Scusabilità dell’errore: quali rapporti con la 231?

Con la sentenza 20 aprile 2022, n. 2737 la Corte d’Appello di Torino ha affrontato il tema per escludere la sussistenza dell’interesse ai fini della punibilità dell’ente, riformando così la pronuncia del tribunale di primo grado. La vicenda riguarda la contestazione del reato di traffico illecito di rifiuti

(Scusabilità dell’errore: quali rapporti con la 231?)

I fatti

La vicenda processuale trae origine dalla contestazione, in capo al legale rappresentante di una società che si occupa di recupero dei rifiuti, del reato di cui all’art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 (ora art. 452-quaterdecies, codice penale; vedere il box 1) in relazione alla gestione di rifiuti ritirati da soggetti privati cui venivano attribuiti codici Eer diversi da quello ritenuto corretto dalla pubblica accusa, ossia il Eer 200140 che, come noto, identifica i rifiuti urbani di tipo metallico e, in particolare, quelli costituiti da ferro, acciaio, rame, altri metalli e loro leghe.

Il delitto ascritto in capo alla persona fisica ha portato, quindi, alla contestazione in capo all’ente dell’illecito previsto dall’art. 25-undecies, comma 2, lettera f), D.Lgs. n. 231/2001.

All’esito dell’istruttoria dibattimentale di primo grado, il tribunale ha rilevato, nella condotta dell’imputato, l’insussistenza dell’elemento soggettivo del dolo richiesto ai fini dell’integrazione dell’ipotesi di reato prevista dall’art. 260, D.Lgs. n. 152/2006, e ha ricondotto, pertanto, l’identificazione irregolare dei rifiuti gestiti all’ipotesi contravvenzionale prevista dall’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 [art. 25-undecies, comma 2 lettera b), n. 1, D.Lgs. n. 231/2001], rubricata «attività di gestione dei rifiuti non autorizzata».

In conseguenza della riqualificazione del fatto di reato contestato, il tribunale di primo grado ha pronunciato sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione della contravvenzione di cui al citato art. 256, D.Lgs. n. 152/2006. Tuttavia, analoga pronuncia, in ragione delle disposizioni dell’art. 22, D.Lgs. n. 231/2001, non ha potuto essere emessa nei confronti dell’ente che, pertanto, è stato condannato al pagamento della sanzione pecuniaria di euro 30.000,00 oltre al pagamento delle spese processuali.

Le ragioni addotte dal tribunale di per supportare il riconoscimento della responsabilità ex D.Lgs. n. 231/2001 in capo alla società si fondano sulla ritenuta sussistenza dell’interesse per l’ente ravvisabile nell’ambito delle condotte poste in essere dal legale rappresentante. In particolare, l’attività illecita posta in essere dall’imputato è stata ritenuta funzionale ad assicurare all’ente l’ampliamento della platea di possibili conferitori di materiale ferroso, con conseguente aumento delle possibilità di conseguire margini di profitto. Inoltre, il tribunale - pur ritenendo le circostanze e le peculiarità riscontrabili nella condotta dell’imputato idonee a escludere il dolo richiesto ai fini dell’integrazione dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 - non ha accordato alcun rilievo a queste circostanze ai fini dell’esclusione dell’interesse dell’ente.

 

Box 1

Art. 452-quaterdecies, codice penale

 

Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti

  1. Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.
  2. Se si tratta di rifiuti ad alta radioattività si applica la pena della reclusione da tre a otto anni.
  3. Alla condanna conseguono le pene accessorie di cui agli articoli 28, 30, 32 bis e 32 ter, con la limitazione di cui all’articolo 33.
  4. Il giudice, con la sentenza di condanna o con quella emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente.
  5. È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca

 

La sentenza

La corte d’Appello di Torino, investita della sola responsabilità amministrativa dell’ente a seguito di impugnazione presentata dalla società, ha riformato integralmente la sentenza impugnata, ritenendo - rispetto all’osservazione del tribunale - che non fosse stato provato «al di là di ogni ragionevole dubbio il criterio di attribuzione della responsabilità all’ente, costituito dall’elemento dell’interesse».

In particolare, con riguardo al presunto interesse ad ampliare la platea dei fornitori, la Corte ha rilevato come non fosse in alcun modo chiarito (e quindi provato) il nesso tra l’attribuzione di un determinato codice Eer piuttosto che un altro e il conseguente aumento del numero dei fornitori, atteso che «l’istruttoria dibattimentale ha accertato, come riconosciuto dallo stesso giudice, che: a) il rifiuto non cambiava di prezzo se conferito da un imprenditore o da un privato, poiché  la quotazione dipendeva dal prezzario indicato dalla c.d. borsa metalli; b) la gestione del materiale ferroso era identica e prescindeva dalla provenienza; c) la destinazione del materiale era la stessa [..]».

Inoltre, la Corte ha dato rilievo all’elemento dell’errore interpretativo in cui era occorso il legale rappresentante, dando atto della «diffusa confusione tra operatori del settore sul codice da assegnare al materiale, tanto che è stato necessario l’intervento della Provincia per fare chiarezza e indicare il codice 200140 come quello corretto».

Sulla scorta di quanto sopra, l’ente è stato, pertanto, assolto per insussistenza del fatto poiché, «pur essendo stato dimostrato un errore del legale rappresentante dell’ente nell’attribuzione del corretto codice al rifiuto, non è possibile escludere che si sia trattato di una scelta non finalisticamente orientata, ma determinata essenzialmente dalla complessità della normativa di settore che, come detto, aveva generato incertezza in altri titolari di impianti che ricevevano materiale ferroso».

Il giudizio della Corte di Appello, si è fondato, quindi, su due elementi essenziali:

  • da un lato, sull’insussistenza di un nesso tra la scorretta qualificazione del rifiuto e l’interesse volto all’ampliamento della platea dei fornitori;
  • dall’altro sull’errore del legale rappresentante che, tenuto conto della complessità della normativa di settore, non è stato ricondotto a una scelta finalisticamente orientata a conseguire un interesse per l’ente.

Rispetto a quest’ultima considerazione, preme svolgere qualche osservazione.

 

Scusabilità dell’errore 

Il diritto

Il tema della difficoltà legata alla raccolta di rifiuti e alla corretta attribuzione del codice Eer è stato già affrontato proprio in relazione alle medesime tipologie di rifiuti oggetto del procedimento penale in commento[1]Si veda M. Gebbia e V. Corino Rottami ferrosi e non ferrosi. Le insidie della raccolta, tra “privati” e “ambulanti” in Ambiente&Sicurezza n. 10/2016.. In particolare, si è fatto riferimento proprio all’attività svolta dalla Provincia di Torino, relativamente alla trasmissione - nel mese di dicembre 2012 - alle aziende del settore di una comunicazione volta a fornire chiarimenti sulle attività di recupero dei rifiuti metallici e sui relativi codici Eer. In questa occasione, è stato evidenziato come, fino alla emanazione di queste circolari, l’applicazione “errata” dei codici per il ritiro dai privati costituisse prassi assolutamente costante e condivisa da tutti gli operatori del settore e mai contrastata dagli enti di verifica e controllo. Successivamente, invece, sono pervenute notizie di reato volte ad appurare il rispetto delle disposizioni impartite con le circolari provinciali: in prima battuta sono stati ravvisati i reati di gestione abusiva [art. 256, comma 1 lettera a), D.Lgs. n. 152/2006] ovvero di violazione delle prescrizioni autorizzative [art. 256, comma 4 in relazione al comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006], in capo a chi avesse continuato a gestire la raccolta da privati con i codici “vecchi” anche dopo la emanazione delle circolari interpretative (e salvi, ovviamente, i tempi di adeguamento); in un secondo momento, le contestazioni si sono aggravate sino all’addebito del ben più grave reato di cui all’art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 – oggi art. 452 quaterdecies, codice penale - così come accaduto nel caso di specie.

La tendenza di cui sopra si colloca nell’ambito del contesto interpretativo affermatosi nella giurisprudenza, che tende a qualificare le norme e le previsioni extra penali dei reati ambientali, come norme extra penali cosiddette integratrici. A fronte di questa qualificazione, l’errore sulla normativa settoriale extra penale viene considerato alla stregua di un errore sulla normativa penale, pertanto inescusabile ai sensi dell’art. 5, codice penale.

Al riguardo, preme evidenziare che, in base alla rigorosa giurisprudenza affermatasi in materia, l’estensione applicativa dell’art. 5, codice penale, opera a prescindere dalla complessità della normativa di settore, vigendo – in capo al soggetto attivo - il dovere di informarsi, tanto più quando ci si appresta a svolgere determinate attività che pongono potenzialmente in pericolo beni di interesse rilevante, quali l’ambiente.

La citata applicazione trova, tuttavia, un limite esclusivamente in caso di assoluta oscurità del dettato legislativo ovvero in caso di esistenza di assicurazioni erronee da parte di enti di controllo, ossia di un comportamento positivo degli organi amministrativi tale per cui l’agente si sia convinto della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del proprio fare.

Ciò detto, si rileva come il tribunale - in applicazione di questi principi ermeneutici - abbia escluso la rilevanza dell’errore in cui era occorso il legale rappresentante nel qualificare i rifiuti gestiti, individuando una penale responsabilità dello stesso in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 (per quanto prescritta). Per contro, la corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha posto l’accento sul fatto che vi fosse una diffusa confusione tra gli operatori del settore sul corretto codice da assegnare al materiale, tale da giustificare un intervento della Provincia. E, per quanto l’attenzione posta dalla corte d’Appello su questa circostanza non abbia spiegato alcun effetto in termini di penale responsabilità dell’imputato (per il quale, come visto, era intervenuta la declaratoria di improcedibilità per prescrizione), d’altra parte questa circostanza è stata posta alla base del ragionamento volto ad escludere la sussistenza dell’interesse dell’ente.

Come noto, mentre nei reati dolosi è pacifico che l’interesse dell’ente si concretizza nella volontà – sotto la forma del dolo specifico - dell’autore di realizzare, in una prospettiva meramente funzionale, un’utilità anche economica per l’ente, la questione si complica con riferimento ai reati colposi. In questi casi, per parte della dottrina, la nozione di interesse si sposta dall’evento delittuoso alla condotta costitutiva del reato, richiedendo esclusivamente, ai fini della ricorrenza, che il reato colposo sia stato commesso nello svolgimento dell’attività dell’ente a causa dell’inosservanza delle disposizioni attinenti a tale specifica attività. Sul punto, preme richiamare un recente arresto giurisprudenziale in tema di reati in materia antinfortunistica (Cassazione penale, sez. VI, 8 giugno 2021, n. 22256) che, discostandosi in parte dalla rigorosa impostazione dottrinale di cui sopra, ha affermato che l’interesse dell’ente in ambito di reati colposi, debba necessariamente correlarsi a una scelta finalisticamente orientata da parte del legale rappresentante, escludendo, quindi, la sussistenza dell’interesse in ipotesi di condotte occasionali.

 

Conclusioni

Nell’ambito di questo panorama, la pronuncia della corte di Appello torinese si colloca in termini particolarmente interessanti. In particolare, pur a fronte di una condotta tutt’altro che occasionale in relazione al caso in esame, la Corte ha escluso l’interesse dell’ente, non solo per ragioni ontologiche (da individuarsi nel nesso tra le violazioni e l’aumento dei fornitori), ma altresì in ragione dell’errore interpretativo in cui l’imputato è incorso a causa della complessità della normativa ambientale di riferimento.

Pertanto, se da una parte, come visto, l’errore sul precetto extra penale causato dalla complessità della normativa di settore, di regola, non rileva ai fini della punibilità della persona fisica, lo stesso non può dirsi in sede di valutazione circa la sussistenza dell’interesse dell’ente ex D.Lgs. n. 231/2001.

In questo ambito, infatti, l’errore del legale rappresentante sulla normativa extra penale (per quanto integratrice) pare assumere un ruolo centrale, potenzialmente idoneo a escludere che l’agire dell’autore del reato presupposto sia riconducibile ad una azione finalisticamente orientata e, di conseguenza, a escludere la sussistenza dell’interesse dell’ente.

Note   [ + ]

1. Si veda M. Gebbia e V. Corino Rottami ferrosi e non ferrosi. Le insidie della raccolta, tra “privati” e “ambulanti” in Ambiente&Sicurezza n. 10/2016.

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