» (Corte costituzionale, n. 399/96, cit.), per altro verso l’art. 20, comma 2, lett. b) del D.Lgs. n. 81/2008 obbliga ciascun lavoratore, sotto comminatoria di sanzione penale, a osservare «le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale».

Divieto di fumo nei luoghi di lavoro: la Cassazione…

Sotto altro profilo, ai sensi dell'art. 2104 del codice civile, il prestatore di lavoro «deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende». In una vicenda giudiziaria, nella quale un lavoratore era stato sorpreso a fumare, in spregio del relativo divieto reso evidente dall’affissione, nei locali dell'azienda, di specifici cartelli indicatori, la corte di Cassazione (sez. lavoro, 16 aprile 2004, n. 7291) ha sostanzialmente recepito le indicazioni del Ccnl di settore, il quale prevedeva i provvedimenti della ammonizione scritta, multa o sospensione in caso di lavoratore che «contravvenga al divieto di fumare, laddove questo esiste e sia indicato con apposito cartello»; e la misura del licenziamento per il lavoratore che provochi all'azienda grave nocumento morale o materiale, come quello di «fumare dove ciò può provocare pregiudizio all'incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti». Secondo i giudici della suprema Corte, la violazione del divieto di fumare sul luogo di lavoro comporta sempre l'applicabilità di sanzioni disciplinari, anche se l’irrogazione della sanzione espulsiva appare legittima solo in caso di esposizione a pericolo di persone e cose (mentre, nel caso di specie, la violazione non aveva «creato, per le concrete modalità ed il contesto in cui è stata posta in essere, la paventata esposizione a pericolo»).

… il Tar Abruzzo…

Un’altra sentenza dei giudici amministrativi (Tar Abruzzo, sez. Pescara, 2 dicembre 1999, n. 897 – presidente Catoni, estensore Eliantonio - D.R. c. ministero Poste e telecomunicazioni) ha ritenuto dipendente da causa di servizio - e dunque indennizzabile - una "scivolata" causata dall'ambiente di lavoro reso "insalubre" per il fumo, in un caso in cui l'infortunio subito dal dipendente (contusione cranica e del rachide lombo-sacrale) era accidentalmente derivato dalla necessità di allontanarsi dal posto di lavoro a causa di condizioni insalubri, derivanti dall'eccessiva presenza di fumo nei locali. La valutazione del tribunale è stata che «una volta accertato che il posto di lavoro è divenuto insalubre a causa del fumo di sigarette nei locali, deve ritenersi che il datore di lavoro sia responsabile della nocività del posto di lavoro per la violazione di specifici obblighi di comportamento imposti da norme di legge», e che «il temporaneo allontanamento dal posto di servizio "per respirare un po’ di aria salubre" non può qualificarsi come allontanamento non autorizzato dal posto di lavoro, e non è idoneo ad interrompere, sia pur temporaneamente, il nesso di causalità fra la prestazione del servizio e infortunio».

… di nuovo la suprema Corte…

Più di recente i giudici della suprema Corte sono nuovamente intervenuti sulla problematica del danno alla salute, causata da una prolungata esposizione al fumo passivo. Nel caso deciso da Cassazione civile, sez. lavoro, 16 febbraio 2011, n. 3789, è stata rigettata la domanda proposta da una docente di scuola materna la quale, in una causa per mobbing, aveva tra l’altro lamentato di essere stata esposta per lungo tempo al «fumo passivo dei colleghi». La Cassazione ha considerato corretta la decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto non sufficientemente provato l’assunto della lavoratrice. Di segno opposto la pronuncia di Cass. Civile, sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3227: si trattava della costituzione di una rendita per inabilità permanente del 47% a un geometra dipendente comunale, che per oltre trent'anni aveva lavorato, per circa cinque ore il giorno, in un locale non areato e aperto al pubblico, insieme a un altro collega fumatore. L’origine professionale della patologia polmonare («asma bronchiale intrinseco ed enfisema polmonare»), è stata riconosciuta su base “epidemiologica” all’esito di una consulenza tecnica disposta dai giudici di merito.

…e ancora il Tar Lazio

Ancora il Tar Lazio (sent. 29 gennaio 2010, n. 1192) ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire il danno non patrimoniale subito da un operatore in servizio presso una casa circondariale, in relazione alla violazione del divieto di esposizione al fumo passivo durante il lavoro, imputabile alla responsabilità dell’amministrazione di appartenenza.

Le Province e le Regioni

Nell’ultimo decennio, molte Regioni e Province autonome hanno legiferato in materia. Tra le altre, la Provincia autonoma di Bolzano, con la legge 3 luglio 2006, n. 6 ha dettato la disciplina in tema di «Tutela della salute dei non fumatori», la quale ricalca quella statale, di cui all’art. 51 della legge n. 51/2003. La legge provinciale n. 6/2006 inizialmente era più restrittiva di quella statale: sia perché precisava che la realizzazione di aree riservate ai fumatori nei pubblici esercizi e nei luoghi di lavoro non rappresenta affatto un obbligo, bensì una mera facoltà; sia perché aveva individuato alcuni luoghi e strutture in cui il divieto di fumo è assoluto (nel senso che non è consentita la creazione di aree riservate ai fumatori) e si estende anche ai luoghi aperti di pertinenza di determinate strutture. Si tratta delle scuole per l’infanzia, delle scuole di ogni ordine e grado, e delle strutture per giovani, tutte da definire con successivo regolamento di esecuzione). Quest’ultima previsione è stata poi estesa a livello statale, a far data dal 16 luglio 2015, dall’art. 4 del D.L. 12 settembre 2013, n. 104.

I titolari e gli esercenti dei luoghi in cui vige il divieto di fumo hanno l’obbligo di affiggere in posizione visibile l’apposita segnaletica, di provvedere alla corretta manutenzione degli impianti per la ventilazione ed il ricambio d’aria nelle aree riservate ai fumatori, e di attuare interventi attivi di dissuasione nei confronti dei trasgressori. La sanzione per l’inosservanza del divieto di fumo è del pagamento di una somma da euro 27,50 a euro 275 (raddoppiata, qualora la violazione sia commessa in presenza di una donna in evidente stato di gravidanza o in presenza di lattanti o bambini fino a dodici anni) e quella nei confronti dei gestori va da 220 a 2.200 euro (con aumento del 50% nel caso di impianti di ventilazione e ricambio d’aria non funzionanti o inefficienti).

 

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