La disciplina dei rifiuti e la gestione di Trs, riporti, sedimenti e fanghi

Un'analisi del quadro legislativo aggiornata con le ultime pronunce giurisprudenziali

La disciplina europea

La legislazione italiana in materia di rifiuti è in larga parte di derivazione europea; regolamenti, direttive e decisioni costituiscono l’ossatura comune agli stati membri, recepita nell’ordinamento nazionale in via diretta o mediata dal legislatore. I principi cardine della normativa comunitaria sono oggi alla base della disciplina rifiuti che si ritrovano alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006. Tra i più rilevanti si ricordano i «principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga» (art. 178).

Da quasi un decennio, ruolo sostanziale è ricoperto dalla direttiva 2008/98/Ce, recepita nell’ordinamento nazionale con il D.Lgs. n. 205/2010, recentemente modificata ad opera della direttiva 2018/851/Ue[1]. La cosiddetta “direttiva rifiuti” ha innovato l’intera disciplina con l’obiettivo di prevenire la produzione di rifiuti e ridurre gli impatti ambientali complessivi legati all’uso delle risorse (art. 1). La novità primaria della disciplina del 2008 è stata l’introduzione della gerarchia nella gestione dei rifiuti, che costituisce «ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti» (art. 4 della direttiva; si veda anche la figura 1).

Figura 1
Criteri di priorità nella gestione dei rifiuti
Gestione dei rifiuti 

A distanza di oltre 10 anni, per incentivare sempre più la gerarchia, in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, il D.Lgs. n. 116/2020 ha introdotto l’allegato L-ter alla parte IV, che individua esempi di strumenti economici e altre misure, tra i quali rilevano la possibile tassazione per il conferimento in discarica, l’adozione del principio del “pay-as-you-throw”, l’implementazione di sistemi di cauzione-rimborso e l’utilizzo di Bat per il trattamento rifiuti (vedere il box 1).

Box 2

Allegato L-ter alla parte IV, D.Lga. n. 152/2006

Allegato L-ter (esempi di strumenti economici e altre misure per incentivare l’applicazione della gerarchia dei rifiuti di cui all’articolo 179).

  1. tasse e restrizioni per il collocamento in discarica e l’incenerimento dei rifiuti che incentivano la prevenzione e il riciclaggio, lasciando il collocamento in discarica come opzione di gestione dei rifiuti meno preferibile;
  2. regimi di tariffe puntuali (pay-as-you-throw) che gravano sui produttori di rifiuti sulla base della quantità effettiva di rifiuti prodotti e forniscono incentivi alla separazione alla fonte dei rifiuti riciclabili e alla riduzione dei rifiuti indifferenziati;
  3. incentivi fiscali per la donazione di prodotti, in particolare quelli alimentari;
  4. regimi di responsabilità estesa del produttore per vari tipi di rifiuti e misure per incrementarne l’efficacia, l’efficienza sotto il profilo dei costi e la governance;
  5. sistemi di cauzione-rimborso e altre misure per incoraggiare la raccolta efficiente di prodotti e materiali usati;
  6. solida pianificazione degli investimenti nelle infrastrutture per la gestione dei rifiuti, anche per mezzo dei fondi dell’Unione;
  7. appalti pubblici sostenibili per incoraggiare una migliore gestione dei rifiuti e l’uso di prodotti e materiali riciclati;
  8. eliminazione graduale delle sovvenzioni in contrasto con la gerarchia dei rifiuti;
  9. ricorso a misure fiscali o altri mezzi per promuovere la diffusione di prodotti e materiali che sono preparati per il riutilizzo o riciclati;
  10. sostegno alla ricerca e all’innovazione nelle tecnologie avanzate di riciclaggio e nella ricostruzione;
  11. utilizzo delle migliori tecniche disponibili per il trattamento dei rifiuti;
  12. incentivi economici per le autorità locali e regionali, volti in particolare a promuovere la prevenzione dei rifiuti e intensificare i regimi di raccolta differenziata, evitando nel contempo di sostenere il collocamento in discarica e l’incenerimento;
  13. campagne di sensibilizzazione pubblica, in particolare sulla raccolta differenziata, sulla prevenzione della produzione dei rifiuti e sulla riduzione della dispersione dei rifiuti, e integrazione di tali questioni nell’educazione e nella formazione;
  14. sistemi di coordinamento, anche per via digitale, tra tutte le autorità pubbliche competenti che intervengono nella gestione dei rifiuti;
  15. promozione di un dialogo e una cooperazione continui tra tutte le parti interessate alla gestione dei rifiuti, incoraggiamento di accordi volontari e della trasmissione delle informazioni sui rifiuti da parte delle aziende.».

Nella gerarchia, la migliore opzione ambientale è costituita dalla prevenzione nella produzione di rifiuti, da intendersi come l’insieme delle «misure adottate prima che una sostanza, un materiale o un prodotto diventi rifiuto che riducono: 1) la quantità dei rifiuti, anche attraverso il riutilizzo dei prodotti o l’estensione del loro ciclo di vita; 2) gli impatti negativi dei rifiuti prodotti sull’ambiente e la salute umana; 3) il contenuto di sostanze pericolose in materiali e prodotti»[2]. All’interno di questa base programmatica, il legislatore europeo e quello nazionale hanno introdotto forme di responsabilità anticipate (come quella “estesa” del produttore del bene; vedere il paragrafo 4.10.) e incentivato gestioni dei residui di produzione che, prescindendo dalla qualifica di rifiuto[3], permettono di ridurre l’uso delle risorse e delle materie prime. In questa prospettiva, il concetto di sottoprodotto rappresenta «il fulcro di tutto il sistema comunitario di prevenzione e gestione dei rifiuti»[4]. Allo stesso modo, grande rilievo sta assumendo anche il concetto di riutilizzo di prodotti e componenti[5] (vedere il paragrafo 4.5.). Il recente D.Lgs. n. 116/2020 ha poi confermato il «Programma nazionale di prevenzione rifiuti» (già adottato con decreto direttoriale del ministero dell’Ambiente 7 ottobre 2013), al quale è delegata l’adozione di una vasta serie di misure volte a promuovere ed incoraggiare iniziative che prevengono la produzione di rifiuti (nuovo art. 180).

Come detto, a distanza di un decennio, Parlamento e Consiglio europei hanno ritenuto necessario modificare, aggiornandolo, il testo del 2008. In questa prospettiva, la direttiva 2018/851/Ue, recentemente recepita con il già richiamato D.Lgs. n. 116/2020, prosegue nel percorso già intrapreso e promuove i principi dell’economia circolare attraverso l’adozione di «misure aggiuntive sulla produzione e il consumo sostenibili, concentrandosi sull’intero ciclo di vita dei prodotti in modo da preservare le risorse e fungere da “anello mancante”» (considerando 1). Per far questo - e per una maggiore chiarezza - la direttiva introduce nel testo del 2008 nuove definizioni come quella di «rifiuti non pericolosi» (identificati in negativo rispetto ai pericolosi), di «recupero di materia» (che si contrappone al recupero ai fini energetici), quella di «regime di responsabilità estesa del produttore» di prodotti e quella di «riempimento», ovverosia il «recupero in cui rifiuti idonei non pericolosi sono utilizzati a fini di ripristino in aree escavate o per scopi ingegneristici nei rimodellamenti morfologici».

Negli ultimi anni, alla direttiva 2008/98/Ce si sono poi affiancate numerose altre fonti comunitarie, che hanno, a loro volta, inciso, modificato e integrato l’assetto normativo nazionale. Tra le più recenti si ricordano le tre direttive che si affiancano alla 2018/851/Ue nel cosiddetto “pacchetto” sulla circular economy:

  • la direttiva 2018/849/Ue che modifica le direttive 2000/53/Ce sui veicoli fuori uso, 2006/66/Ce sulle pile e accumulatori e sui rifiuti di pile e accumulatori e 2012/19/Ue sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche;
  • la direttiva 2018/850/Ue che modifica la direttiva 1999/31/Ce relativa alle discariche di rifiuti (vedere il paragrafo 4.12);
  • la direttiva 2018/852/Ue che modifica la direttiva 94/62/Ce sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio.

I rifiuti

Fin dalla prima formulazione nel D.Lgs. n. 22/1997, la nozione di rifiuto è stata oggetto di un dibattito giurisprudenziale che vedeva contrapporsi due tesi:

  • “tutto è rifiuto, da un lato;
  • “è rifiuto solo ciò che non può essere riutilizzato, dall’altro.

La soluzione del contrasto, raggiunta dalla Corte di giustizia Ue e trasfusa nella direttiva 2008/98/Ce, ha aderito alla seconda tesi ed ha portato alla nascita dei concetti di «sottoprodotto» (art. 184-bis) e di «rifiuto che ha cessato di essere tale» (il cosiddetto “end of waste” di cui all’art. 184-ter).

Dal 2010, nell’ordinamento italiano si intende per rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi» [art. 183 comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006]. Precedentemente, la nozione si riferiva anche alle categorie riportate nell’allegato A alla parte IV; con il D.Lgs. n. 205/2010 il riferimento è stato però eliminato e l’allegato A abrogato. Di conseguenza, il discrimine tra ciò che può dirsi rifiuto ai sensi di legge e ciò che invece costituisce ancora un bene, va oggi individuato nell’inciso per il quale «il detentore[6] si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi» (Cassazione penale, n. 32180/2018 e n. 31213/2019). Gli elementi che differenziano un rifiuto da un bene sono, pertanto:

  • l’effettivo disfarsi del bene, oppure,
  • la volontà di disfarsi, o ancora,
  • l’obbligo di disfarsi.

La sussistenza anche di uno solo di questi requisiti comporta la qualifica della sostanza o dell’oggetto come rifiuto. Con la sentenza relativa alle cause C-241/12 e C-242/12, la Corte di giustizia Ue è intervenuta sui tre canoni specificando che:

  • l’effettivo disfarsi del bene deve essere interpretato come avvio a smaltimento o a recupero; rilevano, al riguardo, oltre al complesso delle circostanze del caso specifico, attività quali la consegna a soggetti terzi autorizzati alla gestione dei rifiuti ai fini del relativo avvio a trattamento;
  • quanto all’intenzione di disfarsi, l’accento è stato posto sulla possibile utilità del bene per il produttore e sull’esistenza di documentazione o evidenze che ne forniscano la prova (ad esempio, specifiche procedure aziendali; riutilizzabilità immediata del bene). Se l’utilità manca (ad esempio batteria definitivamente esausta, cartuccia esaurita eccetera), a detta della Corte se ne dovrà necessariamente presumere la qualifica come rifiuto;
  • in ultimo, quanto all’obbligo di disfarsi, occorre riferirsi a specifici divieti di utilizzo del bene nelle condizioni in cui si trova. Si tratta, dunque, di una condizione che prescinde dalle intenzioni del produttore (in tema di materiali provenienti da demolizione, si veda la sentenza della Cassazione penale n. 16727/2011 e, più recentemente, la n. 48316/2016).

Il momento determinante la qualifica di rifiuto può, dunque, variare da caso a caso[7]:

  • laddove si tratti di un “disfarsi” materiale, esso si avrà nel momento di produzione dello scarto;
  • ove, invece, si abbia l’intenzione di disfarsi, il momento generativo andrà individuato nel sorgere di questa intenzione;
  • con riferimento, infine, all’obbligo di disfarsi, si dovrà valutare l’integrazione dei requisiti dello stesso.

La natura, o meno, di rifiuto ha evidenti quanto fondamentali risvolti in termini gestionali. Il D.Lgs. n. 152/2006, infatti, separa nettamente le discipline del prodotto e del rifiuto, prevedendo, all’interno della parte quarta, soltanto le modalità di gestione dei rifiuti; a questi sono collegati oneri quali caratterizzazione di base, classificazione, tenuta dei registri di carico/scarico, compilazione dei formulari e del Mud, conferimento a soggetti autorizzati e avvio a specifiche e individuate attività di recupero/smaltimento. Come si dirà, in tema di rifiuti la responsabilità coinvolge tutti i soggetti della “filiera” di gestione (art. 188, D.Lgs. n. 152/2006). Ai prodotti, invece, si applicano le specifiche discipline della categoria merceologica di riferimento, con particolare attenzione a trasporto, imballaggio, etichettatura, tracciabilità e correlate responsabilità.

 

I sottoprodotti

Nonostante gli anni trascorsi dalla sua introduzione, la disciplina in tema di sottoprodotti è ancora in evoluzione dal punto di vista normativo e giurisprudenziale. Alle problematiche legate ad alcuni passaggi interpretativi si somma il tema dell’onere della prova rispetto alla sussistenza delle condizioni richieste per aversi sottoprodotto, onere posto in capo al soggetto che invoca l’esclusione dalla qualifica di rifiuto (si vedano le sentenze della Cassazione penale n. 37280/2008, n. 16727/2011, n. 12229/2014, n. 16078/2015, n. 29084/2015, n. 16431/2017, n. 38950/2017, n. 5442/2017, n. 8848/2018 e del Tar Milano n. 1131/2014). Su questo tema, la Corte di giustizia Ue ha però precisato che la prova contraria non deve «pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione e in particolare l’obbligo di non sottoporre alle disposizioni della direttiva sui rifiuti sostanze che, in applicazione dei criteri succitati, devono, a norma della giurisprudenza della Corte, essere considerate come sottoprodotti esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva in parola» (Cgce, 3 ottobre 2013, causa C-113/12).

Come noto, solo con il D.Lgs. n. 205/2010 al concetto di sottoprodotto è stata dedicata un’autonoma articolazione [oltre alla definizione mantenuta alla lettera qq) dell’art. 183]. L’art. 184-bis, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 riporta, infatti, le quattro condizioni che devono sussistere contestualmente (sentenza della Cassazione penale n. 16727/2011) perché qualsiasi sostanza od oggetto sia qualificabile come sottoprodotto e, come tale, sia liberamente riutilizzabile[8] (vedere la tabella 1).

Tabella 1
Sottoprodotto – condizioni (art. 184-bis, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006)

 

a La sostanza o l’oggetto è originata/o da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto
b È certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi
c La sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale
d L’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana

 

La nozione di sottoprodotto vigente dal 2010 è «certamente meno restrittiva» (sentenza della Cassazione penale n. 17453/2012) di quella precedente; alla condizione b) è stato infatti chiarito che la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato tanto dal produttore quanto terzi[9]; allo stesso modo, il divieto di trasformazioni preliminari idonee a far perdere al sottoprodotto la sua identità (sentenza della Cassazione penale n. 14323/2007) è stato sostituito dalla possibilità di sottoporre il sottoprodotto ad un trattamento rientrante nel concetto di normale pratica industriale. Proprio quest’ultimo rappresenta, oggi, l’aspetto più discusso e instabile dell’intera disciplina. La dottrina, dal 2010, non ha mancato di evidenziare la genericità della condizione, proponendo criteri di individuazione legati al processo produttivo di filiera o, alternativamente, dello specifico stabilimento. Alcune indicazioni sono state poi proposte nella prassi amministrativa[10]. L’interpretazione più rilevante è stata però fornita dalla giurisprudenza di legittimità, che, sul punto, ha dato luogo a un contrasto interpretativo ad oggi ancora irrisolto.

Nella sentenza n. 17453/2012, la Cassazione penale ha adottato un’interpretazione estremamente restrittiva del concetto, tale da non comprendere «attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura». Non solo; richiamando la nozione di trattamento fornita dal D.Lgs. n. 36/2003[11] sulle discariche di rifiuti, la Cassazione ha escluso dalla normale pratica anche «operazioni di minor impatto sul residuo, che altra dottrina definisce “minimali”, individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione», le quali «ne determinano una modificazione dell’originaria consistenza». La suprema Corte ha, in altre parole, considerato conformi alla normale pratica industriale solo «quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire», ad esclusione, quindi, di «tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato».

A questa prima interpretazione, confermata da una seconda pronuncia (sentenza della Cassazione penale n. 20886/2013), si è contrapposta la sentenza n. 40109/2015, nella quale la Cassazione ha ampliato il concetto di normale pratica industriale, affermando che vi rientrano tutti quei trattamenti o interventi che «non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale che esso già possiede […] ma che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico utilizzo, presso il produttore o presso altri utilizzatori (anche in altro luogo e in distinto processo produttivo)»; tra questi trattamenti, la Corte identifica le operazioni «di lavaggio, essiccazione, selezione, cernita, vagliatura, macinazione, frantumazione, ecc.». Trattando di materie plastiche, a sostegno della propria interpretazione, la Cassazione ha fatto riferimento alla norma Uni 10667 - edizione 2010[12], oggi rieditata nella revisione marzo 2017 e che tratta anche di sottoprodotti[13]. Si deve, infine, registrare un’ulteriore virata interpretativa; in particolare, la sentenza n. 53136/2017 la Cassazione penale, trattando di fresato d’asfalto, ha, infatti, nuovamente aderito all’orientamento del 2012, ritenendo che «la definizione di normale pratica industriale appaia coerente con la tesi più restrittiva espressa in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità».

Nell’attuale contrasto interpretativo, l’elemento comune alla maggior parte delle pronunce resta quello dell’immodificabilità della qualificazione come rifiuto, da cui deriva l’impossibilità di qualificare come sottoprodotti residui di produzione originariamente classificati come rifiuti da chi li produce (Cassazione penale nn. 32207/2007, 2886/2013 e 53136/2017).

Il comma 2 dell’art. 184-bis permetterebbe di superare le criticità interpretative nella parte in cui prevede la possibilità di stabilire con decreto ministeriale «criteri qualitativi e/o quantitativi da soddisfare affinché una sostanza o un oggetto specifico sia considerato sottoprodotto e non rifiuto […]»[14]. Nonostante il favore del legislatore comunitario rispetto al sottoprodotto quale strumento per prevenire la produzione di rifiuti, dal 2010 a oggi al predetto comma 2 è stata data attuazione specifica solo in poche occasioni:

  • con il D.M. n. 161/2012 - oggi abrogato e sostituito dal D.P.R. n. 120/2017, come si dirà al paragrafo 4.13 - è stata disciplinata la gestione come sottoprodotti dei materiali da scavo relativi a opere sottoposte a Via e Aia, prevedendo all’allegato 3, per la prima volta, un’esemplificazione non tassativa dei trattamenti rientranti nel concetto normale pratica industriale;
  • successivamente, con il decreto interministeriale 25 febbraio 2016, n. 5046[15] l’esecutivo ha disciplinato l’utilizzo quale ammendante ai fini agronomici del digestato sottoprodotto[16];
  • infine, il D.M. n. 264/2016, ha previsto, all'allegato 1, un elenco delle principali norme che regolamentano l'impiego come sottoprodotti delle biomasse residuali destinate all'impiego per la produzione di biogas e le biomasse residuali destinate all'impiego per la produzione di energia mediante combustione.

Il D.M. n. 264/2016, recante «Criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti»[17] e in vigore dal 2 marzo 2017 è rilevante anche in termini più generali, che prescindono dalle biomasse qualificate come sottoprodotti. Con questo regolamento si è, infatti, voluto fornire agli operatori del settore, indicazioni e suggerimenti non vincolanti per dimostrare, con riferimento a tutti i residui di produzione, la sussistenza dei requisiti per la qualifica come sottoprodotti, senza, tuttavia, innovare la disciplina sostanziale generale di settore. Nello specifico, il D.M. n. 264/2016 richiama alcuni possibili elementi di prova documentali, come l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra produttore del residuo e utilizzatore[18], e ammette la possibilità di predisporre una scheda tecnica (riportata nell’allegati 1 al D.M. n. 264/2016 e che deve essere numerata, vidimata e gestita con le procedure e le modalità fissate dalla normativa sui registri Iva), contenente tutte le informazioni probatorie richieste dalla normativa per la gestione dei sottoprodotti. Nel D.M. n. 264/2016, per la prima volta, viene inoltre proposta una definizione di prodotto e di residuo di produzione (vedere il box 2).

Box 2

Definizione di prodotto e di residuo di produzione

«a) prodotto: ogni materiale o sostanza che è ottenuto deliberatamente nell’ambito di un processo di produzione o risultato di una scelta tecnica. In molti casi è possibile identificare uno o più prodotti primari;

b) residuo di produzione (di seguito “residuo”): ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto;

c) sottoprodotto: un residuo di produzione che non costituisce un rifiuto ai sensi dell’articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152».

Sempre in termini generali, il D.M. n. 264/2016 chiarisce che i requisiti e le condizioni richiesti per escludere un residuo di produzione dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti (e qualificarlo sottoprodotto), sono valutati e accertati alla luce del complesso delle circostanze e devono essere soddisfatti «in tutte le fasi della gestione dei residui, dalla produzione all’impiego nello stesso processo o in uno successivo» (art. 1, comma 2). Il regolamento, sulla base del quale è stato creato un portale telematico di scambio tra domanda e offerta di sottoprodotti[19], dedica, poi, uno specifico allegato alle biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di energia.

Considerata la centralità del tema sottoprodotto e la complessità di alcuni aspetti sostanziali, al regolamento ha poi fatto seguito la pubblicazione di due documenti interpretativi del ministero dell’Ambiente[20]. In particolare, nella circolare esplicativa 30 maggio 2017, n. 7619, si è chiarito che, in caso di sopravvenuta perdita delle caratteristiche di sottoprodotto, «la responsabilità della gestione del residuo come rifiuto ricadrà sul soggetto che si trova in possesso del medesimo immediatamente prima che diventi rifiuto». Se da un lato questa specificazione sembra affermare l’irretroattività - in termini di gestione operativa – delle responsabilità connesse al “declassamento” a rifiuto, dall’altro conferma la separazione di ruoli tra produttore e utilizzatore prevista dagli articoli 5, comma 1 e 8, comma 4, D.M. 264/2016. Sempre sul tema, la circolare specifica che «ogni soggetto che interviene durante la filiera sia tenuto alla dimostrazione dei requisiti richiesti dalla legge per la qualifica come sottoprodotto limitatamente a quanto sia nella propria disponibilità e conoscenza, non essendo esigibile una estensione degli oneri probatori a fasi rispetto alle quali il soggetto medesimo non ha possibilità di verifica e controllo»; in altre parole, la perdita delle condizioni per le quali si possa avere un sottoprodotto comporta la qualifica del detentore temporaneo come “produttore del rifiuto” e fa venire «meno la responsabilità dei detentori precedenti rispetto a eventi sopravvenuti e indipendenti dalla loro volontà ed attività». Questa specificazione, tuttavia, non è contenuta nella disciplina normativa e regolamentare di riferimento e, peraltro, si discosta fortemente da quanto previsto nella disciplina rifiuti, nella quale non si parla di responsabilità limitata «alla rispettiva sfera di competenza», ma di responsabilità “dalla culla alla tomba” che coinvolge indistintamente tutti i soggetti interessati dalla gestione (produttore, trasportatore, recuperatore o smaltitore).

Tornando al contesto normativo generale, la mancata emanazione di regolamenti ministeriali non preclude l’operatività del concetto di sottoprodotto; infatti, come dimostrano numerosi esempi oggetto di vaglio giurisprudenziale[21], la sussistenza delle quattro condizioni previste alle lettere a-d) del comma 1 dell’art. 184-bis, costituisce presupposto necessario, ma sufficiente, per legittimare una gestione del residuo in deroga alla disciplina rifiuti. In termini operativi, tutte le volte in cui una società decide di modificare la gestione dei propri residui, abbandonando la qualifica di rifiuto in favore di quella di sottoprodotto, ferma la necessaria sussistenza delle condizioni richieste dall’art. 184-bis, è opportuno che formalizzi un punto zero (eventualmente anche in termini di permitting) e che sia garantita una netta separazione tra il flusso dei sottoprodotti e quello dei rifiuti, anche presso gli eventuali soggetti terzi utilizzatori.

End of waste

Segue la disciplina del sottoprodotto quella dedicata all’end of waste, ovverosia al rifiuto che ha cessato di essere tale. Fino al 2010 l’ordinamento italiano disciplinava il rifiuto recuperato, che all’epoca prendeva il nome di «materia prima secondaria» (mps), all’art. 181-bis, abrogato dal D.Lgs. n. 205/2010. Nella versione oggi vigente, l’art. 184-ter recepisce tutte le condizioni dettate dall’art. 6 della direttiva 2008/98/Ce e riprende, quanto a struttura, quella dell’abrogato art. 181-bis, nonché dell’art. 184-bis in tema di sottoprodotto. Così, al comma 1 si trovano le quattro condizioni nel rispetto delle quali devono essere adottati i criteri specifici per aversi un rifiuto che cessa di essere tale a valle di un’operazione più o meno spinta di recupero, incluso il riciclaggio[22] (vedere la tabella 2).

Tabella 2
End of waste - condizioni (art. 184-ter, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006)

 

a La sostanza o l’oggetto sono destinati ad essere utilizzati per scopi specifici
b Esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto
c La sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti
d L’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana

 

Rispetto alla disciplina precedente al 2010, la giurisprudenza di legittimità (si veda la sentenza della Cassazione penale n. 16423/2014) ha individuato tre principali differenze:

  • la modifica della terminologia, non esistendo più le “materie prime secondarie”, ma solo prodotti che cessano di essere rifiuti (il cosiddetto end of waste)[23];
  • il venire meno della condizione che, oltre all’esistenza di un mercato e di una domanda per il prodotto, richiedeva anche il valore economico dello stesso (si veda anche la sentenza della Cassazione penale n. 24427/2011);
  • il fatto che l’operazione di recupero possa consistere nel controllo dei rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni.

 

Affinché un rifiuto cessi di essere tale non deve comunque venire meno il requisito materiale costituito dalla necessaria sottoposizione a un’operazione di recupero (sentenza della Cassazione penale n. 41075/2015 e, più recentemente, n. 36692/2019), che, dal 2010, può consistere anche «nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni»; tuttavia, trattandosi di attività di recupero, anche il mero controllo deve essere svolto da soggetto autorizzato (sentenza della Cassazione penale n. 16423/2014) nelle forme dell’autorizzazione integrata, ordinaria, semplificata o sperimentale. Affinché si abbia end of waste, il rifiuto sottoposto a un’operazione di trattamento (che dal 26 settembre 2020 non comprende più la preparazione per il riutilizzo[24]) deve poi essere riutilizzato nello stesso o in un altro ciclo produttivo e la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica[25]. Inoltre, l'assenza di effetti negativi su ambiente e salute, va accertata prima che il materiale venga utilizzato/commerciato come prodotto "primario" (Tar Venezia n. 124/2020).

Ai sensi del comma 2 dell’art. 184-ter, i criteri specifici sono individuati sulla base delle quattro condizioni e «in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria»[26]. Allo stato attuale, malgrado i suggerimenti contenuti nella direttiva 2008/98/Ce[27], sono stati emanati solo tre regolamenti comunitari[28]:

  • regolamento 31 marzo 2011, n. 333/2011/Ue, recante «I criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio»;
  • regolamento 10 dicembre 2012, n. 1179/2012/Ue, recante «I criteri che determinano quando i rottami di vetro cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio»;
  • regolamento 25 luglio 2013, n. 715/2013/Ue, recante «I criteri che determinano quando i rottami di rame cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio».

Dall’entrata in vigore dei regolamenti Ue, il comma 8-sexies dell’art. 216 prevede un termine di sei mesi entro i quali le attività di recupero devono essere adeguate ai criteri comunitari[29]. Restano, in ogni caso, ferme le quantità massime stabilite dalla disciplina nazionale.

In mancanza di specifici criteri stabiliti a livello comunitario, gli Stati membri possono decidere con appositi decreti, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale. A livello nazionale, ai sensi dell’art. 184-ter comma 2, sono stati ad oggi adottati solo quattro regolamenti:

  • il D.M. 14 febbraio 2013, n. 22 – «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (Css)»;
  • il D.M. 28 marzo 2018, n. 69 in tema di «cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso»;
  • il D.M. 15 maggio 2019, n. 62 «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto da prodotti assorbenti per la persona (Pap), ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152»[30];
  • il D.M. 31 marzo 2020 n. 78 in tema di «cessazione della qualifica di rifiuto della gomma vulcanizzata derivante da pneumatici fuori uso»[31].

Altri decreti sono in fase di emanazione (come quello sulla carta e cartone) o sono sottoposti al vaglio consultivo del Consiglio di Stato.

Al di fuori di quanto previsto dalle fonti comunitarie e nazionali, il comma 3 dell’art. 184-ter aveva previsto, fino al novembre 2019, un regime transitorio che negli ultimi anni è stato oggetto di un fervente dibattito interpretativo. Nella versione originaria, il comma 3 aveva garantito l’applicazione dei decreti contenenti le norme tecniche per il recupero semplificato (DD.MM. nn. 161/2002, 269/2005 e 5 febbraio 1998), nonché dell’art. 9–bis, lettera a) e b), D.L. n. 172/2008 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 210/2008), che considerava conformi ai criteri delle materie prime seconde (oggi end of waste) quanto previsto nelle «autorizzazioni rilasciate» in regime di recupero ordinario e integrato (Aia)[32]. A detta del ministero dell’Ambiente e del Tar Veneto (sentenza n. 1422/2016), in mancanza di regolamenti comunitari o decreti ministeriali in tema di end of waste, questa norma avrebbe dovuto comportare il potere e dovere dell’autorità competente, in sede di emanazione dei titoli autorizzativi, di valutare, caso per caso, la sussistenza delle quattro condizioni previste dall’art. 184-ter, comma 1 affinché un rifiuto potesse cessare di essere tale. Questa interpretazione è stata però osteggiata dal Consiglio di Stato (sentenza 28 febbraio 2018, n. 1229), secondo il quale il regime transitorio non permetteva alle autorità competenti di determinare “caso per caso” la cessazione della qualifica di rifiuto[33], trattandosi di competenza riservata allo Stato anche al fine di garantire una uniformità applicativa territoriale. In seguito alla sentenza del Consiglio di Stato, considerato il pregiudizio per il mercato italiano del recupero[34], il legislatore è intervenuto con una successione di modifiche, alcune delle quali contestabili in quanto consideravano vincolanti i contenuti tecnici dei (superati) decreti sul recupero in forma semplificata[35]. Solo nel novembre 2019, la legge n. 129/2019 di conversione, con modifiche, del D.L. n. 101/2019, il cosiddetto decreto “crisi aziendali”, ha introdotto un’incisiva modifica dell’art. 184-ter[36] che ha comportato:

  • la modifica della condizione sub a), nella quale l’inciso «comunemente utilizzato per scopi specifici» è stato modificato con «destinata/o a essere utilizzata/o per scopi specifici»[37];
  • un nuovo regime transitorio, in forza del quale, qualora non siano definiti end of waste con regolamenti comunitari o nazionali (decreti ministeriali), ai sensi del nuovo comma 3 dell’art. 184-ter i criteri specifici perché un rifiuto cessi di essere tale possono essere definiti nelle autorizzazioni ordinarie, sperimentali e integrate;
  • la definizione da parte dell’autorità competente di questi criteri deve avvenire nel rispetto delle condizioni di cui all'articolo 6, paragrafo 1, direttiva 98/2008/Ce[38], nonché sulla base di cinque criteri dettagliati (tabella 3);
Tabella 3
Criteri dettagliati di cui all’art. 184-ter, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006
a) materiali di rifiuto in entrata ammissibili ai fini dell’operazione di recupero
b) processi e tecniche di trattamento consentiti
c) criteri di qualità per i materiali di cui è cessata la qualifica di rifiuto ottenuti dall’operazione di recupero in linea con le norme di prodotto applicabili, compresi i valori limite per le sostanze inquinanti, se necessario
d) requisiti affinché i sistemi di gestione dimostrino il rispetto dei criteri relativi alla cessazione della qualifica di rifiuto, compresi il controllo della qualità, l’automonitoraggio e l’accreditamento, se del caso
e) un requisito relativo alla dichiarazione di conformità

 

  • la previsione, in una prospettiva di uniformità territoriale, di un procedimento successivo all’emanazione dell’autorizzazione volto a controllare la conformità delle modalità operative e gestionali degli impianti agli atti autorizzatori rilasciati nonché alle condizioni per aversi un rifiuto che cessa di essere tale (art. 184-ter i commi da 3-bis a 3-sexies; vedere la figura 2);
  • l’istituzione presso il ministero dell'Ambiente un registro nazionale (REcer) nel quale sono raccolte tutte le nuove autorizzazioni rilasciate, rinnovate e riesaminate, nonché le procedure semplificate concluse, recentemente disciplinato con D.M. 21 aprile 2020[39];
  • la creazione, presso il ministero dell'Ambiente, di un gruppo di lavoro con lo scopo di avviare, velocizzare e concludere le istruttorie per la definizione con D.M. di criteri per la cessazione della qualifica come end of waste per specifiche tipologie di rifiuto.
Figura 2
Le procedure di controllo della conformità

Gestione dei rifiuti

Un tema di rilievo in merito al rifiuto che cessa di essere tale è costituito dalle linee guida Snpa emanate con delibera del consiglio Snpa n. 67/2020. Si tratta di criteri volti ad uniformare l’attività del Sistema nazionale, tanto nell’attività di controllo recentemente istituita (vedere la figura 3), quanto nel supporto tecnico reso alle autorità competenti in fase istruttoria nel rilascio dell’autorizzazione (anche se l’emanazione di linee guida su quest’ultimo aspetto non è stata prevista dal legislatore).

Figura 3
Fasi della visita ispettiva

Gestione dei rifiuti

In termini di prassi, alcune amministrazioni competenti richiedono ai gestori in sede istruttoria tecnica, di garantire la conformità impiantistica alle richiamate linee guida, nonostante - come detto – si tratti di criteri definiti unicamente per uniformare l’attività di Arpa e Ispra e non per stabilire criteri tecnici minimi che devono essere rispettati, indistintamente, da tutti i titolari di impianti di recupero[40].

Si segnala, infine, che in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, all’art. 184-ter è stato inserito il nuovo comma 5-bis, relativo all’obbligo per la persona fisica o giuridica che per la prima volta utilizza o immette sul mercato un end of Waste, di garantire il rispetto della disciplina sulle sostanze chimiche ed i prodotti (Reach).

Il riutilizzo di prodotti e la preparazione per il riutilizzo di rifiuti

Tra i cardini della disciplina di prevenzione nella produzione dei rifiuti vi è il riutilizzo di prodotti; al gradino subito inferiore si trova, invece, la preparazione per il riutilizzo dei rifiuti. Nonostante si tratti di due tematiche centrali per realizzare la circular economy, dal 2010 a oggi non si sono registrate numerose prassi virtuose[41]. Per riutilizzo si intende «qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti». Nell’intenzione del legislatore, il riutilizzo permette di prevenire all’origine la produzione di rifiuti ed è strettamente correlato con la responsabilità estesa del produttore del bene nella parte in cui si richiede la produzione e commercializzazione di prodotti e componenti adatti all’uso multiplo, tecnicamente durevoli e facilmente riparabili (art. 178-bis, comma 3). L’obiettivo è permettere a prodotti e componenti di prodotto di continuare ad essere utilizzati per la medesima finalità per la quale sono stati concepiti. Per incentivare queste pratiche, dal 2015 è prevista la possibilità per Ato e Comuni di individuare appositi spazi presso i centri di raccolta rifiuti:

  • per l’esposizione temporanea, finalizzata allo scambio tra privati, di beni usati e funzionanti direttamente idonei al riutilizzo;
  • per consentire la raccolta di beni da destinare al riutilizzo, «nel quadro di operazioni di intercettazione e schemi di filiera degli operatori professionali dell’usato autorizzati dagli enti locali e dalle aziende di igiene urbana» (art. 181 comma 6).

La preparazione per il riutilizzo riguarda, invece, prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti e comprende le operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione attraverso le quali i rifiuti sono preparati per essere reimpiegati senza altro pretrattamento. Considerato che il D.Lgs. n. 116/2020 ha eliminato il riferimento alla preparazione per il riutilizzo dal primo comma dell’art. 184-ter, si potrebbe ritenere che quest’attività non sia più idonea a produrre end of waste, anche se non sembra chiaro quale altro istituto possa essere legittimamente applicato. Trattandosi di operazioni che intervengono sui rifiuti, le stesse devono in ogni caso essere autorizzate. In questi termini, il nuovo art. 214-ter prevede l’emanazione di un decreto ministeriale con il quale definire «le modalità operative, le dotazioni tecniche e strutturali, i requisiti minimi di qualificazione degli operatori necessari per l’esercizio delle operazioni di preparazione per il riutilizzo, le quantità massime impiegabili, la provenienza, i tipi e le caratteristiche dei rifiuti, nonché le condizioni specifiche di utilizzo degli stessi in base alle quali prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono sottoposti a operazioni di preparazione per il ritualizzo». Una volta che il decreto sarà stato emanato, il comma 1 dell’art. 214-ter prevede che le attività di preparazione per il riutilizzo potranno essere avviate mediante segnalazione certificata di inizio di attività (Scia). Sempre in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, all’allegato C alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006 è stato specificato che la preparazione per il riutilizzo rientra nei codici di recupero R3, R4 ed R5.

 

Le diverse tipologie di rifiuti

L’art. 184 classifica i rifiuti in urbani e speciali a seconda della loro origine e, sulla base delle caratteristiche di pericolosità, distingue i rifiuti pericolosi da quelli che pericolosi non sono. In particolare, fino al settembre 2020 i commi 2 e 3 dell’art. 184 riportano l’elencazione non derogabile (sentenza della Corte costituzionale n. 101/2016) dei singoli flussi di rifiuti che rientravano, rispettivamente, nella categoria degli urbani e in quella degli speciali[42]. In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, il D.Lgs. n. 116/2020 ha però inspiegabilmente spostato l’elencazione dei rifiuti urbani alla lettera b-ter) dell’art. 183, in tema di definizioni, norma oggi espressamente richiamata dall’art. 184 comma 2 (tabella 4).

Tabella 4
Rifiuti urbani
a i rifiuti domestici indifferenziati e da raccolta differenziata, ivi compresi: carta e cartone, vetro, metalli, plastica, rifiuti organici, legno, tessili, imballaggi, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, rifiuti di pile e accumulatori e rifiuti ingombranti, ivi compresi materassi e mobili
b i rifiuti indifferenziati e da raccolta differenziata provenienti da altre fonti che sono simili per natura e composizione ai rifiuti domestici indicati nell’allegato L-quater prodotti dalle attività riportate nell’allegato L-quinquies
c i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade e dallo svuotamento dei cestini portarifiuti
d i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade e aree pubbliche o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei corsi d'acqua
e i rifiuti della manutenzione del verde pubblico, come foglie, sfalci d’erba e potature di alberi, nonché i rifiuti risultanti dalla pulizia dei mercati
f i rifiuti provenienti da aree cimiteriali, esumazioni ed estumulazioni, nonché gli altri rifiuti provenienti da attività cimiteriale diversi da quelli di cui alle lettere c), d) ed e)

 

A chiusura dell’elencazione, parzialmente rivisitata (vedere le parole in grassetto nella tabella 4), il nuovo art. 183, comma 1 lettera b-ter) specifica che i rifiuti urbani non includono i rifiuti della produzione, dell’agricoltura, della silvicoltura, della pesca, delle fosse settiche, delle reti fognarie e degli impianti di trattamento delle acque reflue, ivi compresi i fanghi di depurazione, i veicoli fuori uso o i rifiuti da costruzione e demolizione.

Il comma 3 dell’art. 184 riporta invece l’elencazione dei rifiuti speciali (tabella 5), anch’essa parzialmente rivisitata (vedere le parole in grassetto nella 5). 

Tabella 5
Rifiuti speciali

 

a i rifiuti prodotti nell’ambito delle attività agricole, agro-industriali e della silvicoltura, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2135 c.c., e della pesca
b i rifiuti prodotti dalle attività di costruzione e demolizione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis
c i rifiuti prodotti nell’ambito delle lavorazioni industriali se diversi da quelli di cui al comma 2
d i rifiuti prodotti nell’ambito delle lavorazioni artigianali se diversi da quelli di cui al comma 2
e i rifiuti prodotti nell’ambito delle attività commerciali se diversi da quelli di cui al comma 2
f i rifiuti prodotti nell’ambito delle attività di servizio se diversi da quelli di cui al comma 2
g i rifiuti derivanti dall’attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue, nonché i rifiuti da abbattimento di fumi, dalle fosse settiche e dalle reti fognarie
g-bis i rifiuti derivanti da attività sanitarie se diversi da quelli all’art. 183 comma 1 lett. b ter)
h i veicoli fuori uso

 

La classificazione come urbano o speciale rileva ai fini della gestione del rifiuto[43], con particolare riferimento alla sottoposizione al ciclo integrato di raccolta rifiuti. In questi termini rileva la disciplina dei rifiuti speciali assimilati agli urbani, ha subito importanti modifiche in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue: se in precedenza l’assimilabilità era rimessa alla regolamentazione comunale, ai sensi di quanto previsto dal D.Lgs. n. 116/2020, sono assimilati agli urbani i rifiuti (indifferenziati o differenziati) simili per natura e composizione ai rifiuti domestici indicati nel nuovo allegato L-quater (vedere la tabella 6) prodotti dalle attività riportate nel nuovo allegato L-quinquies (vedere il box 3) alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006.

Tabella 6
Allegato L-quater - Elenco dei rifiuti di cui all'articolo 183, comma 1, lettera b-ter), punto 2
Frazione Descrizione EER
RIFIUTI ORGANICI Rifiuti biodegradabili di cucine e mense 200108
Rifiuti biodegradabili 200201
Rifiuti dei mercati 200302
CARTA E CARTONE Imballaggi in carta e cartone 150101
Carta e cartone 200101
PLASTICA Imballaggi in plastica 150102
Plastica 200139
LEGNO Imballaggi in legno 150103
Legno, diverso da quello di cui alla voce 200137* 200138
METALLO Imballaggi metallici 150104
Metallo 200140
IMBALLAGGI COMPOSITI Imballaggi materiali compositi 150105
MULTIMATERIALE Imballaggi in materiali misti 150106
VETRO Imballaggi in vetro 150107
Vetro 200102
TESSILE Imballaggi in materia tessile 150109
Abbigliamento 200110
Prodotti tessili 200111
TONER Toner per stampa esauriti diversi da quelli di cui alla voce 080317* 080318
INGOMBRANTI Rifiuti ingombranti 200307
VERNICI, INCHIOSTRI, ADESIVI E RESINE Vernici, inchiostri, adesivi e resine diversi da quelli di cui alla voce 200127 200128
DETERGENTI Detergenti diversi da quelli di cui alla voce 200129* 200130
ALTRI RIFIUTI Altri rifiuti non biodegradabili 200203
RIFIUTI URBANI INDIFFERENZIATI Rifiuti urbani indifferenziati 200301

 

Per individuare i rifiuti speciali assimilati per legge agli urbani occorre, pertanto, incrociare le tipologie di rifiuti previste nell’allegato L-quater, con le attività elencate nell’allegato L-quinquies.

Box 3

Allegato L-quinquies – Elenco attività che producono rifiuti di cui all’articolo 183, comma 1, lettera b-ter), punto 2)
  1. Musei, biblioteche, scuole, associazioni, luoghi di culto
  2. Cinematografi e teatri
  3. Autorimesse e magazzini senza alcuna vendita diretta
  4. Campeggi, distributori carburanti, impianti sportivi
  5. Stabilimenti balneari
  6. Esposizioni, autosalon
  7. Alberghi con ristorante
  8. Alberghi senza ristorante
  9. Case di cura e riposo
  10. Ospedali
  11. Uffici, agenzie, studi professionali
  12. Banche ed istituti di credito
  13. Negozi abbigliamento, calzature, libreria, cartoleri, ferramenta, e altri beni durevoli.
  14. Edicola, farmacia, tabaccaio, plurilicenze
  15. Negozi particolari quali filatelia, tende e tessuti, tappeti, cappelli e ombrelli, antiquariato
  16. Banchi di mercato beni durevoli.
  17. Attività artigianali tipo botteghe: parrucchiere, barbiere, estetista.
  18. Attività artigianali tipo botteghe: falegname, idraulico, fabbro, elettricista
  19. Carrozzeria, autofficina, elettrauto.
  20. Attività artigianali di produzione beni specifici
  21. Ristoranti, trattorie, osterie, pizzerie, pub
  22. Mense, birrerie, hamburgerie
  23. Bar, caffè, pasticceria
  24. Supermercato, pane e pasta, macelleria, salumi e formaggi, generi alimentari.
  25. Plurilicenze alimentari e/o miste
  26. Ortofrutta, pescherie fiori e piante, pizza al taglio
  27. Ipermercati di generi misti
  28. Banchi di mercato generi alimentari
  29. Discoteche, night club

La nuova disciplina sta creando più di una perplessità tra gli operatori del settore. Si richiamano le due principali:

  • innanzitutto, alcune attività potrebbero vedere qualificati ex lege come assimilati agli urbani propri rifiuti in precedenza gestiti come speciali, con tutte le correlate conseguenze in tema di Tari e di gestione degli stessi. Al riguardo, deve però essere ricordato che ai sensi del nuovo art. 198, comma 2-bis), «le utenze non domestiche possono conferire al di fuori del servizio pubblico i propri rifiuti urbani previa dimostrazione di averli avviati al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi», anche se non è chiaro quale debba essere il contenuto della attestazione richiesta;
  • in secondo luogo, ci si domanda come debbano essere gestiti i rifiuti speciali in precedenza assimilati agli urbani dai regolamenti comunali e oggi non più ricompresi nei due allegati menzionati. Tra questi rilevano, per quantità e diffusione, i rifiuti industriali. È pur vero che l’attività industriale potrebbe essere considerata analoga alle attività artigianali di produzioni di beni (previste al punto 20) e che il medesimo allegato L-quinquies prevede che «attività non elencate, ma ad esse simili per loro natura e per tipologia di rifiuti prodotti, si considerano comprese nel punto a cui sono analoghe». Considerata, però, la centralità e rilevanza della gestione come assimilati di questi rifiuti, si ritiene essenziale che il legislatore intervenga per chiarire questo aspetto.

Per consentire agli affidatari della gestione rifiuti l’adeguamento alle nuove previsioni, l’art. 5 comma 4-bis, D.Lgs. 116/2020 ha previsto che le novità in tema di classificazione e assimilazione dei rifiuti si applichino a fare data dal 1° gennaio 2021. Entro questo termine si auspica vengano forniti i chiarimenti richiesti.

Particolari modalità di gestioni sono poi previste per alcuni singoli flussi di rifiuti; a titolo esemplificativo, si ricorda che, per i produttori di rifiuti speciali derivanti dalle attività di demolizione e costruzione, l’art. 190, D.Lgs. n. 152/2006 esclude la necessità di tenuta dei registri di carico e scarico. Allo stesso modo, in forza di quanto previsto dal comma 5-quater dell’art. 184, l’obbligo di etichettatura e di tenuta dei registri di carico e scarico non si applica ai rifiuti pericolosi prodotti da nuclei domestici, «fino a che siano accettate per la raccolta, lo smaltimento o il recupero da un ente o un’impresa […]».

Per quanto riguarda la distinzione tra rifiuti pericolosi e non pericolosi e, più in generale, le attività volte alla classificazione dei rifiuti, dal 1° giugno 2015 sono in vigore due importanti fonti europee[44]:

  • il regolamento n. 2014/1357/Ue del 18 dicembre 2014;
  • la decisione n. 2014/955/Ue del 18 dicembre 2014, che modifica la precedente decisione 2000/532/Ce, introducendo un nuovo elenco europeo dei rifiuti.

Il regolamento n. 2014/1357/Ue ha riscritto l’allegato III alla direttiva 2008/98/Ce in tema di caratteristiche di pericolo dei rifiuti, aggiornando la disciplina al nuovo regolamento Clp[45]. Tra le principali novità si ricordano:

  • la modifica delle sigle di pericolo che vengono rinominate HP in luogo della precedente H;
  • la modifica di molte definizioni delle caratteristiche di pericolo;
  • la modifica delle descrizioni e l’introduzione di prescrizioni tecniche per ciascuna caratteristica HP, con precisi e numerosi limiti cui fare riferimento e maggiore coordinamento con i codici di classe e le categorie di pericolo delle so- stanze di cui al regolamento Clp;
  • l’introduzione della possibilità, in precedenza prevista solo limitatamente, in caso di superamento dei limiti di concentrazione, di escludere la pericolosità laddove test specifici accreditati ne dimostrino l’assenza.

Contestualmente al regolamento n. 2014/1357/Ue, è entrata in vigore anche la decisione n. 2014/955/Ue, contenente il nuovo elenco europeo dei rifiuti, che riporta il nuovo, e solo parzialmente aggiornato, elenco dei codici Eer (elenco europeo rifiuti). Le principali novità hanno riguardato la parte introduttiva, relativa all’assegnazione del codice, che richiama espressamente il regolamento Clp, le nuove caratteristiche HP e i relativi valori soglia e limiti di concentrazione.

Sia il regolamento che la decisione sono atti vincolanti dell’Unione europea, direttamente applicabili negli stati membri e prevalenti rispetto ad eventuali disposizioni nazionali contrastanti[46]. Per coordinare il diritto nazionale con quello comunitario, il D.Lgs. n. 116/2020 ha interamente sostituito l’allegato D alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006, adeguando le regole per la corretta attribuzione del codice Eer a quanto previsto dalla disciplina comunitaria[47].

L’attribuzione del corretto codice Eer è centrale nell’ambito della classificazione del rifiuto e può costituire il discrimine di pericolosità dello stesso. L’elenco dei codici Eer non è sempre chiaro e, soprattutto, non è esaustivo (si ricorda che l’elencazione dei codici rifiuti non è nata per distinguere ex lege ciò che è rifiuto da ciò che non lo è, bensì per introdurre nella comunità una mera nomenclatura comune agli stati membri[48]).

Da un punto di vista operativo, per attribuire il corretto codice Eer deve essere necessariamente identificata la fonte che genera il rifiuto[49], consultando i capitoli da 01 a 12 o da 17 a 20 dell’elenco dei codici Eer; dall’attività nel corso della quale è prodotto il rifiuto si risale, così, al codice a sei cifre riferito allo specifico rifiuto in questione (ad eccezione dei codici dei suddetti capitoli che terminano con le cifre 99). In seguito:

  • se nessuno dei codici dei capitoli da 01 a 12 o da 17 a 20 si presta per la classificazione di un determinato rifiuto, occorre poi esaminare i capitoli 13, 14 e 15 per identificare il codice corretto;
  • se anche nessuno di questi codici risulta adeguato, occorre definire il rifiuto utilizzando i codici (residuali) del capitolo 16;
  • in ultimo, se un determinato rifiuto non è classificabile neppure mediante i codici del capitolo 16, occorre utilizzare il codice 99 (rifiuti non specificati altrimenti) preceduto dalle cifre del capitolo che corrisponde all’attività identificata nella prima fase.

È, infine, possibile che un determinato impianto o stabilimento debba classificare le proprie attività in capitoli diversi, laddove ciascuna attività corrisponda a diverse voci, costituendo, comunque, sempre la provenienza, il principale criterio discretivo per individuare la specifica categoria. Qualora invece due o più codici Eer possano considerarsi in astratto applicabili a un determinato rifiuto, l’analisi delle prassi operative, dell’eventuale letteratura scientifica e – in subordine – l’effettuazione di analisi sul rifiuto, possono costituire validi elementi per la corretta attribuzione.

Quanto alla potenziale pericolosità, l’individuazione del codice Eer può portare a diverse conclusioni:

  • se il codice Eer del rifiuto, individuato secondo i criteri precedenti, presenta un asterisco (*) e non si tratta di un “codice a specchio”, il rifiuto è da presumersi pericoloso in assoluto. In questo caso, le analisi avranno la principale finalità di individuare la caratteristica di pericolo (da HP1 ad HP15) da attribuire al rifiuto ai fini della corretta gestione, ma non di valutarne la pericolosità o meno;
  • laddove, invece, il codice Eer del rifiuto non presenti un asterisco (e non si rientri nella casistica dei “codici a specchio”), lo stesso è considerarsi non pericoloso in assoluto, senza necessità di ulteriori indagini o analisi;
  • qualora, infine, sussista la medesima descrizione del rifiuto sia come non pericoloso che come pericoloso, seppur con diversi codici Eer, si parla di cosiddetti “codici a specchio” e la pericolosità – o meno – potrà essere accertata attraverso specifiche analisi per verificare il superamento dei limiti di pericolosità. L’indagine dovrà essere svolta con riferimento alle “sostanze pertinenti, vale a dire quelle potenzialmente presenti nel rifiuto in relazione al processo produttivo che lo ha generato.

Sul tema della pericolosità, si ricorda infatti che, con tre distinte ordinanze del 27 luglio 2017[50], la corte di Cassazione penale ha disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue in tema di:

  • classificazione dei rifiuti con voci speculari;
  • metodiche per la ricerca delle sostanze pericolose;
  • ricerca, effettiva o presuntiva, delle sostanze pericolose;
  • gestione precauzionale come rifiuto pericoloso in caso di dubbio o impossibilità di individuare con certezza le sostanze pericolose.

Con la sentenza 28 marzo 2019 (cause C487 e C489/17) la corte di Giustizia ha risposto confermando, nella sostanza, la tesi della probabilità, secondo la quale, per compiere correttamente la classificazione non è necessario, sempre e comunque, verificare analiticamente la presenza di tutte le sostanze pericolose esistenti e determinarne la concentrazione (in questo senso anche Cassazione penale n. 2577/2019). Al contrario, vanno ricercate e analizzate soltanto le sostanze potenzialmente presenti nel rifiuto, applicando il criterio di “pertinenza” delle sostanze rispetto alle caratteristiche e alla genesi del rifiuto stesso. A detta della Corte, infatti, «l’allegato III della direttiva 2008/98 nonché l’allegato della decisione 2000/532 devono essere interpretati nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento n. 440/2008 o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale». Quanto alla gestione precauzionale come rifiuto pericoloso, la Corte ha bilanciato il principio di precauzione con quello di fattibilità tecnica e praticabilità economica, «in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze»[51] (orientamento poi recepito dalla Cassazione penale nella sentenza n. 47288/2019).

Sempre in tema di caratteristiche di pericolo, il regolamento n. 2017/997/Ue definisce nell’allegato III alla direttiva 2008/98/Ce le nuove condizioni per classificare un rifiuto pericoloso di tipo “HP 14 ecotossico”[52]. Il regolamento, menzionato dall’art. 9, D.L. n. 91/2017, già richiamato, è applicabile dal 5 luglio 2018[53] e sostituisce la disciplina di cui all’allegato VI della direttiva 67/548/Cee[54]. La caratteristica di pericolo “HP 9 infettivo” viene, invece, verificata in conformità al D.P.R. n. 254/2003. Da ultimo, si ricorda che anche il D.Lgs. n. 116/2020 è intervenuto in tema di classificazione, introducendo all’art. 184, comma 5 la previsione per la quale «[…] La corretta attribuzione dei Codici dei rifiuti e delle caratteristiche di pericolo dei rifiuti è effettuata dal produttore sulla base delle Linee guida redatte, entro il 31 dicembre 2020, dal Sistema nazionale per la protezione e la ricerca ambientale […]». Per espressa previsione normativa le linee guida devono essere approvate con decreto del ministero dell’Ambiente, sentita la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Non è chiaro se entro la fine del 2020 verranno emanate dall’Snpa nuove linee guida, ovvero se il ministero dell’Ambiente convaliderà quelle recentemente approvate con delibera del Consiglio Snpa n. 61/2019 e diffuse dal marzo 2020.

La responsabilità e gli obblighi di produttori e detentori di rifiuti

Il produttore di rifiuti è «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)» [art. 183, comma 1, lettera f)]. Mentre la nozione di “nuovo produttore” non incontra, né ha mai incontrato, particolari criticità interpretative (si veda la sentenza del Tar Veneto n. 772/2016), quella di “produttore iniziale”, invece, soprattutto se riferita ai contratti di appalto, è stata oggetto di un fervente contrasto interpretativo. La legge n. 125/2015 ha poi aggiunto l’inciso «e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione»[55], rendendo la nozione ancora più controversa. Prima della modifica, la giurisprudenza aveva proposto due interpretazioni contrapposte:

  • il committente non è mai il produttore del rifiuto (lo produce l’appaltatore con la sua attività materiale)[56];
  • il committente è sempre produttore del rifiuto (eventualmente affiancato all’appaltatore)[57].

Con la modifica operata dalla legge n. 125/2015, il legislatore ha raggiunto una sintesi[58], aderendo a un orientamento giurisprudenziale che aveva proposto una tesi intermedia[59]: di regola il committente non è produttore; tuttavia, a determinate condizioni (ad esempio, se si ingerisce nella gestione e se dà direttive all’appaltatore) può diventarlo (coerentemente, la nuova formulazione identifica come produttore anche colui al quale la produzione del rifiuto è «giuridicamente riferibile»[60]). Per individuare nell’appaltatore l’unico produttore dei rifiuti continuano, pertanto, ad avere fondamentale rilevanza[61] requisiti quali:

  • la materiale attività di produzione del rifiuto da parte dello stesso;
  • la totale autonomia nella gestione del rifiuto da parte dell’appaltatore;
  • gli accordi/previsioni contrattuali che specificamente e puntualmente individuino nell’appaltatore il soggetto che ha l’integrale onere di gestire il rifiuto (Cassazione penale n. 847/2020 – vedere il box 7 - Leading case).

Alla definizione di “produttore del rifiuto” si affianca poi quella di “detentore”, non controversa, che individua «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso» [art. 183 comma 1, lettera h)]. La giurisprudenza ha qualificato come detentore il soggetto che ha raccolto e commercializzato, ai fini di lucro, rifiuti prodotti da terzi, consegnandoli a un operatore professionale (sentenza della Cassazione penale n. 5719/2016); in termini di responsabilità, come il produttore, anche il detentore che affida i propri rifiuti a soggetti terzi privati, ha l’obbligo di controllare che gli stessi siano autorizzati e risponde a titolo di colpa nel reato di illecita gestione nel caso in cui ometta questa verifica (sentenza della Cassazione penale n. 3860/2015).

Sempre più frequente nella prassi è poi la nozione di intermediario, che individua qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi [art. 183 comma 1, lettera l)]. Anche in questo caso, le possibili declinazioni sono due:

  • l’«intermediario con detenzione» è il soggetto che dispone del rifiuto avendone la materiale disponibilità e che corrisponde alla figura del gestore;
  • diversamente, chiunque gestisce il rifiuto prodotto da un terzo senza averne la detenzione, diventa «intermediario senza detenzione» e, come tale, deve essere iscritto alla categoria 8 dell’albo nazionale dei gestori ambientali (sentenza del Tar Venezia n. 2623/2009).

La responsabilità dei produttori e detentori di rifiuti è estesa per l’intera catena di gestione (sentenza della Cassazione penale n. 13025/2014 e Tar Veneto n. 1181/2013) e viene meno nelle ipotesi previste dal comma 4 dell’art. 188:

  • con il conferimento del rifiuto al servizio pubblico di raccolta;
  • a seguito del conferimento del rifiuto a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento, a condizione di disporre della quarta copia del formulario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero a condizione di aver trasmesso alla provincia, alla scadenza del predetto termine, una comunicazione di mancata ricezione del formulario.

Nella nuova formulazione dell’art. 188, introdotta con il D.Lgs. n. 116/2020, è ribadito che la consegna dei rifiuti a un soggetto che ne garantisce la gestione ai fini del trattamento non costituisce, per il produttore e il detentore, «esclusione automatica della responsabilità rispetto alle operazioni di effettivo recupero o smaltimento». In questa prospettiva, il nuovo comma 5 specifica che in caso di destinazione dei rifiuti ad attività di raggruppamento (D13), ricondizionamento (D14) e deposito preliminare (D15), la responsabilità del produttore viene meno con la ricezione:

  • della quarta copia del Fir[62] e
  • dell’attestazione di avvenuto smaltimento, resa con autocertificazione dal titolare dell’impianto[63].

L’attestazione di avvenuto smaltimento, che riprende un concetto già noto nella disciplina previgente anche se mai formalmente adottato, troverà applicazione fino a quando non sarà pienamente efficace il nuovo sistema di tracciabilità dei rifiuti - Rentri, nell’ambito del quale verrà comunque mantenuta una “comunicazione di avvenuto smaltimento. A poche settimane dall’entrata in vigore della disposizione, non risulta chiaro se l’impianto che deve rendere l’attestazione sia quello intermedio che esegue le operazioni non definitive di smaltimento, o quello di trattamento finale. Considerando lo scopo della norma, l’attestazione dovrebbe essere resa dal titolare dell’impianto di smaltimento finale. D’altro canto, gli impianti di trattamento intermedio sono quelli che, nel sistema attuale, meglio individuano la tracciabilità in entrata/uscita. Permangono, in ogni caso, criticità legate alla privacy, perché in caso di trattamento intermedio l’impianto finale non conosce l’identità del produttore, alle possibili tempistiche di stoccaggio, nonché agli aspetti commerciali ed ai rapporti tra i soggetti.

Il rifiuto deve in goni caso essere consegnato «a soggetti autorizzati». A tale fine, si è precisato che i controlli sulle autorizzazioni sono di tipo formale (sentenza della Cassazione penale n. 26938/2013); si tratta cioè di verificare che l’autorizzazione/iscrizione:

  • sia stata rilasciata dalla autorità competente;
  • non sia palesemente contraffatta;
  • non sia vistosamente irregolare;
  • sia temporalmente valida;
  • consenta di trasportare/ricevere i rifiuti che si intendono conferire.

Il deposito temporaneo e i rifiuti da manutenzione

Il deposito temporaneo è l’unica forma di raggruppamento di rifiuti che non necessita di autorizzazione a patto che sia realizzata dal produttore e che siano rispettate le condizioni previste dalla disciplina di settore (sentenza della Cassazione penale n. 25333/2019). Trattandosi di ipotesi di deposito eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria, che prevede la necessità di un’autorizzazione, l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito grava sul produttore dei rifiuti che intende allestirlo (sentenza della Cassazione penale n. 16716/2019). Qualora difetti anche solo una delle condizioni, non potrà parlarsi di deposito temporaneo e potranno venire in rilievo i concetti di «deposito incontrollato», «abbandono di rifiuti» e «discarica abusiva» (sentenza della Cassazione penale n. 8549/2018). Dal 1997 la disciplina del deposito temporaneo è sempre stata condensata nell’articolo dedicato alle definizioni, in particolare, dal 2006, all’art. 183, comma 1, lettera bb). In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, il legislatore ha scelto di dedicare al deposito temporaneo un articolo autonomo, il nuovo 185-bis. Dal punto di vista dei contenuti, la nuova formulazione non si discosta molto dalla precedente. Resta, infatti, la specificazione per la quale il deposito temporaneo deve avvenire “prima della raccolta”, nonché le condizioni riguardanti gli inquinanti organici persistenti, il raggruppamento per categorie omogenee, l’imballaggio e l’etichettatura. Sono stati confermati anche i limiti temporali o quantitativi di deposito, pari – alternativamente (sentenza della Cassazione penale n. 42110/2019) - a:

  • 3 mesi, indipendentemente dalle quantità, ovvero
  • 30 mc, di cui 10 m3 di rifiuti pericolosi[64], entro il termine massimo annuale[65].

 

Quanto al luogo di produzione, unica area nella quale può essere allestito il deposito temporaneo, il comma 1 del nuovo art. 185-bis prevede tre distinte ipotesi:

1) l’intera area in cui si svolge l’attività[66] che ha determinato la produzione dei rifiuti (sentenza della Cassazione penale n. 43422/2019);

2) i locali del punto vendita dei distributori, per quanto concerne i “rifiuti soggetti a responsabilità estesa del produttore, anche di tipo volontario”;

3) le aree di pertinenza dei punti di vendita dei relativi prodotti, nel caso di rifiuti da costruzione e demolizione nonché per le filiere di rifiuti “per le quali vi sia una specifica disposizione di legge”.

Nelle ipotesi di cui ai punti 2) e 3), la nuova norma si riferisce al deposito preliminare alla raccolta, istituto mutuato dalla disciplina Raee e che rientra nel concetto di raccolta. Per quanto non formalizzato nel testo della nuova disposizione, deve ritenersi confermata la possibilità di effettuare il deposito temporaneo anche in un luogo funzionalmente collegato a quello di produzione, come affermato dalla giurisprudenza[67]. Il nuovo articolo 185-bis si chiude con la specificazione (già prevista al comma 17 dell’art. 208) per la quale il rispetto delle condizioni previste dalla disciplina comporta che il deposito temporaneo «non necessita di autorizzazione da parte dell’autorità competente».

Una categoria di rifiuti strettamente collegata al concetto di deposito temporaneo è quella dei rifiuti da manutenzione, per i quali sono infatti previste specifiche deroghe nell’individuazione del luogo di produzione. Ai sensi dell’art. 230, i rifiuti «derivanti da attività di manutenzione alle infrastrutture, effettuata direttamente dal gestore dell'infrastruttura a rete e degli impianti per l'erogazione di forniture e servizi di interesse pubblico o tramite terzi» si considerano prodotti, alternativamente:

  • presso la sede del cantiere,
  • presso la sede locale del gestore dell’infrastruttura, ovvero
  • presso il luogo di concentramento, inteso quale area nella quale il materiale tolto d’opera, nel termine di 60 giorni dall’ultimazione di lavori, deve essere sottoposto a una valutazione tecnica «finalizzata all'individuazione del materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento».

 

Per lungo tempo non è stato chiaro se il materiale tolto d’opera dovesse essere trasportato nel luogo di concentramento con Fir ovvero con documento di trasposto. Il dubbio è stato risolto dal nuovo comma 20 dell’art. 193, dove si specifica che il trasporto avviene con Ddt e non con formulario. Analogamente ai rifiuti da manutenzione delle infrastrutture, quelli provenienti dalle attività di pulizia manutentiva delle reti fognarie si considerano prodotti dal soggetto che svolge l'attività[68] e possono essere «conferiti direttamente ad impianti di smaltimento o recupero o, in alternativa, raggruppati temporaneamente presso la sede o unità locale del soggetto che svolge l'attività di pulizia manutentiva» (art. 230 comma 5). Restando in tema di rifiuti da manutenzione, il D.Lgs. n. 116/2020 ha introdotto alcune novità anche in termini di tracciabilità. Così, il nuovo comma 19 dell’art. 193 dispone che i rifiuti derivanti da attività di manutenzione e piccoli interventi edili si considerano prodotti presso l’unità locale, sede o domicilio del manutentore, fermo restando che se i quantitativi sono limitati, tali da non giustificare l’allestimento di un deposito dove è svolta l’attività, «il trasporto dal luogo di effettiva produzione alla sede, in alternativa al formulario di identificazione, è accompagnato dal documento di trasporto (DDT) attestante il luogo di effettiva produzione tipologia e quantità dei materiali, indicando il numero di colli o una stima del peso o volume, il luogo di destinazione». Infine, i rifiuti provenienti da assistenza sanitaria domiciliare si considerano prodotti presso l’unità locale, sede o domicilio dell’operatore che svolge tali attività; la loro movimentazione dal luogo dell’intervento fino alla sede di chi lo ha svolto, non configurando trasporto, non comporta l’obbligo di tenuta del FIR, né di iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali (art. 193 comma 18).

 

La tracciabilità dei rifiuti

La tracciabilità in tema di rifiuti si declina in quattro principali adempimenti per le imprese:

  • la tenuta dei registri di carico e scarico;
  • l’adesione al registro nazionale di tracciabilità dei rifiuti (Rentri);
  • la compilazione del formulario identificativo del rifiuto (Fir);
  • la comunicazione annuale del modello unico di dichiarazione ambientale (Mud).

Come riportato al paragrafo 4.7, il D.Lgs. n. 116/2020 ha affiancato a queste quattro forme di tracciabilità anche l’attestazione di avvenuto smaltimento, applicabile tutte le volte in cui un rifiuto non viene destinato a smaltimento definitivo ma ad attività D13, D14, D15.

Entrando più nel dettaglio, sono tenuti ad annotare nei registri cronologici di carico e scarico le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti i seguenti soggetti:

  • chi effettua a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti;
  • i commercianti;
  • gli intermediari di rifiuti senza detenzione;
  • le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento di rifiuti;
  • i consorzi istituiti per il recupero e il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti;
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi;
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti da lavorazioni industriali [art. 184, comma 3, lettera c)];
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti da attività commerciali [art. 184, comma 3, lettera d)];
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi [art. 184, comma 3, lettera g)].

Dal 26 settembre 2020 sono, invece, esonerati dall’obbligo di tenuta dei registri, oltre agli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 del codice civile (con un volume di affari annuo non superiore a euro ottomila) e le imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi (art. 212, comma 8), anche le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che non hanno più di dieci dipendenti. Le formalità di annotazione avvengono sui registri di carico e scarico, utili anche ai fini della comunicazione annuale al catasto, numerati, vidimati dalle Camere di commercio e gestiti con le procedure e le modalità fissate dalla normativa sui registri Iva. In attesa della riforma collegata al registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti, i modelli di registri sono quelli previsti dal D.M. n. 148/1998. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 190 comma 1, le informazioni da annotare riguardano, per ogni tipologia di rifiuto, la quantità prodotta, la natura e l'origine, la quantità dei prodotti e materiali ottenuti dalle operazioni di trattamento quali preparazione per riutilizzo, riciclaggio e altre operazioni di recupero nonché, laddove previsto, gli estremi del formulario di identificazione del rifiuto (nuovo art. 190 comma 1). La registrazione delle quantità di end of waste costituisce una novità introdotta con il D.Lgs. n. 116/2020. Con l’operatività del Rentri, la tracciabilità di tutti i passaggi gestionali dovrebbe essere semplificata, anche in funzione dei nuovi modelli di registri che verranno adottati. Allo stato attuale, tuttavia, dovendo riferirsi ai modelli di cui al D.M. 148/1998, che non trattano espressamente di prodotti, sembra opportuno dare conto delle quantità di prodotti che esulano dal recupero utilizzando il campo annotazioni. In termini temporali, le annotazioni devono essere effettuate:

  • per i produttori iniziali, almeno entro dieci giorni lavorativi dalla produzione del rifiuto e dallo scarico del medesimo;
  • per i soggetti che effettuano la raccolta e il trasporto, almeno entro dieci giorni lavorativi dalla data di consegna dei rifiuti all'impianto di destino;
  • per i commercianti, gli intermediari e i consorzi, almeno entro dieci giorni lavorativi dalla data di consegna dei rifiuti all'impianto di destino;
  • per i soggetti che effettuano le operazioni di recupero e di smaltimento, entro due giorni lavorativi dalla presa in carico dei rifiuti.

 

I registri devono essere conservati per 3 anni (a tempo illimitato per gli impianti di discarica) presso ogni impianto o presso la sede operativa nel caso di imprese che effettuano attività di raccolta, trasporto, commercio e intermediazione di rifiuti. Esistono poi deroghe specifiche in favore dei siti dismessi e non presidiati, dei centri di raccolta, di chi effettua attività di manutenzione, dei produttori di rifiuti la cui produzione annua non eccede le 20 tonnellate di rifiuti non pericolosi e le 4 tonnellate di rifiuti pericolosi, nonché di chi effettua attività di gestione dei rifiuti costituiti da rottami ferrosi e non ferrosi.

Quando alla tracciabilità durante il trasporto, il cosiddetto “decreto-legge semplificazioni” (D.L. n. 135/2019), convertito, con modificazioni, nella legge n. 12/2019, ha soppresso il Sistri a fare data dal 1° gennaio 2019 e previsto il registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti (Rentri) [69]. Si tratta di un sistema ispirato a criteri di maggior efficacia, efficienza e semplicità, che sarà gestito direttamente dal ministero dell’Ambiente con il supporto dell’Albo nazionale dei gestori ambientali. Il nuovo sistema di tracciabilità è già istituito, ma, per essere operativo, è necessario attendere un decreto interministeriale che definirà le modalità di organizzazione e funzionamento del registro, le modalità di iscrizione, gli adempimenti cui saranno tenuti gli iscritti e gli importi dovuti. Ai sensi dell’art. 6 comma 3, D.L. n. 135/2019, come convertito, saranno tenuti a iscriversi al nuovo registro i soggetti riportati in tabella 7. 

Tabella 7
Soggetti tenuti a iscriversi al nuovo registro elettronico

 

a gli enti e le imprese che effettuano attività di trattamento dei rifiuti (recupero e/o smaltimento)
b i consorzi istituiti per il recupero ed il riciclaggio di particolari degli imballaggi e di tipologie di rifiuti
c i produttori di rifiuti pericolosi
d gli enti e le imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi a titolo professionale
e i commercianti e gli intermediari (senza detenzione) di rifiuti pericolosi
f chi effettua a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi
g i commercianti e gli intermediari senza detenzione di rifiuti non pericolosi
h gli enti e le imprese produttori iniziali dei rifiuti speciali non pericolosi da lavorazioni industriali
I gli enti e le imprese produttori iniziali dei rifiuti speciali non pericolosi da lavorazioni artigianali
l gli enti e le imprese produttori iniziali dei rifiuti speciali non pericolosi derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti
m gli enti e le imprese produttori iniziali dei rifiuti speciali non pericolosi costituiti da fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acquee, nonché dalla depurazione delle acque reflue
n gli enti e le imprese produttori iniziali dei rifiuti speciali non pericolosi derivanti da abbattimento dei fumi
o gli enti e le imprese produttori iniziali dei rifiuti speciali non pericolosi derivanti dalle fosse settiche e dalle reti fognarie

 

I soggetti non obbligati a iscriversi potranno aderire al registro su base volontaria. Il nuovo art. 188-bis, introdotto dal D.Lgs. n. 116/2020, al comma 3 dispone che il registro è articolato in:

  • una sezione “Anagrafica, comprensiva dei dati sei soggetti iscritti e le informazioni relative alle specifiche autorizzazioni a questi rilasciate, e
  • una sezione “Tracciabilità”, che conterrà i dati ambientali relativi a registri di carico e scarico e formulari, nonché i dati relativi ai percorsi dei mezzi di trasporto rifiuti.

 

L’operatività del Rentri comporterà nuovi modelli digitali per registri di carico e scarico e FIR, che dovrebbero “parlare” sia con i sistemi gestionali delle singole aziende, che con il Catasto nazionale, garantendo la precompilazione automatica del Mud. Fino alla operatività del Rentri, i soggetti precedentemente obbligati ad aderire al Sistri adottano le modalità cartacee di tracciabilità dei rifiuti, ferma la possibile adozione delle modalità telematiche di cui all'articolo 194-bis[70]. Una volta che il Rentri sarà operativo, i soggetti che non vi aderiranno potranno continuare ad utilizzare le modalità cartacee di tracciabilità.

Si ricorda, infine, che, come conseguenza della soppressione del Sistri, risultano abrogate dal 1° gennaio 2019 tutte le disposizioni collegate e/o dipendenti dal vecchio sistema, oggi in gran parte sostituite dal D.Lgs. n. 116/2020, e, in realtà, mai entrate in vigore. Il D.Lgs. n. 205/2010 ne aveva infatti condizionato l’efficacia alla piena operatività del Sistri, mai veramente avvenuta (sentenza della Cassazione penale n. 34525/2017).

In termini generali, il formulario di identificazione del rifiuto (Fir) è un modulo numerato e vidimato, redatto in quattro esemplari sulla base del modello descritto nel D.M. n. 145/1998, dal quale devono risultare almeno i seguenti dati:

  1. nome e indirizzo del produttore e del detentore;
  2. origine, tipologia e quantità del rifiuto;
  3. impianto di destinazione;
  4. data e percorso dell'istradamento;
  5. nome e indirizzo del destinatario.

La prima copia del formulario, compilata, datata e firmata dal produttore o dal detentore dei rifiuti resta a questo soggetto. Le altre tre, una volta controfirmate, sono acquisite dal destinatario (una copia) e dal trasportatore (due copie), che provvede a ritrasmettere la quarta copia al produttore/detentore. La trasmissione della quarta copia, che esonera il produttore da responsabilità, può essere sostituita dall'invio mediante posta elettronica certificata sempre che il trasportatore assicuri la conservazione del documento originale ovvero provveda, successivamente, all'invio dello stesso al produttore. Le copie del formulario devono essere conservate per tre anni (prima del D.Lgs. n. 116/2020 gli anni erano 5).

Il nuovo art. 193, comma 17, D.Lgs. n. 152/2006 dispone che nella compilazione dei formulari ogni operatore sia responsabile delle informazioni inserite e sottoscritte nella parte di propria competenza e che il trasportatore non risponda per quanto indicato nel Fir dal produttore o dal detentore e per le eventuali difformità tra la descrizione dei rifiuti e la loro effettiva natura e consistenza, «fatta eccezione per le difformità riscontrabili in base alla comune diligenza». In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue è stata, inoltre, prevista la possibilità di sostituire i Fir vidimati con la stampa in duplice copia di formulari identificati da numero univoco e l’utilizzo di mere fotocopie (vedere il box 4).

Box 4
 

Nuovo art. 193, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006

«Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 188-bis, comma 1, in alternativa alle modalità di vidimazione di cui al comma 3, il formulario di identificazione del rifiuto è prodotto in format esemplare, conforme al decreto del Ministro dell’ambiente 1° aprile 1998, n. 145, identificato da un numero univoco, tramite apposita applicazione raggiungibile attraverso i portali istituzionali delle Camere di Commercio, da stamparsi e compilarsi in duplice copia. La medesima applicazione rende disponibile, a coloro che utilizzano propri sistemi gestionali per la compilazione dei formulari, un accesso dedicato al servizio anche in modalità telematica al fine di consentire l’apposizione del codice univoco su ciascun formulario. Una copia rimane presso il produttore e l’altra accompagna il rifiuto fino a destinazione. Il trasportatore trattiene una fotocopia del formulario compilato in tutte le sue parti. Gli altri soggetti coinvolti ricevono una fotocopia del formulario completa in tutte le sue parti. Le copie del formulario devono essere conservate per tre anni».

Ultima modalità di tracciabilità dei rifiuti è la comunicazione annuale del modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) da parte dei medesimi soggetti obbligati alla tenuta dei registri di carico e scarico. Il modello, in particolare, contiene le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto delle predette attività, suddivise per ogni singola tipologia di gestione. Come già anticipato, ai sensi del nuovo art. 189 comma 9, il decreto ministeriale che disciplinerà il Rentri conterrà disposizioni per il coordinamento tra le comunicazioni Mud e gli adempimenti trasmessi al Rentri, «garantendone la precompilazione automatica» del modello.

La responsabilità del produttore del prodotto

Alla responsabilità del produttore del rifiuto e del detentore, dal 2010 si è affiancata la responsabilità estesa del produttore del prodotto (art. 178-bis, D.Lgs. n. 152/2006), che si riferisce a qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppa, fabbrica, trasforma, tratta, vende o importa prodotti [art. 183, comma 1, lettera g)]. La direttiva 2008/98/Ce, nell’ottica della prevenzione, ha orientato gli Stati membri verso questa nozione «per incoraggiare una progettazione dei prodotti volta a ridurre i loro impatti ambientali e la produzione di rifiuti» (art. 8, comma 2). Coerentemente con la politica integrata dei prodotti (Ipp)[71], il ruolo centrale deve essere assunto dal life-cycle thinking[72] e la responsabilizzazione dei produttori dei beni deve permanere anche quanto i loro prodotti si trasformano in rifiuti[73]. Affinché la disciplina in tema di produttore del prodotto diventi effettiva, è necessario attendere l’adozione di uno o più decreti ministeriali (vedere il comma 1 dell’art. 178-bis), nei quali saranno individuate specifiche modalità e criteri (vedere la tabella 8).

 

Tabella 8 
Modalità e criteri connessi alla responsabilità del produttore del bene

 

A Gestione dei rifiuti e della relativa responsabilità finanziaria dei produttori del prodotto
B Pubblicizzazione delle informazioni relative alla misura in cui il prodotto è riutilizzabile e riciclabile
C Progettazione dei prodotti volta a ridurre i loro impatti ambientali
D Progettazione dei prodotti volta a diminuire o eliminare i rifiuti durante la produzione e il successivo utilizzo dei prodotti, assicurando che il recupero e lo smaltimento dei prodotti che sono diventati rifiuti avvengano in conformità ai criteri di cui agli articoli 177 e 179
E Favorire e incoraggiare lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti adatti all’uso multiplo, tecnicamente durevoli, e che, dopo essere diventati rifiuti, sono adatti ad un recupero adeguato e sicuro e a uno smaltimento compatibile con l’ambiente

 

A dieci anni dall’entrata in vigore della nuova disposizione, l’esecutivo non ha ancora declinato le specifiche caratteristiche di questa forma di responsabilità. Ciò però non preclude, in termini generali, la possibilità di realizzare prassi virtuose che prendano spunto da esempi già rodati (si pensi alla gestione dei Raee, nella quale si è già da tempo concretizzato il pieno coinvolgimento e la responsabilizzazione diretta del produttore del bene, anche nella fase di gestione del rifiuto, allo scopo di garantire un recupero efficace ed effettivo[74]). Una forte accelerazione verso l’effettiva responsabilizzazione del produttore del prodotto è data dalla direttiva 2018/851/Ue. Il D.Lgs. n. 116/2020 ha, infatti, riscritto l’art. 178-bis e con esso i criteri e le modalità di attuazione della responsabilità estesa, nonché aggiunto il nuovo art. 178-ter che definisce i requisiti generali minimi della responsabilità. Obiettivo del legislatore è individuare con un decreto ministeriale, anche su istanza di parte, regimi di responsabilità estesa del produttore che prevedano l’accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l’utilizzo, nonché la gestione, anche finanziaria, di questi rifiuti (favorendo la prevenzione, l’uso ed il riciclaggio multipli). I requisiti e gli obblighi dei regimi di responsabilità estesa sono declinati dall’art. 178-ter, nel quale è disciplinato anche il contributo finanziario che dovrà essere versato dai produttori per la gestione, anche in forma collettiva, dei propri prodotti e dei rifiuti da essi derivanti. Al ministero dell’Ambiente è demandata la vigilanza ed il controllo sul rispetto degli obblighi derivanti dalla responsabilità estesa, nonché la gestione del registro nazionale dei produttori al quale i soggetti aderenti ai regimi di responsabilità dovranno iscriversi.

 

Le autorizzazioni e le iscrizioni ordinarie e semplificate

Per essere lecita, ogni attività di gestione di rifiuti deve essere autorizzata dall’autorità competente[75]. Chiunque intenda avviare un’attività di recupero o smaltimento rifiuti, anche pericolosi, deve fare riferimento a una delle diverse tipologie di autorizzazioni previste dall’ordinamento. Analogamente, i soggetti diversi dal produttore che intendono gestire rifiuti prima del trattamento, devono disporre dell’iscrizione all’albo nazionale dei gestori ambientali.

I principali regimi autorizzativi di gestione rifiuti sono quattro:

  1. autorizzazione integrata ambientale, disciplinata nella parte seconda del D.Lgs. n. 152/2006;
  2. autorizzazione unica, ex 208, D.Lgs. n. 152/2006;
  3. autorizzazione di impianti mobili, ex 208, comma 15, D.Lgs. n. 152/2006;
  4. autorizzazione semplificata, ex 214 e 216, D.Lgs. n. 152/2006.

Entrando più nel dettaglio, l’ambito applicativo dell’Aia riguarda la gestione di impianti di recupero e smaltimento rifiuti, conformemente alla disciplina Ippc. Per individuare le attività sottoposte a questo regime è necessario fare riferimento alle condizioni e soglie riportate negli allegati VIII (per gli impianti di competenza regionale) e XII (per gli impianti di competenza statale) della parte II del D.Lgs. n. 152/2006. Con il D.Lgs. n. 46/2014[76], di recepimento della direttiva Ied (2010/75/Ue), è stato, per la prima volta, esteso l’ambito di applicazione della disciplina Ippc anche ad alcuni impianti di recupero rifiuti (vedere la tabella 9).

 

Tabella 9
Attività di gestione rifiuti sottoposte ad aia regionale (allegato VIII, parte II)
 
5.1. Lo smaltimento o il recupero di rifiuti pericolosi, con capacità di oltre 10 Mg al giorno, che comporti il ricorso ad una o più delle seguenti attività:

a […].

5.2. Smaltimento o recupero dei rifiuti in impianti di incenerimento dei rifiuti o in impianti di coincenerimento dei rifiuti: a […].
5.3. a)     Lo smaltimento dei rifiuti non pericolosi, con capacità superiore a 50 Mg al giorno, che comporta il ricorso ad una o più delle seguenti attività ed escluse le attività di trattamento delle acque reflue urbane, disciplinate al paragrafo 1.1 dell’Allegato 5 alla parte terza:

1) […].

b)      Il recupero, o una combinazione di recupero e smaltimento, di rifiuti non pericolosi, con una capacità superiore a 75 Mg al giorno, che comportano il ricorso ad una o più delle seguenti attività ed escluse le attività di trattamento delle acque reflue urbane, disciplinate al paragrafo 1.1 dell’allegato 5 alla parte terza:

1) […].

5.4. Discariche, che ricevono più di 10 Mg di rifiuti al giorno o con una capacità totale di oltre 25000 Mg, a esclusione delle discariche per i rifiuti inerti.
5.5. Accumulo temporaneo di rifiuti pericolosi non contemplati al punto 5.4 prima di una delle attività elencate ai punti 5.1, 5.2, 5.4 e 5.6. con una capacità totale superiore a 50 Mg, eccetto il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono generati i rifiuti.
5.6. Deposito sotterraneo di rifiuti pericolosi con una capacità totale superiore a 50 Mg.

 

Il comma 2 dell’art. 208 prevede che l’Aia sostituisca l’autorizzazione unica ed elenca una serie di principi di coordinamento tra le due discipline. Rispetto alle procedure semplificate, invece, l’Aia ha valore sostitutivo «limitatamente alle attività non ricadenti nella categoria 5 dell’Allegato I del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 […]»[77]. Se un impianto di smaltimento o recupero rifiuti è fisicamente ricompreso in un’installazione sottoposta ad Aia, il comma 12-bis dell’art. 208 prevede che «il rinnovo, l’aggiornamento e il riesame dell’autorizzazione di cui al presente articolo sono disciplinati dal Titolo III-bis della Parte Seconda, previa estensione delle garanzie finanziarie già prestate». Per la disciplina generale in tema di Aia si rimanda al capitolo 2.

L’autorizzazione ordinaria ex art. 208 si applica in via residuale agli impianti che non rientrano nell’ambito applicativo Ippc ed è un regime che permette di ottenere, all’esito di un’attività istruttoria, un provvedimento autorizzativo perfettamente “aderente” all’attività specifica, soprattutto in termini prescrittivi. All’esito del procedimento previsto dall’art. 208, la Regione (o l’altro ente da questa individuato) rilascia l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dell’impianto, che ha natura di «autorizzazione ad ombrello»[78] (sentenza del Consiglio di Stato n. 1015/2018) e contiene le prescrizioni che il gestore deve rispettare per esercitare l’attività di recupero o di smaltimento. Le prescrizioni impartite devo garantire l’attuazione dei principi di cui all’art. 178[79], D.Lgs. n. 152/2006; per questo motivo, l’art. 208 comma 11 (come modificato dal D.Lgs. n. 205/2010), prevede un contenuto prescrittivo “minimo” (si veda la tabella 10).

 

Tabella 10
Contenuto prescrittivo minimo autorizzazione ex art. 208

 

a I tipi e i quantitativi di rifiuti che possono essere trattati
b Per ciascun tipo di operazione autorizzata, i requisiti tecnici con particolare riferimento alla compatibilità del sito, alle attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi massimi di rifiuti e alla modalità di verifica, monitoraggio e controllo della conformità dell’impianto al progetto approvato
c Le misure precauzionali e di sicurezza da adottare
d La localizzazione dell’impianto autorizzato
e Il metodo da utilizzare per ciascun tipo di operazione
f Le disposizioni relative alla chiusura e agli interventi a essa successivi che si rivelino necessarie
g Le garanzie finanziarie richieste, che devono essere prestate solo al momento dell’avvio effettivo dell’esercizio dell’impianto; le garanzie finanziarie per la gestione della discarica, anche per la fase successiva alla sua chiusura, dovranno essere prestate conformemente a quanto disposto dall’articolo 14 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36
h La data di scadenza dell’autorizzazione, in conformità con quanto previsto al comma 12
i I limiti di emissione in atmosfera per i processi di trattamento termico dei rifiuti, anche accompagnati da recupero energetico

 

Dall’inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione possono derivare sanzioni amministrative a carattere inibitorio (sentenza del Tar Lombardia – Milano n. 60/2017):

  • la diffida, in cui viene stabilito un termine entro il quale devono essere eliminate le inosservanze;
  • la diffida e la contestuale sospensione dell’autorizzazione per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente;
  • la revoca dell’autorizzazione, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino situazione di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente.

 

Le disposizioni dell’art. 208 si applicano anche per la realizzazione di varianti sostanziali in corso d’opera o di esercizio che comportino modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all’autorizzazione rilasciata (comma 19); l’autorizzazione ha una validità di dieci anni ed è rinnovabile a condizione che il gestore presenti formale domanda almeno centottanta giorni prima della scadenza; se questo termine è rispettato e l’autorità competente non provvede prima della scadenza del titolo, il gestore può proseguire l’attività fino alla decisione espressa, previa estensione delle garanzie finanziarie.

Una particolare ipotesi di autorizzazione unica è quella prevista dal comma 15 dell’art. 208 per gli impianti mobili[80] con i quali si effettuano campagne di smaltimento o di recupero rifiuti. L’articolo in parola prevede un’autorizzazione rilasciata «in via definitiva» dalla Regione ove l’interessato ha la sede legale, valida per un solo impianto (sentenza del Tar Piemonte n. 171/2012); a questa deve fare seguito, almeno 60 giorni prima di ogni singola campagna di trattamento, l’invio di una comunicazione alla regione nel cui territorio si svolgerà l’attività; questa può adottare prescrizioni integrative oppure può vietare il trattamento con provvedimento motivato qualora lo svolgimento dello stesso non sia compatibile con la tutela dell’ambiente o della salute pubblica (sentenza del Tar Veneto n. 772/2016). Alla disciplina prevista dal comma 15 fanno eccezione «gli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano» e gli impianti che effettuano la «sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee»[81]. Si tratta di impianti che possono essere eserciti senza alcuna autorizzazione al trattamento.

Gli artt. 214-216, D.Lgs. n. 152/2006 disciplinano, con riguardo alle attività di smaltimento[82] e recupero di rifiuti, l’ammissione alle procedure autorizzatorie in regime semplificato. Dal 2013 questa autorizzazione è confluita nel campo di operatività dell’Aua (autorizzazione unica ambientale), disciplinata dal D.P.R. n. 59/2013[83], ferma la facoltà per il gestore di non entrare nel procedimento unico nel caso in cui l’attività svolta sia soggetta alla sola comunicazione di cui agli artt. 214-216 (e non anche ad altri titoli tra quelli sostituiti dall’Aua) e ferma restando la presentazione della comunicazione per il tramite dello sportello unico delle attività produttive (Suap)[84]. Quanto alla determinazione di tipologie, quantità e condizioni per l’ammissione al recupero semplificato, il riferimento è ancora il D.M. 5 febbraio 1998 per i rifiuti non pericolosi e il D.M. 12 giugno 2002, n. 161 per quelli pericolosi. Al netto della disciplina in tema di Aua (vedere il capitolo 2), il trattamento di rifiuti in regime semplificato può essere intrapreso decorsi novanta giorni dall’avvenuta comunicazione di inizio attività alla provincia competente per territorio. Alla comunicazione deve essere allegata una relazione nella quale dare conto del pedissequo rispetto dei decreti ministeriali[85] quanto a «tipologia», «provenienza», «caratteristiche del rifiuto», «attività di recupero» e «caratteristiche delle materie prime e/o dei prodotti ottenuti»; lo stesso vale per le quantità massime di rifiuti pericolosi e non pericolosi che possono essere recuperate in ogni impianto. Ricevuta la comunicazione di inizio attività, la provincia iscrive l’impresa in un apposito registro ed entro il termine di 90 giorni verifica d’ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti. Qualora sia accertato il mancato rispetto delle norme tecniche, ferme le responsabilità penali (sentenza della Corte di Cassazione penale n. 9132/2017), la provincia dispone il divieto di inizio o di prosecuzione dell’attività, a meno che il privato non provveda a conformarsi alla normativa vigente «entro il termine e secondo le prescrizioni stabiliti dall’amministrazione». Se il mancato rispetto delle norme tecniche è rilevato successivamente, la provincia deve far precedere la dichiarazione di inefficacia della comunicazione di rinnovo da una diffida con un termine per provvedere (Tar Lombardia – Milano n. 1694/2018). La comunicazione di inizio attività deve essere rinnovata ogni cinque anni e comunque in caso di modifica sostanziale dell’operazione di recupero; se compresa nell’Aua, la validità è di 15 anni[86].

Specifici provvedimenti abilitativi per l’esercizio delle attività di gestione rifiuti sono poi previsti dall’art. 212 in tema di:

  • raccolta e trasporto di rifiuti;
  • bonifica dei siti;
  • bonifica dei beni contenenti amianto;
  • commercio e intermediazione dei rifiuti senza detenzione.

 

Non si tratta di autorizzazioni, ma dell’iscrizione all’albo nazionale dei gestori ambientali, che abilita lo svolgimento delle attività (sentenze della Cassazione penale nn. 52632/2017, 31390/2018 e 1574/2020) e che deve essere rinnovata ogni 5 anni (la domanda di rinnovo deve essere presentata entro il termine di cinque mesi prima della scadenza della precedente iscrizione – sentenza del Tar Puglia – Lecce n. 1208/2018). Più nel dettaglio, l’iscrizione all’Albo gestori ambientali «è un requisito di natura soggettiva relativo alla idoneità professionale degli operatori […] e costituisce titolo indispensabile per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporti dei rifiuti conforme all’immanente principio di ragionevolezza e di proporzionalità […]» (Tar Catanzaro n. 102/2020). L’iscrizione è rilasciata dalla sezione regionale dell’albo della regione dove ha sede legale l’impresa interessata[87] ed è subordinata alla prestazione di idonee garanzie finanziarie a favore dello Stato[88] o della Regione territorialmente competente (per ogni intervento di bonifica, anche di amianto); gli importi sono ridotti del cinquanta per cento per le imprese registrate ai sensi del regolamento Emas e del quaranta per cento nel caso di imprese certificate Uni En Iso 14001. Devono essere iscritte all’albo anche le imprese e gli operatori logistici attivi nell’ambito del trasporto intermodale. Per le aziende speciali, i consorzi di comuni e le società di gestione dei servizi pubblici, l’iscrizione segue la comunicazione effettuata dal comune o dal consorzio di comuni alla sezione territorialmente competente dell’Albo ed è valida per i servizi di gestione dei rifiuti urbani prodotti nei comuni medesimi. Sono, invece, esonerate dall’obbligo d’iscrizione, limitatamente all’attività di intermediazione e commercio senza detenzione di rifiuti, determinate organizzazioni di filiera[89]; sono, infine, previste discipline peculiari per gli imprenditori agricoli, i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti e i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno.

 

Le discariche e gli inceneritori

Le principali attività di smaltimento di rifiuti avvengono in discariche e inceneritori. Il D.Lgs. n. 152/2006 contiene la disciplina dell’incenerimento di rifiuti solo dal 2014 e rimanda, invece, ancora, al D.Lgs. n. 36/2003 la disciplina delle discariche (art. 182, comma 5). Nel testo unico ambientale sono, nondimeno, presenti disposizioni che regolano a livello programmatico e di principi la più generale attività di smaltimento, definita come il trattamento che non costituisce recupero («anche quando l’operazione ha come conseguenza secondaria il recupero di sostanze o di energia») e che trova nell’allegato B alla parte IV un elenco non esaustivo di attività (vedere la tabella 11). Lo smaltimento rappresenta dell’opzione ambientale che dal 2010 chiude la gerarchia della gestione di rifiuti e che, come tale, deve avere applicazione residuale; principio, questo, ribadito anche dall’art. 182, comma 1, dove lo smaltimento è subordinato alla «previa verifica, da parte della competente autorità, della impossibilità tecnica ed economica di esperire le operazioni di recupero».

 

Tabella 11
Elenco non esaustivo delle operazioni di smaltimento 
D1 Deposito sul o nel suolo (ad esempio discarica)
D2 Trattamento in ambiente terrestre (ad esempio biodegradazione di rifiuti liquidi o fanghi nei suoli)
D3 Iniezioni in profondità (ad esempio iniezioni dei rifiuti pompabili in pozzi, in cupole saline o faglie geologiche naturali)
D4 Lagunaggio (ad esempio scarico di rifiuti liquidi o di fanghi in pozzi, stagni o lagune, eccetera)
D5 Messa in discarica specialmente allestita (ad esempio sistematizzazione in alveoli stagni, separati, ricoperti o isolati gli uni dagli altri e dall’ambiente)
D6 Scarico dei rifiuti solidi nell’ambiente idrico eccetto l’immersione
D7 Immersione, compreso il seppellimento nel sottosuolo marino
D8 Trattamento biologico non specificato altrove nel presente allegato, che dia origine a composti o a miscugli che vengono eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12
D9 Trattamento fisico-chimico non specificato altrove nel presente allegato, che dia origine a composti o a miscugli eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12 (ad esempio evaporazione, essiccazione, calcinazione, eccetera)
D10 Incenerimento a terra
D11 Incenerimento in mare (1)
D12 Deposito permanente (ad esempio sistemazione di contenitori in una miniera)
D13 Raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D12 (2)
D14 Ricondizionamento preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D13
D15 Deposito preliminare prima di uno delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)
(1) Questa operazione è vietata dalla normativa Ue e dalle convenzioni internazionali.

(2) In mancanza di un altro codice D appropriato, può comprendere le operazioni preliminari precedenti allo smaltimento, incluso il pretrattamento come, tra l'altro, la cernita, la frammentazione, la compattazione, la pellettizzazione, l'essiccazione, la triturazione, il condizionamento o la separazione prima di una delle operazioni indicate da D1 a D12.

 

Tra i principi generali per il conferimento in discarica, l’art. 182 comma 2 – norma non modificata dal recente D.Lgs. n. 116/2020 - individua quello della massima riduzione in massa e in volume dei rifiuti; il comma 3 afferma poi il divieto di smaltimento extraregionale dei rifiuti urbani non pericolosi, derogabile solo da accordi regionali o internazionali, qualora gli aspetti territoriali e l'opportunità tecnico economica di raggiungere livelli ottimali di utenza servita lo richiedano; nel perseguimento dei principi di autosufficienza e prossimità, l’art. 182-bis prevede che lo smaltimento dei rifiuti venga attuato mediante «una rete integrata ed adeguata di impianti, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili e del rapporto tra i costi e i benefici complessivi». Il D.Lgs. n. 36/2003[90] stabilisce «requisiti operativi e tecnici per i rifiuti e le discariche, misure, procedure e orientamenti tesi a prevenire o a ridurre il più possibile la ripercussioni negative sull’ambiente […], nonché i rischi per la salute umana risultanti dalle discariche di rifiuti» (art. 1, comma 1). Nella prospettiva delle circular economy, la direttiva 2018/850/Ue ha aggiornato la disciplina europea in tema di discariche al fine di ridurre «gradualmente al minimo la collocazione in discarica dei rifiuti destinati alle discariche per rifiuti non pericolosi» (considerando 2), anche vietando il conferimento in discarica dei rifiuti biodegradabili raccolti in maniera differenziata (considerando 7) e prevedendo una preliminare sottoposizione dei rifiuti al trattamento più adatto per «ridurre il più possibile gli effetti negativi del collocamento in discarica di tali rifiuti sull’ambiente e sulla salute umana» (considerando 12). La direttiva 2018/850/Ue è stata recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. n. 121/2020, in vigore dal 29 settembre 2020, per mezzo del quale:

  • è stato abrogato il DM 27.09.2010;
  • è stato trasferita la relativa disciplina nel D.Lgs. n. 36/2003, che diviene dunque il principale riferimento normativo in materia;
  • è stato, infine, modificando questo ultimo decreto.

 

Per raggiungere gli obiettivi della direttiva 2018/850/Ue, sono stati definiti nuovi target di riduzione del conferimento di rifiuti in discarica (nuovo art. 5, D.Lgs. n. 36/2003), riassunti nel figura 44. In particolare, dal 2030 sarà vietato lo smaltimento in discarica di tutti i rifiuti idonei al riciclaggio o al recupero di altro tipo, in particolare i rifiuti urbani, ad eccezione di specifici flussi di rifiuti per i quali «il collocamento in discarica produca il miglior risultato ambientale». È posto in capo alle Regioni l’impegno ad adeguare, sin d’ora, la pianificazione di settore ed, entro la fine del 2029, tutti gli atti autorizzativi che lo necessitino. Al 2035 è, invece, fissata la scadenza per l’obiettivo di riduzione dei rifiuti urbani collocati in discarica al 10 % (o meno) del totale in peso dei rifiuti urbani prodotti, secondo i criteri cristallizzati nel neo-introdotto art. 5-bis, D.Lgs. n. 36/2003.

 

Figura 4
Obiettivi di riduzione del conferimento di rifiuti in discarica

 

Gestione dei rifiuti

 

Venendo alla disciplina normativo-regolamentare, per la definizione di discarica, il D.Lgs. n. 36/2003 individua tre distinte aree:

  1. quella adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo[91], compresa
  2. la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi (sentenza della Cassazione penale n. 10258/2007), nonché
  3. qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a un deposito temporaneo per più di un anno[92].

 

Alla gestione della discarica è preposto un soggetto – il gestore - individuabile nel titolare dell’autorizzazione e/o in colui che partecipa in concreto ad una o più fasi della gestione (Cassazione penale n. 8684/2019), responsabile delle fasi di vita dell’impianto che vanno dalla realizzazione fino al termine della gestione post-operativa (Cassazione penale n. 32797/2013). Nella gestione operativa della discarica sono conferiti e abbancati i rifiuti; in quella post-operativa (anche detta post-mortem), il gestore garantisce il controllo del sito dopo la chiusura e non risulta destinatario di una minore responsabilità rispetto alle condizioni stabilite dall’autorizzazione (Consiglio di Stato n. 572/2007). L’esercizio di una discarica costituisce attività di preminente interesse pubblico (Tar Puglia n. 342/2019) ed è, pertanto, sottoposto all’ottenimento di un’autorizzazione di carattere costitutivo avente contenuto differenziato in base alla tipologia di impianto.

 

Esistono tre tipologie di discariche, a seconda della qualità merceologica dei rifiuti che nelle stesse vengono conferiti:

  • discariche per rifiuti inerti;
  • discariche per rifiuti pericolosi;
  • discariche per rifiuti non pericolosi.

In ogni discarica può essere ammessa solamente la specifica tipologia di rifiuto per il ricevimento del quale l’impianto è stato autorizzato; più nel dettaglio, ai sensi dell’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 36/2003, «i rifiuti sono ammessi in discarica, esclusivamente, se risultano conformi ai criteri di ammissibilità della corrispondente categoria di discarica secondo quanto stabilito dal presente decreto». In termini operativi, per accertare l'ammissibilità dei rifiuti nelle discariche si procede al campionamento e alle determinazioni analitiche per la caratterizzazione di base degli stessi, «nonché alla verifica di conformità, con oneri a carico del detentore dei rifiuti o del gestore della discarica, effettuati da persone e istituzioni indipendenti e qualificate, tramite laboratori accreditati» (art. 7 comma 4). Dopo l’elencazione di rifiuti non ammessi in discarica di cui all’art. 6 (vedere la tabella 12), l’art. 7 comma 1, D.Lgs. n. 36/2003 prevede che i rifiuti possano essere abbancati solo previo trattamento per ridurne il volume, l’eventuale natura pericolosa, «nonché per evitare o ridurre il più possibile le ripercussioni negative sull’ambiente nonché i rischi per la salute umana» (Tar Roma n. 121/2013)[93]. Fanno eccezione:

  • i rifiuti inerti il cui trattamento non sia tecnicamente fattibile;
  • i rifiuti il cui trattamento non contribuisce al raggiungimento delle finalità di cui all’art. 1, riducendo la quantità dei rifiuti o i rischi per la salute umana e l’ambiente.

 

Tabella 12
Elenco rifiuti non ammessi in discarica di cui all’art. 6 del D.Lgs. n. 36/2003, come modificato dal D.Lgs. n. 121/2020.
1. È vietato lo smaltimento in discarica dei rifiuti idonei al riciclaggio o al recupero di altro tipo. È comunque vietato lo smaltimento in discarica dei seguenti rifiuti: a) rifiuti allo stato liquido;

b) rifiuti classificati come Esplosivi (HP1), Comburenti (HP2) e Infiammabili (HP3), ai sensi dell'allegato III alla direttiva 2008/98/Ce;

c) rifiuti che contengono una o più sostanze corrosive classificate come H314 — Skin Corr. 1A in concentrazione totale maggiore o uguale all'1 per cento;

d) rifiuti che contengono una o più sostanze corrosive classificate come H314 — Skin Corr. 1A, H314 — Skin Corr. 1B e H314 Skin Corr. 1C in concentrazione totale maggiore o uguale al 5 per cento;

e) rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo — HP9 ai sensi dell'allegato III alla direttiva 2008/98/Ce e ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 2003, n. 254;

f) rifiuti contenenti sostanze chimiche non identificate o nuove provenienti da attività di ricerca, di sviluppo o di insegnamento, i cui effetti sull'uomo e sull'ambiente non sono noti (ad esempio rifiuti di laboratorio, ecc.);

g) rifiuti della produzione di principi attivi per biocidi, come definiti ai sensi del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 174, e per prodotti fitosanitari come definiti dal decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 194;

h) rifiuti che contengono o sono contaminati da policlorodifenili (Pcb) come definiti dal decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 209, in quantità superiore a 50 ppm; l'elenco dei Pcb da prendere in considerazione è riportato nella tabella 1A dell'allegato 3;

i) rifiuti che contengono o sono contaminati da diossine e furani in quantità superiore a 10 ppb; l'elenco delle diossine (policlorodibenzodiossine, Pcdd) e dei furani (policlorodibenziofurani, Pcdf) da prendere in considerazione ai fini della verifica di ammissibilità in discarica, con i rispettivi fattori di equivalenza, è riportato nella tabella 1B dell'allegato 3;

l) rifiuti che contengono fluidi refrigeranti costituiti da Cfc e Hcfc, o rifiuti contaminati da Cfc e Hcfc in quantità superiore al 0,5% in peso riferito al materiale di supporto;

m) pneumatici interi fuori uso a partire dal 16 luglio 2003, esclusi gli pneumatici usati come materiale di ingegneria, e gli pneumatici fuori uso triturati a partire da tre anni da tale data, esclusi in entrambi i casi quelli per biciclette e quelli con un diametro esterno superiore a 1.400 mm;

n) i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata e destinati alla preparazione al riutilizzo e al riciclaggio, ad eccezione degli scarti derivanti da successive operazioni di trattamento dei rifiuti da raccolta differenziata per i quali il collocamento in discarica produca il miglior risultato ambientale conformemente all'articolo 179 del decreto legislativo n. 152 del 2006;

o) tutti gli altri tipi di rifiuti che non soddisfano i criteri di ammissibilità stabiliti a norma dell'articolo 7 e dell'allegato 6 al presente decreto.

2. È vietato lo smaltimento in discarica dei rifiuti individuati dai codici Eer riportati nell'elenco di cui alla tabella 2 dell'allegato 3, qualora presentino le caratteristiche chimico fisiche riportate nella stessa tabella.
3. È vietato diluire o miscelare rifiuti al solo fine di renderli conformi ai criteri di ammissibilità di cui all'articolo 7.

 

L’autorizzazione all’impianto è condizione per la costruzione e l’esercizio e per fare venire meno la permanenza dell’eventuale reato di discarica abusiva (sul punto si veda la sentenza della Cassazione penale n. 45931/2014); l’autorizzazione unica di cui all’art. 208, D.Lgs. n. 152/2006 ha carattere residuale rispetto all’Aia, che si applica ai codici Ippc da 5.1 a 5.6, tra i quali rilevano le «discariche, che ricevono più di 10 Mg di rifiuti al giorno o con una capacità totale di oltre 25000 Mg, ad esclusione delle discariche per i rifiuti inerti». Sempre in tema di Aia, l’art. 29-bis, comma 3 prevede che, fino all’emanazione delle relative conclusioni comunitarie sulle Bat, per le discariche i requisiti tecnici richiesti dalla disciplina Ippc si considerano soddisfatti se l’installazione è conforme ai requisiti tecnici di cui al D.Lgs. n. 36/2003. Rileva, poi, l’art. 8, D.Lgs. n. 36/2003, che individua tra i requisiti della domanda di autorizzazione i cinque piani relativi alle modalità di esercizio e gestione della discarica:

  • piano di gestione operativa;
  • piano di gestione post-operativa;
  • piano di sorveglianza e controllo;
  • piano economico-finanziario;
  • piano di ripristino ambientale del sito a chiusura della discarica (vedere la figura 5).
Figura 5
Piani di gestione discarica

Gestione dei rifiuti

 

Il conferimento dei rifiuti in discarica richiede una serie di adempimenti a carico sia del produttore/detentore del rifiuto che del gestore della discarica. Il nuovo art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 36/2003 prevede, al riguardo, che «per accertare l'ammissibilità dei rifiuti nelle discariche si procede al campionamento ed alle determinazioni analitiche per la caratterizzazione di base degli stessi, nonché alla verifica di conformità, con oneri a carico del detentore dei rifiuti o del gestore della discarica, effettuati da persone e istituzioni indipendenti e qualificate, tramite laboratori accreditati. I metodi di campionamento e analisi garantiscono l'utilizzazione delle tecniche e delle metodiche riconosciute a livello nazionale e internazionale, e sono individuati all'allegato 6». Con specifico riferimento alla caratterizzazione di base, in base al nuovo art. 7-bis, D.Lgs. n. 36/2003, il produttore dei rifiuti è tenuto:

  • a effettuarla, per ogni tipologia di rifiuto, prima del conferimento in discarica ovvero dopo l'ultimo trattamento effettuato;
  • a determinare le caratteristiche dei rifiuti attraverso la raccolta di tutte le informazioni necessarie per lo smaltimento finale in condizioni di sicurezza;
  • a rispettare le prescrizioni stabilite all'allegato 5 al D.Lgs. n. 36/2003;
  • relativamente ai rifiuti regolarmente generati, a effettuarla in corrispondenza del primo conferimento e ripetuta a ogni variazione significativa del processo che origina i rifiuti e, comunque, almeno una volta l'anno;
  • relativamente ai rifiuti non regolarmente generati, ad effettuarla per ciascun lotto[94].

 

Se i rifiuti soddisfano i criteri di ammissibilità per una categoria di discarica, sono considerati ammissibili nella corrispondente categoria, mentre la mancata conformità ai criteri comporta l'inammissibilità dei rifiuti. Quanto alla verifica di conformità, la stessa è finalizzata a stabilire se i rifiuti possiedano le caratteristiche della relativa categoria di discarica a cui sono destinati e se soddisfino i criteri di ammissibilità richiesti dalla normativa. Per i rifiuti regolarmente generati, la verifica è effettuata dal gestore sulla base dei dati forniti dal produttore in esito alla fase di caratterizzazione, con la medesima frequenza prevista per quest’ultima[95]. Per i rifiuti non generati regolarmente, devono invece «essere determinate le caratteristiche di ogni lotto; pertanto, non deve essere effettuata la verifica di conformità». In termini operativi, per verificare la conformità il gestore utilizza una o più delle determinazioni analitiche impiegate per la caratterizzazione di base, determinazioni che devono comprendere almeno un test di cessione e che si basano sui metodi di campionamento e analisi di cui all'allegato 6.

Aspetti peculiari della gestione di una discarica riguardano poi percolato e biogas. Il percolato è costituito da qualsiasi liquido che si origina prevalentemente dall’infiltrazione dell’acqua nella massa dei rifiuti e/o dalla decomposizione degli stessi e che è emesso da una discarica o contenuto nella stessa (art. 2, D.Lgs. n. 36/2003). Generalmente gestito come rifiuto liquido da destinare a smaltimento, il percolato può anche essere sottoposto a trattamento per ottenerne una frazione acquosa (cosiddetto “permeatoo “chiarificato) e una solida (cosiddetto “concentrato) che, a determinate condizioni, può essere ricircolata nel corpo della discarica dopo trattamento in impianti tecnicamente idonei. Del percolato deve, in ogni caso, esserne prevenuta la formazione e disciplinata la gestione per un tempo non inferiore a 30 anni dalla data di chiusura definitiva dell’impianto (allegato 1, punto 2.3., D.Lgs. n. 36/2003; termine ripreso anche in tema di durata della garanzia finanziaria, come ricorda la sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia, n. 270/2018). Anche il biogas è generato dai rifiuti in discarica; l’allegato 1 al D.Lgs. n. 36/2003 impone ai gestori di discariche che accettano rifiuti biodegradabili di dotarsi di impianti per l’estrazione dei gas garantendo la massima efficienza di captazione e il conseguente utilizzo energetico, ove ritenuto tecnicamente fattibile. Il punto 2.5. prevede che il biogas sia «di norma utilizzato per la produzione di energia, anche a seguito di un eventuale trattamento, senza che questo pregiudichi le condizioni di sicurezza per la salute dell’uomo e per l’ambiente»; laddove il recupero non sia praticabile, il biogas deve essere destinato in torcia[96]. Tanto il sistema di estrazione del gas quanto quello di trattamento devono essere mantenuti in esercizio per tutto il tempo in cui nella discarica è presente la formazione del gas e, comunque, per il periodo necessario.

Alle operazioni di incenerimento e coincenerimento di rifiuti solidi o liquidi è dedicato il titolo III-bis della parte IV (artt. 237-bis e seguenti), introdotto dal D.Lgs. n. 46/2014[97]. La disciplina mira a «prevenire oppure, qualora non sia possibile, a ridurre gli effetti negativi delle attività di incenerimento e coincenerimento dei rifiuti» (art. 237-bis, comma 1) e prevede specifiche esclusioni (si veda la tabella 13).

 

Tabella 13
Impianti esclusi dall’ambito di applicazione del titolo III-bis della parte IV

 

a) Impianti di gassificazione o di pirolisi, se i gas prodotti da siffatto trattamento termico dei rifiuti sono purificati in misura tale da non costituire più rifiuti prima del loro incenerimento e da poter provocare emissioni non superiori a quelle derivanti dalla combustione di gas naturale
b) Impianti che trattano unicamente i seguenti rifiuti:

1)      rifiuti di cui all’articolo 237-ter, comma 1, lettera s), numero 2);

2)      rifiuti radioattivi;

3)      rifiuti animali, come regolati dal regolamento (Ce) n. 1069/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 ottobre 2009, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano;

4)       rifiuti derivanti dalla prospezione e dallo sfruttamento delle risorse petrolifere e di gas nelle installazioni off- shore e inceneriti a bordo di queste ultime.

c) impianti sperimentali utilizzati a fini di ricerca, sviluppo e sperimentazione per migliorare il processo di incenerimento che trattano meno di 50 t di rifiuti all’anno.

 

L’impianto di incenerimento è finalizzato al trattamento termico di rifiuti con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione; quello di coincenerimento ha come funzione principale la produzione di energia o di materiali attraverso l’utilizzo di rifiuti (come combustibile normale o accessorio o ai fini del loro smaltimento)[98]. Pertanto, se in un impianto di coincenerimento la funzione principale non è la produzione di energia, ma lo smaltimento di rifiuti, l’impianto sarà considerato di incenerimento. La realizzazione e l’esercizio degli impianti devono essere autorizzati in via ordinaria (ex art. 208) o integrata (Aia).

Gli impianti di coincenerimento per i quali il gestore provi che la percentuale di energia elettrica producibile da fonti rinnovabili nei primi 5 anni di esercizio sarà superiore al 50% del totale, sono sottoposti al procedimento di cui all’art. 12, D.Lgs. n. 387/2003. L’art. 237-septies individua specifiche precauzioni che il gestore dell’impianto deve adottare in fase di consegna e ricezione dei rifiuti «per evitare o limitare per quanto praticabile gli effetti negativi sull’ambiente» (vedere la figura 6).

 

Figura 6
Precauzioni da adottare in fase di consegna e ricezione dei rifiuti

 

Gestione dei rifiuti

In generale, l’impianto deve essere gestito «in modo da ridurre le emissioni e gli odori, secondo le migliori tecniche disponibili»; a questo fine:

  • deve essere perseguito il più completo livello di incenerimento possibile anche tramite operazioni di pretrattamento dei rifiuti;
  • i gas prodotti dall’incenerimento devono essere portati per almeno due secondi a una temperatura di almeno 850°C (1100°C in caso di utilizzo di rifiuti pericolosi contenenti oltre 1% di sostanze organiche alogenate, espresse in cloro);
  • ciascuna linea di incenerimento deve essere dotata di almeno un bruciatore ausiliario (art. 237-octies, commi 2-6)[99].

 

Il calore generato deve, invece, essere recuperato per quanto tecnicamente possibile. Per i limiti di emissione in atmosfera si deve fare riferimento a quanto previsto all’allegato 1, paragrafo A e all’allegato 2, paragrafo A al titolo III- bis[100], che si intendono rispettati alle condizioni previste nell’allegato 1, paragrafo C e dell’allegato 2, paragrafo C. Resta ferma la facoltà, per le autorità regionali, di imporre limiti emissivi più rigorosi (Tar Molise n. 202/2017). Lo scarico delle acque reflue derivanti dalla depurazione degli effluenti gassosi deve essere limitato per quanto possibile ed è disciplinato dall’autorizzazione; se si tratta di scarico in acque superficiali, devono essere rispettati almeno i valori previsti dall’allegato 1, paragrafo D al titolo III-bis; è, in ogni caso, vietato lo scarico sul suolo, sottosuolo e nelle acque sotterranee. I residui prodotti durante la gestione devono essere il più possibile ridotti in termini di quantità e pericolosità; gli stessi devono essere destinati preferibilmente a riciclo nell’impianto o fuori di esso; in caso contrario devono essere destinati a smaltimento.

La disciplina in tema di inceneritori è stata recentemente modificata dalla legge europea del 2017, in vigore dal 12 dicembre 2017[101]. Tra le modifiche più rilevanti si evidenzia l’introduzione di un periodico obbligo di riesame e aggiornamento (qualora necessario) dell’autorizzazione da parte dell’autorità competente (comma 3-bis dell’articolo 237-sexies), nonché l’obbligo per il gestore, in caso di anomalia al funzionamento dell’impianto, di informare anche l’autorità competente, oltre a quella di controllo (art. 237-octiesdecies, comma 5).

 

La gestione delle terre e rocce da scavo

La qualificazione giuridica delle terre e rocce da scavo è da sempre altalenante:

  • l’art. 8, comma 2, lettera c), D.Lgs. n. 22/1997, inizialmente aveva escluso dalla nozione di rifiuto i materiali non pericolosi derivanti da attività di escavo;
  • dopo meno di un anno, il D.Lgs. n. 389/1997 ha elminato l’esclusione;
  • con la circolare 28 luglio 2000, n. UL/200/1013, il ministero dell’Ambiente ha condizionato la qualifica come rifiuti al superamento dei limiti stabiliti dal D.M. n. 471/1999;
  • la legge n. 93/2001 ha sottratto le terre dalla qualifica di rifiuti a patto che fossero destinate a un utilizzo effettivo[102] e che non provenissero da siti inquinati e da bonifiche con concentrazioni di inquinanti superiori ai limiti di legge [art. 8, comma 1, lettera f-bis), Lgs. n. 22/1997];
  • nello stesso anno, su questa ultima modifica, è intervenuta la legge n. 443/2001 (cosiddetta “legge Lunardi) che escludeva dalla disciplina rifiuti le terre «anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti»;
  • con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152/2006 la disciplina veniva condensata nell’art. 186 e successivamente ampliata nell’ambito delle esclusioni dalla disciplina rifiuti (art. 185).

Negli anni più recenti, numerosi interventi normativo-regolamentari hanno determinato una disciplina frammentata e complessa, che oggi non si esaurisce più nel solo D.Lgs. n. 152/2006. L’esigenza di rendere più agevole la realizzazione degli interventi che comportano la produzione e gestione delle terre e rocce, ha portato il legislatore nazionale del 2014[103] a prevedere l’emanazione di un D.P.R. di riordino e semplificazione, del quale si dirà a breve. Fattore comune a tutti gli interventi normativo-regolamentari succedutisi negli anni è stata l’individuazione delle condizioni e dei criteri in presenza dei quali le terre da scavo potessero essere sottratte alla qualifica di rifiuto. La disciplina di cui alla parte IV rappresenta, infatti – anche oggi – la regola generale, derogabile in presenza di puntuali presupposti (si veda la sentenza della Cassazione penale n. 23788/2007), tali da permettere di qualificare le terre come sottoprodotti o come materiali esclusi dalla disciplina rifiuti. Elementi comuni alle diverse ipotesi derogatorie sono la volontà di riutilizzare le terre e l’assenza di contaminazione[104].

In data 22 agosto 2017 è entrato in vigore il D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120 [105] che, in attuazione del decreto “sblocca Italia” del 2014, ha riordinato e semplificato la disciplina sulla gestione delle terre e rocce da scavo. Il nuovo regolamento, che si compone di 31 articoli suddivisi in 6 titoli e 10 allegati, disciplina (Cassazione penale n. 8026/2018):

  • la gestione delle terre escluse dalla normativa sui rifiuti, limitatamente ad alcuni cantieri;
  • il riutilizzo in qualsiasi cantiere delle terre qualificate come sottoprodotti;
  • il deposito temporaneo delle terre gestite come rifiuti;
  • la gestione delle terre nel sito oggetto di procedimenti di bonifica.

 

In tema di sottoprodotti, il regolamento distingue tre tipi di cantiere (Cassazione penale, n. 18892/2018), ai quali applica due distinti iter procedimentali:

  • grandi cantieri, oltre i 6.000 m3e relativi a opere sottoposte a Via/Aia; per questi cantieri, in precedenza sottoposti al D.M. n. 161/2012, il procedimento prevede la redazione di un piano di utilizzo, una dichiarazione di utilizzo sostitutiva di atto notorio e una dichiarazione finale di avvenuto utilizzo (Dau);
  • piccoli cantieri, fino a 6.000 m3anche se sottoposti ad Aia/Via; si tratta dei cantieri precedentemente disciplina- ti dall’art. 41-bis, D.L. n. 69/2013. L’iter prevede l’adozione della dichiarazione di utilizzo sostitutiva di atto notorio e della dichiarazione finale di avvenuto utilizzo (Dau);
  • grandi cantieri, oltre i 6.000 m3, ma non sottoposti ad Aia/Via; anche a questi, in precedenza disciplinati dall’art. 41-bis del D.L. n. 69/2013, si applica la medesima disciplina prevista per i piccoli cantieri.

 

Figura 7
Riutilizzo delle terre e rocce da scavo
Gestione dei rifiuti 

In merito al riutilizzo nello stesso sito di escavo delle terre escluse dalla disciplina rifiuti, il nuovo D.P.R. non ha previsto l’abrogazione dell’art. 185 comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 152/2006, bensì una sua integrazione. Il suolo escavato (comprensivo dell’eventuale materiale di riporto[106]) continua, pertanto, a essere escluso dalla disciplina rifiuti in presenza di tre condizioni:

  • la provenienza da un’attività di costruzione, che deve costituire la ragione dello scavo;
  • il riutilizzo allo stato naturale, ovverosia senza trattamento alcuno;
  • il riutilizzo nello stesso sito di escavo, che deve essere certo e realizzato a fini di costruzione.

 

A integrazione di quanto previsto dall’art. 185, l’art. 24, D.P.R. n. 120/2017 disciplina, ai commi 1-2, il riutilizzo del suolo escluso dalla disciplina rifiuti in qualunque cantiere, prevedendo che l’assenza di contaminazione sia verificata ai sensi dell’allegato 4 del regolamento. I commi 3-6 sono, invece, dedicati al riutilizzo, sempre dei terreni esclusi dalla disciplina rifiuti, all’interno di cantieri sottoposti a Via e prevedono un procedimento, articolato e più gravoso rispetto alla disciplina europea, che parte dalla redazione di un “piano preliminare” (da predisporre in fase di stesura dello studio di impatto ambientale - Sia) e termina con la presentazione di un “progetto definitivo” nel quale sono indicate:

  • le volumetrie definitive di scavo;
  • la quantità delle terre e rocce da riutilizzare;
  • la collocazione e la durata dei depositi;
  • la collocazione definitiva delle terre.

 

In tema di terre gestite come rifiuti (codici Eer 17.05.04 o 17.05.03*), il D.P.R. n. 120/2017 integra la definizione di deposito temporaneo di cui all’articolo 183, comma 1, lettera bb), D.Lgs. n. 152/2006, prevedendo:

  • il rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e la conformità al regolamento 850/2004/Ce per le terre e rocce contenenti inquinanti organici persistenti;
  • i seguenti e alternativi criteri di deposito:
  • tre mesi, indipendentemente dalle quantità;
  • 000 metri cubi, di cui non oltre 800 metri cubi di rifiuti classificati come pericolosi, fermo restando che il deposito temporaneo non può avere durata superiore a un anno;
  • il rispetto delle norme tecniche in tema di deposito;
  • il rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose eventualmente contenute nelle terre in modo da evitare la contaminazione delle matrici ambientali.

 

In tema di gestione delle terre e rocce in siti sottoposti a procedimenti di bonifica, gli artt. 25 e 26, D.P.R. n. 120/2017, fanno, innanzitutto, salvo quanto disposto dall’utile comma 7 dell’art. 34[107] del cosiddetto decreto “sblocca Italia”[108]. Sono poi previsti campionamenti e cautele specifiche da adottare previso accordo con Arpa, che è chiamata a pronunciarsi in forma espressa sul piano di dettaglio. L’utilizzo delle terre in siti in bonifica è consentito nel rispetto delle concentrazioni soglia di contaminazione (Csc) relative alla specifica destinazione d’uso (o valori di fondo naturale). Se questi valori sono superati ma si rispettano le Csr (concentrazioni soglia di rischio), l’utilizzo delle terre nello stesso sito è subordinato a due condizioni:

  • analisi di rischio approvata e rispetto delle concentrazioni rilevate nelle diverse sub-aree;
  • rispetto delle condizioni e delle limitazioni d’uso previste nell’ analisi di rischio qualora, per la determinazione delle Csr, non sia stato preso in considerazione il percorso di lisciviazione in falda.

 

Gli allegati, per lo più dedicati agli aspetti tecnici della disciplina, sono corposi e riprendono molti concetti già presenti nel D.M. n. 161/2012. Tra le novità, si segnalano l’avvenuta eliminazione del trattamento a calce dal concetto di normale pratica industriale[109], nonché, in tema di caratterizzazione, la disciplina relativa alle terre con presenza di sostanze non tabellate e per le quali non sia individuabile una sostanza affine.

In conseguenza dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 120/2017, dal 22 agosto 2017 il D.M. n. 161/2012 e l’art. 41-bis, D.L. n. 69/2013 risultano abrogati, ferma la loro applicazione tanto ai progetti già approvati alla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 120/2017, quanto ai procedimenti in corso a quella data, per i quali non sia stato chiesto il passaggio alla nuova disciplina[110]. Considerata la rilevanza della disciplina in tema di gestione delle terre e rocce da scavo, il consiglio del Sistema nazionale protezione ambientale (Snpa) con delibera 9 maggio 2019 , n. 54, ha approvato le «Linea guida sull'applicazione della disciplina per l'utilizzo delle terre e rocce da scavo. L’obiettivo è quello di «produrre manualistica per migliorare l’azione dei controlli attraverso interventi ispettivi sempre più qualificati, omogenei e integrati» e assicurare, in questo modo, «l’armonizzazione, l’efficacia, l’efficienza e l’omogeneità dei sistemi di controllo e della loro gestione nel territorio nazionale, nonché il continuo aggiornamento, in coerenza con il quadro normativo nazionale e sovranazionale, delle modalità operative del sistema nazionale e delle attività degli altri soggetti tecnici operanti nella materia ambientale»[111] (vedere la figura 8).

Figura 8
La gestione delle terre e rocce da scavo

Gestione dei rifiuti

 

Le matrici materiali di riporto

Il consolidamento del terreno, il livellamento, il riempimento dei vuoti e il rimodellamento utilizzando terra, rocce e residui antropici ha costituito per decenni una prassi consolidata. Per questo motivo la gestione dei cosiddetti riporti, o più correttamente, delle matrici materiali di riporto, rappresenta oggi una tematica molto applicata.

Le prime indicazioni sulla gestione delle frazioni antropiche nel suolo risalgono al D.M. 5 febbraio 1998, ma una disciplina esaustiva è stata introdotta solo a partire dal 2012. L’art. 3 comma 1 del D.L. n. 2/2012, come modificato dall’art. 41, D.L. n. 69/2013 (vedere il box 5), ha infatti previsto l’interpretazione autentica dell’articolo 185, D.Lgs. n. 152/2006 in merito ai riferimenti al “suolo” di cui al comma 1, lettere b) e c) e al comma 4, nella quale rientrano anche le matrici materiali di riporto.

Box 5

Commi dell’art. 3, D.L. n. 2/2012, modificati dall’art. 41, D.L. n. 69/2013

 

Comma 1 «Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al “suolo” contenuti all’articolo 185, commi 1, lettere b) e c), e 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all’allegato 2 alla parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito, e utilizzate per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri».

 

Comma 2 «Fatti salvi gli accordi di programma per la bonifica sottoscritti prima della data di entrata in vigore della presente disposizione che rispettano le norme in materia di bonifica vigenti al tempo della sottoscrizione, ai fini dell’applicazione dell’articolo 185, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo n. 152 del 200, le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi dell’articolo 9 del decreto del Ministro dell’ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 16 aprile 1998, n. 88, ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test di cessione, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati»;

 

Comma 3 «Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono essere rese conformi ai limiti del test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovano i contaminanti o devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentano di utilizzare l’area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute».

Per essere considerate tali, le matrici materiali di riporto debbono innanzitutto essere costituite «da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito, e utilizzate per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri». Occorre, dunque, che gli scarti antropici e il terreno, utilizzati per riempimenti, rilevati e reinterri, siano mescolati tra loro e che costituiscano uno strato differenziato dal terreno naturale sottostante (ed eventualmente sovrastante). In difetto di queste condizioni non potrà parlarsi di matrice materiale di riporto e non si potrà procedere con l’assimilazione al concetto di suolo, con la conseguenza che i materiali antropici dovranno essere necessariamente gestiti come rifiuti (Tar Brescia n. 787/2019). Fermo il rispetto delle condizioni richieste dalla definizione di matrici materiali di riporto, a queste ultime possono applicarsi le qualifiche di sottoprodotti e di materiali esclusi dalla disciplina rifiuti in conformità all’art. 185 commi 1 lettera b), c) e 4, D.Lgs. n. 152/2006 (vedere il box 6).

Box 6

Commi 1, lettere b), c) e 4 dell’art. 185, D.lgs. n. 152/2006 «Esclusioni dall’ambito di applicazione»

« 1. Non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del presente decreto:

[…]

b) il terreno (in situ), inclusi il suolo contaminato non scavato e gli edifici collegati permanentemente al terreno, fermo restando quanto previsto dagli artt. 239 e ss. relativamente alla bonifica di siti contaminati;

c) il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato;

[…]

2. Il suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati, devono essere valutati ai sensi, nell’ordine, degli articoli 183, comma 1, lettera a), 184-bis e 184-ter».

Più nel dettaglio:

  1. Le matrici materiali di riporto assimilate al concetto di suolo che non si intende scavare, per essere esclude dalla disciplina rifiuti dovranno rispettare:
  • l’art. 185, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 152/2006, nonché
  • i commi 2 e 3 dell’art. 3, D.L. n. 2/2012.

La miscela eterogenea dovrà, pertanto, essere conforme al test di cessione, da realizzare secondo le metodiche del D.M. 5 febbraio 1998 e utilizzando, quali limiti, i valori di Csc per le acque di falda, nonché rispettare i limiti di Csc per la matrice suolo/sottosuolo (da individuare rispetto alla destinazione urbanistica dell’area di scavo)[112]. Le matrici materiali di riporto non conformi ai limiti del test di cessione costituiranno fonti di contaminazione e come tali dovranno essere, «in via preferenziale» (Tar Veneto n. 313/2017) rimosse, rese conformi ai limiti del test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovano i contaminanti o sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentano di utilizzare l’area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute.

 

  1. Le matrici materiali di riporto assimilate al concetto di suolo che si intende scavare e riutilizzare in situ come materiali esclusi dalla disciplina rifiuti, dovranno rispettare:
  • l’art. 185, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 152/2006,
  • i commi 2 e 3 dell’art. 3, D.L. n. 2/2012, nonché
  • l’art. 24, D.P.R. n. 120/2017.

Pertanto, ferma la negatività al test di cessione e il rispetto delle Csc (per la verifica delle quali l’art. 24 del D.P.R. n. 120/2017 rimanda all’allegato 4 al D.P.R. stesso), occorrerà rispettare le condizioni previste dall’art. 185, comma 1, lettera c) (vedere il paragrafo 4.13) e quanto disposto dall’art. 24 del menzionato D.P.R., soprattutto per quanto concerne la presenza naturale di amianto e le opere sottoposte a Via. Anche in questo caso, le matrici materiali di riporto non conformi ai limiti del test di cessione costituiranno fonti di contaminazione e come tali dovranno essere gestite. Qualora invece, unitamente alle terre e rocce scavate non rispettino le condizioni previste per il riutilizzo in situ, dovranno essere gestite come rifiuti.

 

  1. Le matrici materiali di riporto assimilate al concetto di suolo che si intende scavare e riutilizzare extra situ come sottoprodotti, dovranno rispettare:
  • l’art. 185, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006, nonché
  • l’art. 4, comma 3, D.P.R. n. 120/2017.

 

Affinché le matrici materiali di riporto non facciano perdere alle terre e rocce la qualifica di sottoprodotti, è pertanto necessario che la quantità massima di frazione antropica corrisponda al 20% in peso (da determinarsi secondo la metodologia di cui all’allegato 10 al D.P.R.), che rispettino le Csc e che siano negativi al test di cessione, da condurre in conformità al D.M. 5 febbraio 1998 e i cui risultati sono da confrontare con le Csc (o con i valori di fondo naturale) previsti per le acque sotterranee (Tar Lombardia n. 326/2019). Restano poi valide le previsioni in tema di amianto allo stato naturale e la necessaria formalizzazione all’interno del piano di utilizzo e/o nelle dichiarazioni previste dal D.P.R. (commi 4 e 5). In difetto di queste condizioni non potrà trovare applicazione la qualifica come sottoprodotto.

Come noto, la disciplina in tema di materiali di riporto è particolarmente complessa (Tar Brescia n. 1161/2016). Per questa ragione, il ministero dell’Ambiente è già intervenuto con due circolari interpretative (nota 14 maggio 2014, n. 13338/tri inviata all’Ispra e nota 10 novembre 2017, n. 15786[113]) e il consiglio del Sistema nazionale protezione ambientale (Snpa) ha trattato delle matrici materiali di riporto nelle «Linea guida sull'applicazione della disciplina per l'utilizzo delle terre e rocce da scavo» approvate con delibera del 9 maggio 2019, n. 54[114] (vedere la figura 9). Se queste indicazioni di prassi permettono certamente di agevolare la gestione delle matrici materiali di riporto, non mancano però di suscitare qualche perplessità[115].

Figura 9
La gestione delle matrici materiali di riporto
Gestione dei rifiuti

I sedimenti dragati

La gestione di ciò che è scavato/dragato nel fondale marino, sia esso un materiale “originario” (ad esempio, la roccia) o qualcosa che si è accumulato nel tempo (sedimento), trova nel nostro ordinamento una disciplina normativo-regolamentare stratificatasi negli anni e, per questa ragione, complessa. Si parla generalmente di gestione dei sedimenti dragati, anche se le diverse fonti si riferiscono, indistintamente, a «materiali di scavo» di fondali marini, a «sedimenti» oppure a «sedimenti dragati» o, ancora, a «materiali da operazioni di dragaggio», nonché a «fanghi di dragaggio».

Di seguito le disposizioni oggi vigenti:

  • art. 185, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006: esclude dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti «i sedimenti spostati all’interno di acque superficiali o nell’ambito delle pertinenze idrauliche». Due le condizioni richieste:
  • i sedimenti devono essere non pericolosi;
  • il loro spostamento deve realizzare una delle finalità indicate nella norma, ossia la gestione delle acque e dei corsi d’acqua, la prevenzione di inondazioni, la riduzione degli effetti di inondazioni o di siccità, il ripristino dei suoli;
  • art. 109, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006: consente l’immersione in mare dei «materiali di escavo di fondali marini o salmastri o di terreni litoranei emersi» previa autorizzazione della autorità competente rilasciata in conformità alle disposizioni stabilite con decreto ministeriale[116];
  • art. 39, comma 13, D.Lgs. n. 205/2010: estende la nozione di sottoprodotto di cui all’art. 184-bis al «materiale che viene rimosso, per esclusive ragioni di sicurezza idraulica, dagli alvei di fiumi, laghi e torrenti»;
  • art. 5-bis, legge n. 84/1994: contiene una disciplina specifica per i sedimenti dragati nelle aree portuali e marino-costiere nei siti di bonifica di interesse nazionale (Sin). Le operazioni di dragaggio possono essere svolte contestualmente alla bonifica sulla base di un progetto approvato dalle autorità competenti che non pregiudichi gli interventi futuri di risanamento. Il comma 2, lettere a), b), c) individua le possibili modalità di reimpiego dei materiali dragati; la lettera d) prevede che, qualora i materiali dragati presentino concentrazioni di inquinanti al di sotto dei valori di riferimento specifici individuati con decreto ministeriale, le aree interessate vengono escluse dal perimetro del Sin. Ai sensi del comma 8, i materiali di dragaggio dei fondali di porti non ricompresi nei Sin possono essere immersi in mare nel rispetto dell’art. 109, D.Lgs. n. 152/2006 (già citato) oppure utilizzati a fini di ripascimento, anche con sversamento nel tratto di spiaggia sommersa attiva o per la realizzazione di casse di colmata o altre strutture di contenimento nei porti;
  • D.M. n. 5 febbraio 1998: il punto 12.1 dell’allegato 1 individua quali possibili operazioni di recupero in regime semplificato dei fanghi derivanti da «attività di dragaggio di fondali di laghi, dei canali navigabili o irrigui e corsi d’acqua (acque interne), pulizia di bacini idrici», previo essiccamento ed eventuale igienizzazione:
  • la formazione di rilevati e sottofondi stradali;
  • l’esecuzione di terrapieni e arginature, ad esclusione delle opere a contatto diretto o indiretto con l’ambiente marino;
  • l’utilizzo per riprofilare porzioni della morfometria della zona d’alveo interessata;
  • D.M. 7 novembre 2008: in relazione ai Sin, contiene i criteri per la verifica dell’idoneità del materiale dragato a essere gestito secondo una delle modalità di cui all’art. 5-bis, comma 2 legge n. 84/1994;
  • decreto direttoriale del ministero dell’Ambiente 8 giugno 2016: contiene i criteri per la definizione dei valori di riferimento specifici di concentrazione degli inquinanti per i materiali risultanti dalle attività di dragaggio;
  • D.M. 15 luglio 2016, n. 172: disciplina modalità e norme tecniche per le operazioni di dragaggio nei siti di interesse nazionale, ai sensi dell'articolo 5-bis, comma 6, della legge 28 gennaio 1994, n. 84;
  • D.M. 15 luglio 2016, n. 173: contiene le modalità e i criteri tecnici per l'autorizzazione all'immersione in mare dei materiali di escavo di fondali marini ai sensi dell’art. 109 già menzionato.

 

Due necessarie precisazioni. I DD.MM nn. 172 e 173 del 15 luglio 2016, affrontano ambiti più vasti di quelli riportati nei rispettivi titoli, disciplinando, infatti, l’intera attività di dragaggio ovunque svolta e imponendo, pertanto, una rimeditazione del quadro generale, come precisato dalla dottrina[117]. Si ricorda, infine, che, fino al 2017, il D.M. n. 161/2012 disciplinava i sedimenti qualificabili, a determinate condizioni, come “sottoprodotti” ai sensi dell’art. 184-bis. Il D.P.R. n. 120/2017 ha, però, previsto l’abrogazione del D.M. n. 161/2012 e non contiene disposizioni specifiche sulla gestione dei sedimenti.

 

I fanghi da depurazione

L’art. 127, D.lgs. n. 152/2006 prevede che ferma la disciplina di cui al D.Lgs. n. 99/1992, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue siano sottoposti alla disciplina dei rifiuti e debbano essere «riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato». In Italia, la principale modalità di recupero dei fanghi di depurazione di acque reflue urbane e miste, gestiti come rifiuto, è il loro impiego agronomico[118], che può avvenire attraverso lo spandimento nel terreno, ovvero mediante il compostaggio per la produzione di ammendante (non-rifiuto). L’utilizzazione agronomica dei fanghi mediante spandimento è disciplinata dal D.Lgs. n. 99/1992[119], che si riferisce ai fanghi intesi quali residui derivanti dai processi di depurazione delle acque reflue provenienti esclusivamente da insediamenti civili, da insediamenti civili e produttivi e, infine, esclusivamente da insediamenti produttivi (assimilabili per qualità a quelli civili). L’attività di recupero dei fanghi per la produzione di ammendante è invece disciplinata dal D.Lgs. n. 75/2010[120], che definisce ammendanti i «materiali da aggiungere al suolo in situ, principalmente per conservarne o migliorarne le caratteristiche fisiche o chimiche o l'attività biologica, disgiuntamente o unitamente tra loro, i cui tipi e caratteristiche sono riportati nell'allegato 2» e che richiama i limiti dettati dal D.lgs. n. 99/1992.

Secondo un orientamento della corte di Cassazione penale (sentenza n. 27959/2017) e del Tar Lombardia (sentenza n. 1782/2018), per i parametri non normati, i fanghi destinati all'utilizzazione agronomica avrebbero dovuto rispettare i valori di Csc stabiliti in tema di bonifica di siti contaminati. Nella seconda metà del 2018 questa interpretazione, particolarmente restrittiva, ha portato alla paralisi del mercato italiano del recupero dei fanghi di depurazione[121] e ha richiesto un intervento normativo di chiarimento. Il tema controverso riguardava, in particolare, il parametro idrocarburi. La situazione di impasse è stata sbloccata dal D.L. n. 109/2018, il cosiddetto “decreto Genova”, che all'art. 41, da un lato ha ricordato che i valori limite da rispettare sono quelli stabiliti dall'allegato IB al D.Lgs. n. 99/1992, mentre, dall'altro, ha introdotto un'eccezione con riferimento a uno specifico parametro, non contemplato dalla normativa speciale, ovvero gli idrocarburi totali C10-C40 (parametro aspecifico e generico posto che sembra poter ricomprendere potenzialmente non solo frazioni di natura fossile/minerale, ma anche quelle di origine biologica). Per questo parametro il decreto-legge ha fissato il limite ≤ 1.000 mg/kg, da ritenersi comunque rispettato qualora la ricerca dei marker di cancerogenicità avesse restituito valori inferiori a quelli definiti dal regolamento n. 2008/1272/Ce (cosiddetto regolamento Clp, in particolare dalla nota L, allegato VI, richiamata nella decisione 955/2014/Ue). La legge n. 130/2018, di conversione, con modificazioni, del “decreto Genova”, ne ha confermato l’approccio e ha previsto specifici valori limite anche per parametri e sostanze diversi dai soli idrocarburi C10-C40 (vedere la tabella 14).

Tabella 14
Fanghi da depurazione: valori limite anche per parametri e sostanze
Parametro Valore
idrocarburi (C10-C40) ≤1.000 (mg/kg tal quale)
sommatoria IPA ≤6 (mg/kg  SS)
PCDD/PCDF + PCB DL ≤25 (ng  WHO-TEQ/kg  SS)
PCB ≤0,8 (mg/kg  SS)
Toluene ≤100 (mg/kg SS)
Selenio ≤10 (mg/kg SS)
Berillio ≤2 (mg/kg SS)
Arsenico <20 (mg/kg SS)
Cromo totale <200 (mg/kg SS)
Cromo VI <2 (mg/kg SS)

 

Della novella ha già preso atto la Cassazione penale, che nella sentenza n. 4238/2019, ha rilevato che la questione giuridica relativa al rispetto dei valori di Csc «deve ritenersi superata, a seguito dell’entrata in vigore del DL 28 settembre 2018 n. 109».

Box 7

Leading case – sentenza della corte di Cassazione penale 13 gennaio 2020, n. 847

Il 2020, per le ragioni connesse all’emergenza epidemiologica, non si caratterizza per una produzione giurisprudenziale numerosa come quella degli anni precedenti. L’inizio dell’anno ha visto però la pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione penale n. 847/2020, molto rilevante sul tema del rapporto di responsabilità tra committente ed appaltatore nella gestione dei rifiuti.

Come si è avuto modo di affermare in Produzione dei rifiuti: le responsabilità del committente” di A. Kiniger e E. Malavasi,  l’individuazione del produttore iniziale non pone problemi qualora l’imprenditore, nell’esercizio della propria attività produttiva, generi dei rifiuti; non c’è dubbio, infatti, che, in questo caso, egli sia il solo ed esclusivo produttore. Più difficile è (ed è sempre stato) capire chi sia qualificabile come produttore dei rifiuti nell’ambito dei contratti d’appalto, nei quali l’attività dell’appaltatore che determina la produzione materiale del rifiuto è svolta su richiesta e nell’interesse del committente. Il tema è stato oggetto di un fervente dibattito interpretativo tanto giurisprudenziale quanto dottrinale, accentuato dalla riforma del 2015 che ha introdotto la nozione di “produttore giuridico”. Il contrasto riguarda, in particolare, le ipotesi nelle quali anche il committente sia qualificabile come produttore. Secondo alcuni questa qualifica risulterebbe sempre e comunque; secondo altri, invece, dipenderebbe dal grado di autonomia riconosciuto all’appaltatore.

Intervenendo sul tema, la suprema Corte ha, innanzitutto, confermato la giurisprudenza precedente, ribadendo l’assenza di una fonte legale o contrattuale che preveda espressamente un dovere del committente di garantire il rispetto della norma in materia rifiuti da parte di colui che materialmente li origina (l’appaltatore). A detta del Collegio, però, «il committente è personalmente responsabile qualora abbia concorso, a vario titolo, nell’illecita gestione dei rifiuti». Ed è proprio per chiarire in quali casi questo concorso sussista che nella sentenza vengono distinte tre ipotesi:

1) i rifiuti sono prodotti dall’appaltatore e vengono depositati temporaneamente all’interno di un’area messa a disposizione dal committente/proprietario, che ne cede la completa disponibilità e la custodia (ex art. 2051, codice civile) all’appaltatore. In questa situazione, non è ravvisabile a carico del committente alcun obbligo giuridico circa la corretta gestione dei rifiuti (comprese le modalità e la tempistica di deposito). Tuttavia, il committente risponderà (del reato di discarica abusiva) «ove i rifiuti sono posti da terzi previo accordo con il primo ed al fine di collocarli definitivamente sul posto configurando tale condotta una diretta partecipazione al reato»;

2) il committente mantiene il controllo dei lavori e, dunque, anche della gestione dei rifiuti prodotti. In questo caso «l’appaltatore è mero esecutore dell’opera commissionata dal committente, sotto la cui supervisione gestirà anche i rifiuti materialmente prodotti. Il committente diviene pertanto “produttore giuridico” dei rifiuti, mantenendo così la posizione di garanzia ex art. 40 c.p. Questa gestione, ovviamente, potrà anche essere “condivisa”, con conseguente applicabilità dell’art. 110 c.p.»;

3) il committente non ha alcuna ingerenza della gestione dei rifiuti prodotti materialmente dall’appaltatore ed i rifiuti non vengono depositati in un’area nella sua disponibilità. Il committente non interviene in alcun modo nella gestione dei rifiuti, ma lascia piena autonomia organizzativa e gestionale all’appaltatore, «sicché non può assumere una posizione di garanzia al riguardo».

Tabella 13
Giurisprudenza richiamata nel capitolo
 
Anno

 

Corte di giustizia europea

 

Corte costituzionale Consiglio di Stato Tar Corte di Cassazione

 

1999 Penale n. 902
2000 Penale n. 4957
2001
2002
2003 Penale n. 15165

Penale n. 24347

2004 Penale n. 40618
2005
2006 Penale n. 41290
2007 n. 572 Trieste n. 342 Penale n. 14323

Penale n. 32207

Penale n. 5006

Penale n. 10258

Penale n. 23788

2008 Penale n. 37280
2009 Venezia n. 2623 Penale n. 19330

Penale n. 9849

2010 Penale n. 22760

Penale n. 11495

2011 Penale n. 16727

Penale n. 24427

Penale n. 35692

Penale n. 21859

Penale n. 25047

Penale n. 36818

2012 Torino n. 171 Penale n. 17453

Penale n. 17823

Penale n. 19072

2013 C-241/12 e C-242/12 C-113/12 n. 4151 Venezia n. 1181

Roma n. 121

Penale n. 20886

Penale n. 2886

Penale n. 26938

Penale n. 32797

2014 n. 5242 Milano n. 1131 Penale n. 12229

Penale n. 3202

Penale n. 7899

Penale n. 16423

Penale n. 10937

Penale n. 13025

Penale n. 7386

Penale n. 45931

2015 Parere consultivo n. 1480 Brescia n. 498

Firenze n. 954

Penale n. 16078

Penale n. 29084

Penale n. 40109

Penale n. 41075

Penale n. 11029

Penale n. 3860

Penale n. 5916

2016 n. 101 Venezia n. 1422

Venezia n. 772

Penale n. 48316

Penale n. 5719

Penale n. 5716

2017 Venezia n. 772

Milano n. 60

Penale n. 16431

Penale n. 38950

Campobasso n. 202 Penale n. 5442
Venezia n. 313 Penale n. 53136
Torino n. 1303 Penale n. 56066

Penale, ordinanze

nn. 37460, 37461 e
37462
Penale n. 34525
Penale n. 9132
Penale n. 52632
2018 n. 1229

n. 1015

Trieste n. 270

Lecce n. 1208

Milano n. 1694

Penale n. 8026

Penale n. 18892

Penale n. 32180

Lecce n. 351 Penale n. 31390

Penale n. 30018

Penale n. 8848
Penale n. 8549
Penale n. 4181
2019 C487 e C489/17,

C-498/17

C-60/18

n. 6093/2019 Bari n. 342/2019

Brescia n. 326/2019

Brescia n. 1161/2016

Brescia n. 787/2019

Penale n. 2577/2019

Penale n. 4238

Penale n. 8684

Penale n. 12876

Penale n. 16716

Penale n. 2533

Penale n. 4238 Penale n. 36692

Penale n. 31213

Penale, n. 36400

Penale n. 39952

Penale n. n. 43422

Penale n. 45844

Penale n. 42110

Penale n. 47288

  Catanzaro n. 102

Venezia n. 124

Firenze n. 996

Penale n. 847

Penale n. 50628

Penale n. 1574

 

---------

Note:

[1] «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2018, che modifica la direttiva 2008/98/Ce relativa ai rifiuti» (in G.U.C.E. L del 14 giugno 2018, n. 150).

[2] Art. 183 comma 1, lettera m), D.Lgs. n. 152/2006.

[3] La direttiva comunitaria 2008/98/Ce invita gli stati membri a incentivare soluzioni che permettano «di evitare la produzione di rifiuti» (considerando 28 alla direttiva).

[4] M. Magri, Rifiuto e sottoprodotto nell’epoca della prevenzione: una prospettiva di soft law, Ambiente e Sviluppo, Ipsoa, n. 1/2010, p. 29.

[5] Su questo tema si registra la proposta di legge «Misure per la prevenzione della produzione di rifiuti, istituzione del Registro nazionale delle reti del riuso e agevolazioni nell’applicazione della tassa sui rifiuti in relazione all’impronta climatica dei prodotti conferiti per il riuso».

[6] Dove per «detentore», ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera h), deve intendersi «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso».

[7] Sul tema della rilevanza delle modalità oggettive di deposito dei materiali, a prescindere dalla effettiva intenzione di disfarsene, si veda la sentenza del Tar Piemonte n. 1303/2017.

[8] Il materiale deve però essere destinato con certezza ed effettività - e non come mera eventualità - a un ulteriore utilizzo (sentenza della Cassazione penale n. 3202/2014). Inoltre, «l’utilizzo del materiale in un nuovo ciclo produttivo deve essere certo sin dal momento della sua produzione, dovendosi dimostrare una preventiva organizzazione alla sua riutilizzazione» (sentenza della Cassazione penale n. 17823/2012).

[9] Superando così le ambiguità legate all’interpretazione del vecchio art. 183, lettera p), numero 2: «il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito peraltro».

[10] Un riferimento al concetto di normale pratica industriale si ritrova nella nota del ministero dell’Ambiente, di risposta a Ispra, datata 14 maggio 2014, in cui si legge: «il riferimento alla normale pratica industriale riguarda tutti i trattamenti che non hanno alcuna incidenza sulle caratteristiche chimico-fisiche della sostanza o dell’oggetto ai fini del rispetto dei requisiti sanitari ed ambientali richiesti dalla norma (ad esempio il terreno non contaminato)».

[11] La vigente definizione di “trattamento”, contenuta nel D.Lgs. n. 152/2006, è però meno stringente oltre alle operazioni di recupero e di smaltimento include anche «la preparazione prima del recupero o dello smaltimento».

[12] Si tratta della norma tecnica richiamata dal D.M. 5 febbraio 1998 in tema di recupero semplificato, quale criterio di necessaria conformità per le “materie prime seconde” plastiche e che tratta anche di sottoprodotti plastici.

[13] La nuova Uni 10667-1 reca il titolo «Materie plastiche prime-secondarie. Generalità su materie plastiche prime secondarie e sottoprodotti di materie plastiche» e, al capitolo 4, tratta del concetto di normale pratica industriale basandosi su quanto espresso nella richiamata sentenza della corte di Cassazione n. 40109/2015.

[14] In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, è stati inserito il seguente inciso «garantendo un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana agevolando, altresì, l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali dando priorità alle pratiche replicabili di simbiosi industriale».

[15] «Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e delle acque reflue, nonché per la produzione e l’utilizzazione agronomica del digestato» (in S.O. n. 9 alla Gazzetta Ufficiale del 18 aprile 2016, n. 90).

[16] Si veda L. Butti, A. Kiniger, S. Campigotto, Ammendanti. Effluenti di allevamento, acque reflue e digestato: i nuovi criteri per l’utilizzazione agronomica, in Ambiente&Sicurezza n. 10/2016, pag. 74. In tema di digestato sottoprodotto è intervenuta anche la corte di Cassazione penale (n. 56066/2017) e, successivamente, anche il Consiglio di stato (n. 6093/2019).

[17] F. Peres e A. Kiniger, Sottoprodotti e biomasse analisi del nuovo decreto, in Ambiente&Sicurezza n. 4/2017, pagg. 7_•.

[18] Su questo tema vedere la sentenza della Cassazione penale n. 50628/2020 per la quale «se è vero che l’esistenza di rapporti contrattuali tra il produttore del residuo ed eventuali intermediari ed utilizzatori rilevano in termini di prova sulla certezza dell’utilizzo, il mero richiamo all’esistenza di tali rapporti non può però essere sufficiente a soddisfare le verifiche richieste, necessitando che dalla documentazione citata possano con certezza evincersi le caratteristiche tecniche dei prodotti, l’esistenza di condizioni che giustifichino la vantaggiosità della cessione, e via dicendo».

[19] Consultabile all’indirizzo http://www.elencosottoprodotti.it/

[20] Si tratta della nota ministeriale a Unioncamere 3 marzo 2017, n. 3084, dedicata all’elenco pubblico che le camere di commercio devono istituire e la corposa circolare ministeriale esplicativa 30 maggio 2017, n. 7619. Per un approfondimento su questi temi v. A. Kiniger, Novità sui sottoprodotti chiarimenti e un sito web, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2017, pag. 95.

[21] A titolo esemplificativo si considerino: la pollina (sentenza del Tar Brescia n. 498/2015), il sale residuato dalla salagione delle carni riutilizzato per evitare la formazione di ghiaccio sulle strade (sentenza della Cassazione penale n. 7899/2014) e il fresato d’asfalto (sentenza del consiglio di Stato n. 4151/2013).

[22] Il D.Lgs. n. 116/2020 ha eliminato dal primo periodo del comma 1 il riferimento alla “preparazione per il riutilizzo”. Sembra pertanto esclusa la possibilità di ottenere end of waste all’esito di detta attività, anche se non risulta chiaro in quale altra categoria di qualificazione possa rientrare l’esito della preparazione per il riutilizzo.

[23] Si condivide, però, la tesi per la quale il concetto di materie prime seconde (Mps) resta attuale per effetto dei decreti ministeriali ancora in vigore e richiamati dall’art. 184-ter.

[24] Il D.Lgs. n. 116/2020 ha, infatti, stralciato l’inciso dal primo comma dell’art. 184-ter.

[25] L’art. 216, comma 8-quater, prevede, infatti, che i rifiuti «cessano di essere considerati rifiuti agli utilizzi individuati».

[26] L’art. 6, comma 2 della direttiva rimanda a quanto previsto dall’art. 39 comma 2 della stessa direttiva, il quale, a sua volta, richiama la procedura di regolamentazione di cui alla decisione del Consiglio n. 1999/468/Ce recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione.

[27] L’ultimo periodo dell’art. 6, comma 2 prevede che «criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero essere considerati, tra gli altri, alme- no per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i pneumatici e i rifiuti tessili».

[28] Ai sensi dell’art. 216, comma 8-quater, D.Lgs. n. 152/2006, le attività di trattamento rifiuti disciplinate dai nuovi regolamenti, «sono sottoposte alle procedure semplificate a condizione che siano rispettati tutti i requisiti, i criteri e le prescrizioni soggettive e oggettive previsti dai predetti regolamenti […]».

[29] Il termine di sei mesi per l’adeguamento è stato definito sulla base del termine usuale di entrata in vigore delle fonti europee.

[30] Per un commento A. Kiniger Prodotti assorbenti: i criteri per l’end of waste, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.

[31] Per un commento A. Kiniger End of Waste: il Ministero disciplina il recupero della gomma vulcanizzata, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2020.

[32] «[…]: a) fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 181-bis, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, le caratteristiche dei materiali di cui al citato comma 2 si considerano altresì conformi alle autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 210 del medesimo decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59».

[33] Per un’analisi di dettaglio, si veda A. Kiniger, Criteri per l’end of waste, in arrivo un giro di vite?, in Ambiente&Sicurezza, n. 5/2018, p. 81.

[34] Si veda A. Kiniger, End of Waste: tutto fermo ai blocchi di partenza, in Ambiente&Sicurezza n. 5/2019.

[35] La legge n. 55/2019 di conversione, con modifiche, del D.L. n. 32/2019, il cosiddetto “sblocca cantieri” ha, infatti, previsto che in attesa dell’adozione di decreti ministeriali (e, ovviamente, di regolamenti comunitari), ogni attività di recupero, sia essa in regime semplificato, ordinario, integrato o sperimentale, deve necessariamente riferirsi a quanto previsto nei D.M. 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002 n. 161 e 17 novembre 2005 n. 269. I risalenti decreti per le semplificate valgono pertanto quali riferimenti tecnici anche per il regime ordinario per quanto riguarda «tipologia, provenienza e caratteristiche dei rifiuti, attività di recupero e caratteristiche di quanto ottenuto da tale attività». Unica deroga all’obbligo di conformità ai tre decreti ministeriali riguarda i limiti alle quantità di rifiuti recuperabili, vincolanti solo per le autorizzazioni semplificate. La novella, come detto, ha scontentato molti. Su questo tema si veda A. Kiniger, End of waste indietro tutta in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.

[36] Su questo tema si veda A. Kiniger, End of waste: la possibilità di definire criteri specifici (o dettagliati) permette di rilanciare la circular economy” in Ambiente&Sicurezza n. 11/2019.

[37] In conformità a quanto previsto dall’art. 1, punto 6), direttiva 2018/851/Ue.

[38] Sovrapponibili a quelli previsti dall’art. 184-ter, comma 1.

[39] A. Kiniger, “End of Waste: istituito il REcer, il registro nazionale per le autorizzazioni”, in Ambiente&Sicurezza Web, giugno 2020.

[40] Per un approfondimento si veda A. Kiniger End of Waste: pubblicate le linee guida Snpa in Ambiente&Sicurezza n. 5/2020.

[41] Si segnala il DM 10 giugno 2016, n. 140 recante «criteri e modalità per favorire la progettazione e la produzione ecocompatibili di AEE, ai sensi dell'articolo 5, comma 1 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, di attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016, n. 171.

[42] In tema di assimilazione comunale di rifiuti speciali non pericolosi agli urbani si veda la sentenza del Tar Puglia – Lecce, n. 351/2018.

[43] In relazione agli stabilimenti di tritovagliatura e imballaggio rifiuti (Stir) campani si è affermato che i rifiuti urbani sottoposti a trattamento (cosiddetta “tritovagliatura”) non perdono la loro qualifica e che, pertanto, nonostante l’attribuzione del codice 19, «continuano ad essere assoggettati al regime dei rifiuti urbani ai soli fini dello smaltimento, mentre tale vincolo non opera qualora siano conferiti ad impianti di recupero o avviati a operazioni finalizzate al recupero» (consiglio di Stato n. 5242/2014).

[44] La nuova disciplina si è resa necessaria perché dal 1° giugno 2015 è diventato pienamente operativo il regolamento Clp (regolamento Ce n. 1272/2008 relativo alla classificazione, etichettatura e imballaggio delle sostanze e delle miscele). Il provvedimento non si applica direttamente ai rifiuti, ma, essendo innovativo per quanto riguarda la pericolosità chimica, incide indirettamente anche sulla disciplina rifiuti. Si veda lo Speciale pubblicato su Ambiente&Sicurezza n. 11/2015.

[45] Si veda la nota precedente.

[46] La circolare del ministero dell’Ambiente 25 settembre 2015, n. 0011719/Rin, indirizzata alle regioni ha ribadito che «dal 1° giugno 2015 il regolamento e la decisione trovano piena ed integrale applicazione nel nostro ordinamento giuridico e che, di conseguenza, a decorrere dalla medesima data, gli allegati D ed I del suddetto decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, non risultano applicabili, laddove essi risultino in contrasto con le suddette disposizioni dell’Unione Europea».

[47] Si registrano, però, numerose variazioni, anche se non sostanziali, nelle rubriche dei singoli codici ER, non coerenti con quanto previsto dalla Decisione n. 2014/955/Ue.

[48] «Il catalogo vuole essere una nomenclatura di riferimento con una terminologia comune per tutta la Comunità allo scopo di migliorare tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti. A questo riguardo, il catalogo europeo dei rifiuti dovrebbe diventare il riferimento di base del programma comunitario di statistiche sui rifiuti lanciato con la risoluzione del Consiglio, del 7 maggio 1990, sulla politica relativa alla gestione dei rifiuti» (nota introduttiva all’allegato alla decisione della Commissione europea 20 dicembre 1993, n. 94/3/Ce).

[49] «La classificazione dei rifiuti è disciplinata dalle disposizioni di seguito richiamate, ma l’attribuzione del relativo codice CER è determinata dalla effettiva origine del rifiuto, che necessita talvolta, come pure si dirà, di accertamenti analitici, […]. Come è noto, la classificazione dei rifiuti pericolosi mediante codice CER avviene in base all’origine ed alla composizione del rifiuto, nel qual caso il codice è contraddistinto dalla presenza di un asterisco. Nel caso in cui siano invece presenti nell’elenco di cui all’Allegato D alla Parte Quarta del d.lgs. n. 152 del 2006 le c.d. voci specchio, va effettuata la verifica delle caratteristiche di pericolo in base alla concentrazione di determinate sostanze» (sentenza della Cassazione penale n. 10937/2013).

[50] Sezione III, nn. 37460, 37461 e 37462.

[51] Per un approfondimento vedere L. Butti e F. Peres, Classificare i rifiuti, in Ambiente&Sicurezza n. 6/2019

[52] Rispetto a questa caratteristica di pericolo si ricorda che il considerando 7 del regolamento n. 1357/2014/Ue aveva precisato che «per garantire l’adeguata completezza e rappresentatività anche per quanto riguarda le informazioni sui possibili effetti di un allineamento della caratteristica HP 14 “ecotossico” con il regolamento (CE) n. 1272/2008, è necessario uno studio supplementare».

[53] Il dossier del servizio studi del Senato A.S. n. 2860, relativo alla conversione in legge del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91, recante disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno ha specificato che «Tali disposizioni europee, essendo contenute in atti che hanno diretta applicazione nell’ordinamento nazionale, sono entrate in vigore alla data prevista negli atti citati, vale a dire il 1° giugno 2015. Le modifiche operate dal regolamento (UE) n. 2017/997 invece, per quanto disposto dall’art. 2 del medesimo provvedimento, saranno applicate a decorrere dal 5 luglio 2018».

[54] Su questo tema Ispra ha recentemente pubblicato la nota 8 agosto 2018 «Approccio metodologico per la valutazione della caratteristica di pericolo HP14 - Ecotossico».

[55] L’inciso era originariamente previsto dall’art. 1, D.L. n. 92/2015 (poi decaduto per mancata conversione in legge). La modifica è stata però adottata con la legge n. 125/2015 (in Gazzetta Ufficiale del 14 agosto 2015, n. 188), di conversione del D.L. n. 78/2015 («Misure finanziarie enti territoriali»).

[56] Sentenze della Cassazione penale n. 15165/2003, n. 40618/2004, n. 22760/2010, n. 35692/2011 e n. 19072/2012.

[57] Sentenze della Cassazione penale n. 5006/2007, n. 902/1999, n. 4957/2000 e n. 24347/2003; più recentemente, n. 12876/2019.

[58] In questo senso si veda anche F. Peres, Nuova nozione di produttore di rifiuti, prime riflessioni dopo la riforma, in Ambiente&Sicurezza n. 21/2015.

[59] Sentenza della Cassazione penale n. 11029/2015: «l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, […] è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare, come osservato in dottrina, casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto».

[60] L’inciso relativo alla nuova nozione di produttore è poco chiaro. Nella relazione di accompagnamento al D.L. n. 92/2015, il legislatore dichiara di voler aderire, inserendo la nuova nozione in questione, all’orientamento giurisprudenziale «da ultimo ribadito» nella sentenza della Cassazione penale n. 5916/2015. Nella richiamata sentenza, la Cassazione rinvia a due diversi orientamenti relativi alla nozione di produttore: quello estensivo-generale - secondo il quale il produttore di regola è sia l’appaltatore sia il committente, il proprietario e l’eventuale intestatario della concessione - e quello estensivo-specifico, per cui di regola il produttore è solo l’appaltatore, mentre il committente può diventare produttore a determinate condizioni. Il secondo è quello «da ultimo ribadito».

[61] Vedere le sentenze della Cassazione Penale nn. 39952/2019.

[62] Non sembra che la medesima disciplina trovi applicazione in caso di conferimento dei rifiuti ad attività di messa in riserva (R13).

[63] Resta da chiarire se l’impianto che deve rendere questa attestazione sia quello che esegue le operazioni non definitive di smaltimento, ovvero l’impianto di trattamento finale. Considerando la ratio della norma e l’intenzione del legislatore l’attestazione dovrebbe essere resa dal titolare dell’impianto di smaltimento finale. In questo caso, tuttavia, si registrerebbero criticità legate alla privacy, alle possibili tempistiche massime di stoccaggio, nonché al diritto dei titolari dell’impianti intermedi di non fornire ai produttori dei rifiuti i nominativi degli impianti finali con i quali collaborano.

[64] Ai sensi dell’art. 23, DPR n. 120/2017, il criterio quantitativo per il deposito temporaneo dei rifiuti costituiti da terre e rocce da scavo (codici Eer 17.05.04 o 17.05.03*) è pari a 4.000 m3, di cui non oltre 800 m3 di rifiuti classificati come pericolosi. In ogni caso, il deposito temporaneo non può avere durata superiore a un anno.

[65] Si segnala che per fare fronte a criticità gestionali correlate al periodo emergenziale Covid-19, l'art. 113-bis, D.L n. 18/2020 aveva aumentato da 30 a 60 m3 (di cui al massimo 20 m3 di rifiuti pericolosi) il limite quantitativo per il deposito temporaneo, nonché a 18 mesi il termine massimo, in precedenza annuale, per l'avvio a trattamento. La novella, che non aveva inciso sul criterio temporale (quello dei 6 mesi) è stata però abrogata dalla legge n. 77/2020, di conversione del D.L. n. 34/2020 (cosiddetto “decreto rilancio”).

[66] Resta confermata la possibilità, per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del codice civile, di allestire il deposito presso un sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci.

[67] Su questo tema si veda, ex multis, la sentenza della Cassazione penale n. 4181/2018.

[68] Il soggetto che svolge l'attività di pulizia manutentiva è comunque tenuto all’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali.

[69] Per un commento alla novella v. in questa rivista n. 3/2019, di A. Kiniger e L. Tronconi “Sistri: più che un addio un arrivederci”.

[70] L’art. 194-bis prevede la possibilità di tenere il registro di carico e scarico e il formulario identificativo dei rifiuti, di cui agli articoli 190 e 193, in formato digitale, nonché la facoltà di trasmettere a mezzo Pec la quarta copia del Fir.

[71] Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo 18.6.2003 COM (2003) n. 302.

[72] Principio che mira a ridurre l’impatto ambientale complessivo dei prodotti (“dalla culla alla tomba”), cercando di evitare che singole iniziative incentrate su singole fasi del ciclo di vita si limitino a trasferire il carico ambientale su altre fasi.

[73] «Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni sul Sesto programma di azione per l’ambiente della Comunità europea “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” - Sesto programma di azione per l’ambiente COM/2001/0031 def.».

[74] Sul punto, recentemente, si veda il D.M. n. 10 giugno 2016, n. 140, recante «Regolamento recante criteri e modalità per favorire la progettazione e la produzione ecocompatibili di AEE, ai sensi dell’articolo 5, comma 1 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, di attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)» (in Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016, n.171).

[75] «Ai fini della configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti, non rileva la qualifica soggettiva del soggetto agente bensì la concreta attività posta in es- sere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalista» (sentenza della Cassazione penale n. 5716/2016).

[76] «Attuazione della Direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento)», in S.O. n. 27 alla Gazzetta ufficiale del 27 marzo 2014, n. 72.

[77] Si ritiene che l’inciso vada oggi riferito alla categoria 5 dell’allegato VIII alla parte seconda.

[78] «L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori» (art. 208, comma 6).

[79] Ovverosia i «[…] principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga».

[80] L’art. 208, comma 15 manca di definire il concetto di impianto mobile; dallo stesso è nondimeno possibile di individuare almeno due elementi utili: 1) la contrapposizione con gli impianti non mobili, e quindi fissi; 2) la previsione del necessario svolgimento di «singole campagne di attività sul territorio nazionale», che lascia presumere una mobilità intesa sia come differente collocazione geografica che come precarietà di utilizzo (da intendersi come necessaria discontinuità).

[81]Sentenza della Cassazione penale n. 21859/2011: «Sono assoggettati al procedimento autorizzatorio di cui all’art. 208, co. 15, D.Lgs. n. 152/2006 gli impianti mobili adibiti alla macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei materiali inerti prodotti da cantieri edili di demolizione, in quanto non possono essere considerati impianti che effettuano una semplice riduzione volumetrica e separazione di eventuali frazioni estranee, essendo invece impiegati per effettuare un’operazione di trattamento il cui principale risultato è quello di permettere il recupero dei residui ferrosi».

[82] In assenza dei decreti attuativi di cui all’art. 214 comma 2, quanto previsto dall’art. 215 in tema di autosmaltimento di rifiuti non pericolosi in regime semplificato, non trova oggi applicazione (sul punto si veda anche la sentenza della Cassazione penale n. 41290/2006).

[83] Si veda L. Butti, A. Kiniger, A. Balestreri, M. Molinaro, Autorizzazione Unica: novità e punti critici, in Ambiente&Sicurezza n. 12/2013, Per quanto riguarda la disciplina ed il procedimento di emanazione dell’Aua si veda il capitolo 2.

[84] L’art. 3 comma 3, D.P.R. n. 59/2013 prevede, infatti, che «è fatta comunque salva la facoltà dei gestori degli impianti di non avvalersi dell’autorizzazione unica ambientale nel caso in cui si tratti di attività soggette solo a comunicazione, ovvero ad autorizzazione di carattere generale, ferma restando la presentazione della comunicazione o dell’istanza per il tramite del SUAP».

[85] «Integra il reato previsto dall’art. 256, comma quarto, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 la mancata osservanza delle modalità di deposito e movimentazione dei rifiuti, e dei tempi di lavorazione, costituenti oggetto delle prescrizioni e cautele contenute nella comunicazione di inizio attività, necessaria per l’iscrizione nel registro delle imprese esercenti le operazioni di recupero di rifiuti in forma semplificata ai sensi degli artt. 214 e 216, del d.lgs. n. 152 del 2006» (sentenza della Cassazione penale n. 11495/2010).

[86] Se l’impianto è sottoposto ad autorizzazione unica ambientale (Aua) può profittare del termine di validità di quindici anni previsto dall’art. 3, comma 6, D.P.R. n. 59/2013.

[87] Avverso i provvedimenti delle sezioni regionali dell’albo gli interessati possono proporre, nel termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica dei provvedimenti stessi, ricorso al comitato nazionale dell’albo.

[88] Per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi, per l’attività di intermediazione e di commercio dei rifiuti senza detenzione dei medesimi.

[89] Quelle di cui agli articoli 221, comma 3, lettere a) e c), 223, 224, 228, 233, 234, 235 e 236, al decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188, e al decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151.

[90] «Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti», pubblicato in S.O. n. 40 alla Gazzetta Ufficiale del 12 marzo 2003, n. 59.

[91] Perché si abbia una discarica non è richiesta l’esistenza di un apparato organizzato di uomini e mezzi, essendo sufficiente «l’abitualità dello smaltimento di rifiuti in un’area determinata e la consistenza del loro accumulo, idonea a provocare il degrado dell’ambiente» (Cassazione penale n. 25047/2011). Allo stesso modo «ciò che conta è la destinazione di una area a ricettacolo di rifiuti in via permanente e non la relativa durata» (Cassazione penale n. 19330/2009).

[92] Secondo la Cassazione penale, il deposito temporaneo di rifiuti protratto per più di un anno in assenza di autorizzazione costituisce deposito incontrollato (sentenza n. 7386/2014) e non il reato di discarica non autorizzata o abusiva, salvo non si tratti di abbandono reiterato (sentenza n. 9849/2009).

[93] Si ricorda che a Ispra è stata demandata l’individuazione dei criteri tecnici da applicare per stabilire quando il trattamento non è necessario (art. 48, legge n. 221/2015).

[94] «Per la definizione di lotto e di rifiuti regolarmente o non regolarmente generati si rinvia alle definizioni riportate in Allegato 5» (art. 7-bis, comma 3).

[95] In relazione alle frequenze di verifica di conformità dei rifiuti la Cassazione penale ha affermato che la locuzione «almeno una volta l'anno» non vuole significare «ogni dodici mesi», ma almeno una volta nell'anno civile di riferimento, cioè il periodo che va dal 1° gennaio al 31 dicembre (n. 36400/2019).

[96] Si tratta di un presidio di sicurezza costituito da idonea camera di combustione a temperatura T>850°, concentrazione di ossigeno ≥ 3% in volume e tempo di ritenzione ≥ 0,3 s.

[97] Si segnala che, al fine di ottenere la chiusura della procedura di infrazione Ue Pilot 8978/16/Envi, nel disegno di legge europea 2017, in fase di approvazione, sono previste alcune modifiche tanto normative quanto tecniche alla disciplina relativa agli impianti di incenerimento e coincenerimento rifiuti.

[98] Per questa ragione gli impianti di coincenerimento devono operare a «saturazione del carico termico» (Tar Toscana n. 954/2015).

[99] Queste prescrizioni possono essere derogate dall’autorità competente in sede di autorizzazione, alle condizioni previste dall’art. 237-nonies, comma 1.

[100] Si applica solo l’allegato 1, paragrafo A nel caso in cui il calore liberato dal coincenerimento di rifiuti pericolosi sia superiore al 40% del calore totale liberato o qualora l’impianto coincenerisca rifiuti urbani misti non trattati (art. 237-duodecies, comma 3).

[101] Legge 20 novembre 2017, n. 167 «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2017» (in Gazzetta Ufficiale del 27 novembre 2017 n. 277).

[102] Reinterri, riempimenti, rilevati e macinati.

[103] L’art. 8, D.L. n. 133/2014 (convertito nella legge n. 164/2014) ha individuato i principi e i criteri direttivi della nuova disciplina.

[104] Da intendersi quale mancato superamento dei valori di Csc di cui alla tabella 1 dell’allegato 5 alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006, per le matrici suolo e sottosuolo.

[105] «Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164» (in Gazzetta Ufficiale del 7 agosto 2017, n. 183). Per un approfondimento si veda Peres, Terre e rocce da scavo il nuovo regolamento, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2017.

 

[106] Al quale si applicherà la disciplina prevista dall’art. 3, commi 2 e 3, D.L. n. 2/2012 convertito, con modificazioni, nella legge n. 28/2012, come modificato dall’art. 41, comma 3, lettera a), D.L. n. 69/2013 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/20013.

[107] Ai sensi del quale «nei siti inquinati, nei quali sono in corso o non sono ancora avviate attività di messa in sicurezza e di bonifica, possono essere realizzati interventi e opere richiesti dalla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, di manutenzione ordinaria e straordinaria di impianti e infrastrutture, com- presi adeguamenti alle prescrizioni autorizzative, nonché opere lineari necessarie per l’esercizio di impianti e forniture di servizi e, più in generale, altre opere lineari di pubblico interesse a condizione che detti interventi e opere siano realizzati secondo modalità e tecniche che non pregiudicano né interferiscono con il completamento e l’esecuzione della bonifica, né determinano rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell’area».

[108] D.L. n. 133/2014, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n. 164.

[109] Nell’ambito della procedura Eu-Pilot n. 5554/13/ENVI, la Commissione europea ha ritenuto che il trattamento a calce e la riduzione della presenza nel materiale da scavo di elementi/materiali antropici, sarebbero una operazione di trattamento di rifiuti e non una normale pratica industriale.

[110] I commi 1 e 2 dell’art. 27, D.P.R. n. 120/2017 prevedono infatti che «I piani e i progetti di utilizzo già approvati prima dell’entrata in vigore del presente regolamento restano disciplinati dalla relativa normativa previgente, che si applica anche a tutte le modifiche e agli aggiornamenti dei suddetti piani e progetti intervenuti successivamente all’entrata in vigore del presente regolamento. Resta fermo che i materiali riconducibili alla definizione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), del presente regolamento utilizzati e gestiti in conformità ai progetti di utilizzo approvati ai sensi dell’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ovvero ai piani di utilizzo approvati ai sensi del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela e del territorio e del mare 10 ago- sto 2012, n. 161, sono considerati a tutti gli effetti sottoprodotti e legittimamente allocati nei siti di destinazione. I progetti per i quali alla data di entrata in vigore del presente regolamento è in corso una procedura ai sensi della normativa previgente restano disciplinati dalle relative disposizioni. Per tali progetti è fatta comunque salva la facoltà di presentare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, il piano di utilizzo di cui all’articolo 9 o la dichiarazione di cui all’articolo 21 ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente regolamento».

[111] Si veda Peres Terre e rocce da scavo le linee guida Snpa in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.

[112] Su questo tema il Tar Toscana n. 996/2020 ha evidenziato la necessità dei “test di cessione” effettuati sui materiali di riporto, giacché la normativa correla all’esito di questi test differenti conseguenze giuridiche nonché operative: anche in caso di rispetto dei limiti propri del test di cessione è comunque necessario rispettare quanto previsto dalla normativa sulle bonifiche dei siti contaminati, mentre in caso di accertato mancato rispetto dei suddetti limiti i materiali di riporto sono assimilati a sorgenti di contaminazione ed il legislatore indica quali sono i precisi trattamenti tecnici da eseguire.

[113] Si veda Peres e Kiniger Sui materiali di riporto i chiarimenti del minAmb in Ambiente&Sicurezza n. 1/2018.

[114] Si veda Peres Terre e rocce da scavo le linee guida Snpa in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.

[115] Come la prevista necessaria storicità dei riporti, non più espressamente richiamata nella disciplina normativa.

[116] Su questo tema si veda la sentenza della Cassazione penale n. 45844/2019.

[117] Sul tema si veda Peres e Cappucci Dragaggi, procedure per i Siti di Interesse Nazionale, in Ambiente&Sicurezza n. 16/2016.

[118] A queste pratiche se ne stanno però affiancando di innovative quali, ad esempio, la lombricoltura ed il lombricompostaggio.

[119] «Attuazione della direttiva 86/278/Cee concernente la protezione dell'ambiente, in particolare del suolo, nell'utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura».

[120] «Riordino e revisione della disciplina in materia di fertilizzanti, a norma dell'articolo 13 della legge 7 luglio 2009 n. 88».

[121] Si vedano i contributi di B. Stefanelli, in Ambiente&Sicurezza nn. 9/2018, 11/2018, 1/2019 e 5/2019.

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