Codici a specchio e pericolosità dei rifiuti: la nuova sentenza della Cassazione

Codici a specchio
La pronuncia del 21 novembre 2019, n. 42788, è la prima dopo la decisione del marzo scorso della Corte di giustizia europea. Stabiliti due importanti principi

La Cassazione è intervenuta sul controverso tema dei codici a specchio e della pericolosità dei rifiuti con la sentenza 21 novembre 2019, n. 42788, prima pronuncia dopo la decisione del marzo scorso della Corte di giustizia europea .

Come si ricorderà, la Corte lussemburghese aveva chiarito come il legislatore comunitario attui, in materia di rifiuti, un opportuno bilanciamento fra principio di precauzione, fattibilità tecnica e praticabilità economica delle varie misure di protezione ambientale.

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In applicazione di questi principi, la Cassazione, con la pronuncia in commento:

  • in primo luogo, nega che, come invece era stato sostenuto dal pubblico ministero nel proprio ricorso, il produttore avrebbe dovuto «effettuare tutte le analisi necessarie ad escludere la presenza delle sostanze appartenenti alle classi di pericolo, o, in alternativa, classificare lo stesso come pericoloso» (tesi definita come "della certezza” o della "presunzione di pericolosità");
  • in secondo luogo, tuttavia, sostiene che, in presenza di informazioni insufficienti sulla composizione del rifiuto, non spetti all’accusa provarne la pericolosità, ma competa, invece, al produttore o detentore del rifiuto «raccogliere tutte le informazioni possibili» per attribuire il codice appropriato, anche, ma non soltanto, attraverso l’effettuazione di indagini analitiche sulle (sole) sostanze che potrebbero essere ragionevolmente presenti.

Sulla sentenza 21 novembre 2019, n. 42788 sarà pubblicato a breve, sulla rivista e sulla Banca Dati on-line degli articoli, un commento a cura di B&P Avvocati.

Di seguito il testo della sentenza.

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Cassazione penale, sez. III, 21 novembre 2019, n. 42788 

Sulle modalità di classificazione dei rifiuti con codici « a specchio » dopo la pronuncia pregiudiziale della Corte di Giustizia 29/3/2019

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Roma – Sezione per il riesame dei provvedimenti di sequestro, con ordinanza del 28/2/2017, depositata il 2/3/2017 ha deciso sulle richieste di riesame presentate nell’interesse delle s.r.l. R., s.r.l. E.G., s.r.l. V., s.r.l. S.I., di G. A. e G. E. per la s.r.l. C., F. R., R.T., A. V., C. S. e I. C. avverso:
- il decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, in data 22/11/2016 ha disposto il sequestro preventivo, con facoltà d’uso, degli impianti (sedi operative) gestiti dalle società/ditte R., S.I., E.G., D., R., V. e C.

- il decreto con il quale lo stesso giudice ha disposto, il 16/1/2017, il sequestro preventivo, anche per equivalente, delle somme di denaro, nonché, ove incapienti, delle azioni o quote societarie delle aziende sopra indicate, fino a concorrenza del profitto, quantificato da apposite tabelle esposte nel provvedimento e, in relazione alle sanzioni amministrative, il sequestro preventivo, anche per equivalente, delle somme di denaro, nonché, ove incapienti, delle azioni o quote societarie delle aziende sopra indicate con eccezione della ditta R.F..

Il Tribunale ha altresì deciso sugli appelli (così qualificate le impugnazioni, comunque denominate) avverso il provvedimento con il quale il Giudice per le indagini preliminari ha disposto, in luogo della sanzione interdittiva di cui all’art. 9, comma 2 d.lgs. 231/2001, la nomina di un commissario giudiziale per la durata di mesi sei, nonché sulle richieste di riesame presentate da C.S., F.R. e A.V. avverso i decreti di sequestro probatorio emessi dal Pubblico Ministero.
All’esito dell’udienza camerale, il Tribunale ha dichiarato inammissibili le impugnazioni presentate nell’interesse di R.T. e R. s.r.l., ha annullato il decreto di sequestro preventivo, con facoltà d’uso, degli impianti (sedi operative) delle società/ditte R., S.I., E.G., D., R., V. e C., ha annullato il decreto di sequestro preventivo disposto in relazione alle sanzioni amministrative ed il sequestro probatorio del Pubblico Ministero. In accoglimento dell’appello avverso il provvedimento di nomina del commissario giudiziale, lo ha annullato con riferimento alle società S.I. e C. e per la ditta F.R..

Il sequestro era stato disposto nell’ambito di un procedimento penale relativo ad attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti ed altri reati. Nell’ambito del medesimo procedimento sono stati emessi, dal Tribunale del riesame, tre distinti provvedimenti, separatamente impugnati dal Pubblico Ministero procedente, registrati presso questa Corte con i numeri 12528/2017, 13369/2017 e 13382/2017 attinenti alla medesima questione.

2. I provvedimenti sui quali il Tribunale si è pronunciato sono stati adottati nell’ambito di un complesso procedimento penale nei confronti di V.L. ed altri 30 indagati.
I soggetti coinvolti sono i gestori della discarica che riceveva i rifiuti, i responsabili delle società conferenti ed i professionisti ed i laboratori di analisi che si ritiene abbiano eseguito le analisi dei rifiuti in maniera compiacente. Si ipotizzano, a loro carico ed a vario titolo, come meglio specificato nella incolpazione in atti, diversi reati:

  • artt. 260 d.lgs. 152/06, 110, 81 cod. pen.

- attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, concretatesi nel conferimento, da parte di più società, di rifiuti classificabili con voci speculari, da loro trattati, presso discarica autorizzata per rifiuti non pericolosi, qualificandoli come tali in forza di analisi quantitative e qualitative non esaustive, fornite, con la consapevolezza della loro parzialità, da più laboratori (capo A dell’incolpazione. Fatti commessi nel 2014 e nel 2015 con condotta perdurante);

- attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, concretatesi nel conferimento in discarica, da parte di società autorizzata al trattamento di RSU indifferenziati e differenziati, di ingenti quantitativi di rifiuti generati dallo scarso o inefficace trattamento di recupero, attribuendo codici identificativi non corretti (capo B dell’incolpazione. Fatti commessi nel 2013, 2014 e 2015 con condotta perdurante)

  • art. 110, 81 cod. pen. 29-quattordecies comma 3, lett. b) d.lgs. 152/06. Inosservanza delle prescrizioni imposte dall’autorizzazione integrata ambientale per l’ammissibilità dei rifiuti in discarica (capo C dell’incolpazione. Fatti commessi il 4/5/2016).
  • art. 81, 356 cod. pen. Frode nelle pubbliche forniture, concretatasi nel rendere una prestazione diversa da quella prevista nel contratto di servizio stipulato con alcune amministrazioni comunali, provvedendo, per lo più, allo smaltimento dei rifiuti recuperando come compost solo una parte insignificante dei rifiuti urbani organici da raccolta differenziata, mentre il contratto prevedeva che “la gestione smaltimento dei rifiuti urbani ed assimilabili conferiti dai Comuni all’impianto di Colfelice verrà eseguita attraverso il sistema di riciclaggio, trasformazione, recupero e riuso dei rifiuti recuperabili, nonché attraverso il collocamento in discarica dei rifiuti non riutilizzabili e degli scarti di lavorazione” ed introitando dai Comuni importi pari a 2.836.282, 34 euro per il 2014 e 2.971.427,24 euro per il 2015 (capo D dell’incolpazione);
  • art. 640, comma 2 n. 1 cod. pen. Truffa in danno di ente pubblico per il conseguimento di un ingiusto profitto facendo risultare come regolarmente avvenuta l’attività di recupero di cui al contratto di servizio stipulato con alcune amministrazioni comunali per la gestione dei rifiuti (capo E dell’incolpazione. Fatti accertati nel 2014 e nel 2015 con condotta perdurante).

Venivano inoltre indagate varie persone giuridiche e contestati loro gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 5, 24, comma 1, 25-undecies, comma 2, lett. f) del d.lgs. 8 giugno 2011 n. 231.

3. Il Tribunale, dopo aver ricordato che l’ipotesi accusatoria si basa sulla relazione redatta dall’ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale) di Frosinone, confermata dalle conclusioni dei consulenti tecnici del Pubblico Ministero, sull’attività investigativa del Corpo Forestale dello Stato e sulle risultanze di attività di intercettazione di conversazioni telefoniche, ha richiamato i contenuti della disciplina allora vigente e, segnatamente, l’allegato D alla Parte Quarta del d.lgs. 152/06 come modificato dalla legge 116/2014.
Osserva il Tribunale che l’intera indagine sarebbe basata sulla presunzione di pericolosità dei rifiuti, con codice a specchio, oggetto di conferimento in discarica, sostenuta nella relazione dell’ARPA e validata dalla consulenza disposta dal Pubblico Ministero, il quale ha fatto riferimento ad una interpretazione della norma fortemente contestata dalla difesa perché contraria allo spirito della legge ed impossibile da attuare in concreto, non esistendo una metodologia idonea ad individuare la totalità o quasi dei componenti presenti in un rifiuto, determinandone le concentrazioni, sicché sarebbe corretta la classificazione effettuata mediante analisi a campione.

Osserva altresì il Tribunale che l’interpretazione delle norme effettuata dalla pubblica accusa sarebbe opinabile, come confermato in una relazione della Regione Lazio predisposta proprio in occasione del sequestro e prodotta dalla difesa, richiamando altresì una nota 26 gennaio 2017 del Ministero competente nella quale viene confermata “l’applicabilità dal 1 giugno 2015 delle disposizioni europee “ ed il “riferimento alle sostanze pertinenti in base al processo produttivo”.

Il Tribunale conclude, pertanto, per l’insussistenza del fumus del delitto di cui all’art. 260 d.lgs. 152/06 anche sotto il profilo soggettivo.

4. Il Procuratore della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia del Tribunale di Roma, nel proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento, dopo aver richiamato gli estremi della vicenda, lamenta che il Tribunale avrebbe erroneamente interpretato le disposizioni nazionali e comunitarie in materia di classificazione dei rifiuti e, segnatamente, quelle concernenti i rifiuti identificati con le c.d. voci specchio e, senza tenere in alcun conto le argomentazioni sviluppate dall’ufficio del Pubblico Ministero, dettagliatamente riproposte in ricorso, avrebbe acriticamente accolto le tesi difensive, senza considerare una pronuncia di questa Corte e decisioni di segno contrario già assunte dal medesimo Tribunale, seppure in composizione parzialmente diversa, sulla medesima questione.

In particolare, il Pubblico Ministero ricorrente, richiamati in generale i criteri di classificazione dei rifiuti, individua nel produttore/detentore del rifiuto il soggetto sul quale grava l’onere di caratterizzare e classificare il rifiuto, indicando come punto chiave di riferimento il principio di precauzione.

Analizza, inoltre, la legge 116/2014, il Regolamento (UE) n. 1357/2014 e la decisione della commissione 2014/955/UE e la giurisprudenza di questa Corte, rinvenendo poi conferme alla correttezza della tesi interpretativa prospettata in ambito comunitario, richiamando un manuale tecnico del Regno Unito del 2003 ed un documento della Commissione Europea del giugno 2015.

Prende poi in considerazione la nota ministeriale prot. 11845 del 28 settembre 2015, nonché un parere del Consiglio di Stato in sede consultiva (adunanza del 7/5/2015) prodotto dalla difesa ad ulteriore sostegno delle proprie ragioni.

Con atto pervenuto il 14/7/2017 ha depositato motivi nuovi ai sensi degli artt. 325 comma 3 e 311, comma 4 cod. proc. pen., deducendo l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 d.l. 91/2017 in quanto concernente una disciplina del tutto avulsa, quella della classificazione dei rifiuti, dal tema del decreto legge concernente il rilancio del Mezzogiorno d’Italia ed osservando che difetterebbero anche i requisiti di “straordinaria necessità ed urgenza” richiesti dall’art. 77 Cost. per l’emanazione della stessa mediante decreto legge.
Prende inoltre in considerazione l’interpretazione della normativa europea fornita dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), con nota 5/6/2015, proprio in relazione ai rifiuti prodotti nell’interno di uno degli stabilimenti coinvolti nell’indagine, che analizza criticamente.

5. La difesa di C.S., con riferimento al procedimento n.13369/2017, con nota del 5/4/2017 ha chiesto la trasmissione degli atti alle Sezioni Unite di questa Corte ai sensi dell’art. 610, comma 2 cod. proc. pen.
Effettuata la trasmissione, con decreto in data 9/5/2017 il Primo Presidente ha rigettato la richiesta e disposto la restituzione a questa Sezione.

6. Veniva conseguentemente fissata l’udienza straordinaria del 21/7/2017 per la trattazione del procedimento, con rito camerale non partecipato ai sensi art. 611 cod. proc. pen. (in adesione a quanto stabilito da Sez. U, n. 51207 del 17/12/2015, Maresca ed altro, Rv. 265112) .

7. Nella sua requisitoria scritta del 3/7/2017 il Procuratore generale, premessa una ricostruzione della evoluzione normativa sul tema dei rifiuti pericolosi identificabili con le “voci specchio”, concludeva, in via principale, per la sospensione del processo e la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e, in subordine, per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

In data 23/6/2017 la difesa di C.S. ha depositato memoria con allegata documentazione, richiamando l’attenzione sull’entrata in vigore del decreto legge 91/2017. In data 3/7/2017 la difesa della V. S.r.l. ha depositato memoria deducendo l’inammissibilità del ricorso del Pubblico Ministero e richiamando i contenuti del decreto legge 91/2007.
In data 5/7/2017 la difesa di A.V. ha depositato memoria richiedendo il rigetto del ricorso del Pubblico Ministero.

In data 5/7/2017 la difesa di F.R. ha depositato memoria nella quale, rilevata l’ammissibilità in discarica dei rifiuti urbani trattati senza obbligo di preventiva caratterizzazione ai sensi della Decisione 2003/33/CE e del decreto ministeriale 27/9/2010, l’inesistenza, nel diritto dell’Unione, dei “rifiuti speciali” e l’infondatezza delle argomentazioni sviluppate dal Pubblico Ministero, ha richiesto il rigetto del ricorso.
Con memoria depositata il 10/7/2017, la difesa di A. ed E. G. ha richiamato il contenuto del decreto legge 91/2017 e richiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Con memoria depositata il 14/7/2017 la difesa di F.R. ha chiesto il rigetto del ricorso del Pubblico Ministero. Con memoria del 18/7/2017 la difesa di F.R. ha replicato alla requisitoria del Procuratore Generale.

9. All’esito dell’udienza questa Corte, con ordinanza n. 37460, depositata il 27 luglio 2017, prendeva in considerazione, in via preliminare, sulla base di quanto prospettato nel ricorso, la questione della classificazione dei rifiuti pericolosi contraddistinti dalle c.d. “voci a specchio” e, ritenuto sussistente un ragionevole dubbio circa l’ambito di operatività delle disposizioni comunitarie, disponeva la sospensione del processo, rimettendo gli atti alla Corte di Giustizia formulando i seguenti quesiti:

a) Se l’allegato alla Decisione 2014/955/UE ed il Regolamento UE n. 1357/2014 vadano o meno interpretati, con riferimento alla classificazione dei rifiuti con voci speculari, nel senso che il produttore del rifiuto, quando non ne è nota la composizione, debba procedere alla previa caratterizzazione ed in quali eventuali limiti;

b) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba essere fatta in base a metodiche uniformi predeterminate;

c) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o invece se la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto;

d) Se, nel dubbio o nell’impossibilità di provvedere con certezza all’individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo debba o meno essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione.

10. Con sentenza del 29 marzo 2019 La Corte di Giustizia (Decima Sezione) decideva sulla domanda di pronuncia pregiudiziale (cause riunite da C-487/17 a C-489/17) dichiarando che:
1) L’allegato III della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, come modificata dal regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014, nonché l’allegato della decisione 2000/532/CE della Commissione, del 3 maggio 2000, che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi, come modificata dalla decisione 2014/955/UE della Commissione, del 18 dicembre 2014, devono essere interpretati nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento (CE) n. 440/2008 della Commissione, del 30 maggio 2008, che istituisce dei metodi di prova ai sensi del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale

2) Il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso.

11. All’esito di tale pronuncia è stata fissata l’odierna udienza per la trattazione del ricorso in camera di consiglio partecipata, ai sensi dell’art. 127 cod. proc. pen., in considerazione della sopravvenuta modifica dell’art. 325 cod. proc. pen. ad opera della legge 103/2017.
In data 1/9/2019 la difesa della V. S.R.L. ha depositato memoria con la quale insiste per il rigetto del ricorso del Pubblico Ministero
In data 9/10/2019 la difesa di F.R. ha depositato due memorie con le quali insiste per il rigetto del ricorso del Pubblico Ministero.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Pare opportuno riproporre nuovamente, per un migliore inquadramento della questione, una preliminare, sommaria descrizione della disciplina di settore già illustrata nell’ordinanza del 21 luglio 2017, con la quale è stata sollevata la questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia, dando conto delle ulteriori modifiche normative nel frattempo intervenute.

2. L’art. 184 d.lgs. 152/2006 disciplina la classificazione dei rifiuti, distinguendoli, in base all’origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali, che possono, a loro volta, distinguersi, in base alle caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e non pericolosi.
L’art. 184 ha subito, nel tempo, diverse modifiche.
Originariamente, esso prevedeva, al comma 4, l’istituzione, da effettuarsi con decreto interministeriale, di un elenco dei rifiuti in conformità all'art. 1, comma 1, lett. a), della direttiva 75/442/CE ed all'art. 1, par. 4, della direttiva 91/689/CE, di cui alla Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000, disponendo che sino all’emanazione di tale decreto continuassero ad applicarsi le disposizioni di cui alla direttiva del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio del 9 aprile 2002, che veniva riportata nell'Allegato D alla parte quarta dello stesso d.lgs. 152/2006.

Qualificava, inoltre, come pericolosi i rifiuti non domestici indicati espressamente come tali, con apposito asterisco, nell'elenco di cui all'Allegato D alla Parte Quarta del decreto d.lgs. 152/06, sulla base degli Allegati G, H e I alla medesima Parte Quarta.

Con il d.lgs. 3 dicembre 2010 n. 205, recante “Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”, i commi 4 e 5 dell’art. 184 venivano modificati, individuando i rifiuti pericolosi come quelli recanti le caratteristiche di cui all'Allegato I della Parte Quarta del d.lgs. 152/06 e chiarendo che l'elenco dei rifiuti di cui all'Allegato D alla Parte Quarta del medesimo decreto includeva i rifiuti pericolosi e teneva conto dell'origine e della composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose, precisando, altresì, che esso era vincolante per quanto concerne la determinazione dei rifiuti da considerare pericolosi e che l'inclusione di una sostanza o di un oggetto nell'elenco non significava che esso fosse un rifiuto in tutti i casi, ferma restando la definizione di cui all'art. 183. Si stabiliva, infine, che con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, da adottare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della disposizione, potevano essere emanate specifiche linee guida per agevolare l'applicazione della classificazione dei rifiuti introdotta agli Allegati D e I (l’art. 184 d.lgs. 152/2006 subiva, successivamente, ulteriori modifiche non rilevanti nella vicenda in esame).

L’art. 39 dello stesso d.lgs. 3 dicembre 2010 n. 205 modificava anche l'Allegato D alla parte quarta del d.lgs. 152/06, il cui titolo riportava quindi la denominazione “Elenco dei rifiuti istituito dalla Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000”.
Il decreto legge 28 gennaio 2012 n. 2, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 28 disponeva successivamente la sostituzione del punto 5 dell’Allegato D al d.lgs. 152/06 con il seguente testo:

“Se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni (ad esempio, percentuale in peso), tali da conferire al rifiuto in questione una o più delle proprietà di cui all'allegato I. Per le caratteristiche da H3 a H8, H10 e H11, di cui all'allegato I, si applica quanto previsto al punto 3.4 del presente allegato. Per le caratteristiche H1, H2, H9, H12, H13 e H14, di cui all'allegato I, la decisione 2000/532/CE non prevede al momento alcuna specifica. Nelle more dell'adozione, da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di uno specifico decreto che stabilisca la procedura tecnica per l'attribuzione della caratteristica H14, sentito il parere dell'ISPRA, tale caratteristica viene attribuita ai rifiuti secondo le modalità dell'accordo ADR per la classe 9 - M6 e M7”.

Successivamente, la legge 11 agosto 2014, n. 116, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 24 giugno 2014, n.91, disponeva un’ulteriore modifica dell’Allegato D, introducendo la seguente premessa:
«1. La classificazione dei rifiuti e' effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER, applicando le disposizioni contenute nella decisione 2000/532/CE.

2. Se un rifiuto e' classificato con codice CER pericoloso "assoluto", esso è pericoloso senza alcuna ulteriore specificazione. Le proprietà di pericolo, definite da H1 ad H15, possedute dal rifiuto, devono essere determinate al fine di procedere alla sua gestione.

3. Se un rifiuto e' classificato con codice CER non pericoloso "assoluto", esso è non pericoloso senza ulteriore specificazione.

4. Se un rifiuto e' classificato con codici CER speculari, uno pericoloso ed uno non pericoloso, per stabilire se il rifiuto e' pericoloso o non pericoloso debbono essere determinate le proprietà di pericolo che esso possiede. Le indagini da svolgere per determinare le proprietà di pericolo che un rifiuto possiede sono le seguenti: a) individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso: la scheda informativa del produttore; la conoscenza del processo chimico; il campionamento e l'analisi del rifiuto; b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso: la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi; le fonti informative europee ed internazionali; la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto; c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all'analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti, ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo.

5. Se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche solo in modo aspecifico, e non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento i composti peggiori, in applicazione del principio di precauzione.

6. Quando le sostanze presenti in un rifiuto non sono note o non sono determinate con le modalità stabilite nei commi precedenti, ovvero le caratteristiche di pericolo non possono essere determinate, il rifiuto si classifica come pericoloso.

7. La classificazione in ogni caso avviene prima che il rifiuto sia allontanato dal luogo di produzione».

Il decreto legge 20 giugno 2017, in vigore dal 21 giugno 2017, ha poi disposto, con l’art. 9, che i numeri da 1 a 7 della parte premessa all'introduzione dell'Allegato D alla Parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 siano sostituiti dal seguente testo:
“1. La classificazione dei rifiuti e' effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione 2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014”, richiamando quindi disposizioni comunitarie entrate in vigore successivamente (il 1 giugno 2015).
Il testo è poi stato modificato, in sede di conversione, dalla legge 3 agosto 2017 n. 123 aggiungendo al testo appena riprodotto le parole “nonché nel regolamento (UE) 2017/997 del Consiglio, dell'8 giugno 2017” (applicabile dal dal 5 luglio 2018).

3. Ciò posto, occorre dare conto di quanto affermato dalla Corte di Giustizia rispondendo alle domande di pronuncia pregiudiziale prospettate da questa Corte.
Richiamati i contenuti delle disposizioni comunitarie, la sentenza formula (punto 38) un’osservazione forse ovvia, ma sicuramente importante, prospettata anche dall’Avvocato Generale nelle sue conclusioni, circa le ragioni per le quali i rifiuti pericolosi sono sottoposti ad un particolare regime di gestione, che evidenzia, ad avviso del Collegio, come la classificazione degli stessi non possa ritenersi una mera formalità, ma risponda a significative esigenze di tutela dell’ambiente e della salute.
Rileva poi la Corte di giustizia (punti 38, 39 e 40), richiamato l’art. 7, par. 1, della direttiva 2008/98, che, nel caso in cui non sia immediatamente nota la composizione di un rifiuto che potrebbe rientrare tra quelli classificabili con codici speculari, è obbligo del detentore, in quanto responsabile della gestione, raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato.
Evidenzia poi (punto 41) le responsabilità in cui incorrerebbe il detentore «qualora successivamente risulti che tale rifiuto è stato trattato come rifiuto non pericoloso, malgrado presentasse una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98».

Fatta tale premessa, i giudici europei illustrano (punti 42 e 43) i diversi metodi per raccogliere dette informazioni, richiamando, oltre a quelli indicati alla rubrica intitolata «Metodi di prova» di cui all’ Allegato III della direttiva 2008/98, la possibilità di fare riferimento:

1) alle informazioni sul processo chimico o sul processo di fabbricazione che «generano rifiuti» nonché sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi i pareri di esperti;

2) alle informazioni fornite dal produttore originario della sostanza o dell’oggetto prima che questi diventassero rifiuti, ad esempio schede di dati di sicurezza, etichette del prodotto o schede di prodotto;

3) alle banche dati sulle analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati membri; al campionamento e all’analisi chimica dei rifiuti, evidenziando, con riferimento a tale ultimo punto, che analisi chimica e campionamento devono offrire devono offrire garanzie di efficacia e di rappresentatività (punto 44).

Viene poi ulteriormente specificato (punti 45 e 46), premettendo che l’analisi, pur dovendo consentire al detentore del rifiuto di conoscerne in maniera sufficiente la composizione per verificarne l’eventuale pericolosità, come nessuna disposizione comunitaria legittimi un’interpretazione secondo cui l’oggetto dell’analisi si risolva nella necessità di verificare l’assenza nel rifiuto di qualsiasi sostanza pericolosa, obbligando il detentore a rovesciare una presunzione di pericolosità del rifiuto medesimo.
Si aggiunge, poi, che sempre alla luce delle disposizioni comunitarie, se da un lato al detentore del rifiuto non possono essere imposti obblighi irragionevoli, sia dal punto di vista tecnico che economico, dall’altro questi, pur non essendo obbligato a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto, ha comunque l’obbligo di ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi, non avendo alcun margine di discrezionalità a tale riguardo.
La sentenza in esame, inoltre, evidenzia (punto 47) come l’interpretazione offerta trovi conferma nella comunicazione della Commissione del 9 aprile 2018, contenente orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti, pur non tenendone formalmente conto nel formulare la risposta alle questioni pregiudiziali prospettate in quanto successiva ai fatti di causa ed in considerazione della natura penale dei procedimenti e sia conforme anche al principio di precauzione (punto 48), osservando come dalla giurisprudenza comunitaria risulti che una misura di tutela quale la classificazione di un rifiuto come pericoloso s’impone soltanto nel caso in cui, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, sussistano elementi obiettivi che dimostrano che una siffatta classificazione è necessaria.
La Corte di giustizia prosegue poi (punti 49, 50, 51) indicando le modalità di valutazione delle caratteristiche di pericolo del rifiuto cui il detentore deve provvedere, richiamando l’Allegato III della direttiva 2008/98 e la decisione 2000/532, precisando (punto 52) che anche se il legislatore comunitario non ha ancora armonizzato i metodi di analisi e di prova, ciò nonostante entrambi rinviano al regolamento n. 440/2008 e alle note pertinenti del CEN, nonché, dall’altro, ai metodi di prova e alle linee guida riconosciuti a livello internazionale e che (punto 53) tale rinvio, secondo quanto risulta dalla rubrica intitolata «Metodi di prova» dell’allegato III della direttiva 2008/98, non esclude che possano essere presi in considerazione anche metodi di prova sviluppati a livello nazionale, a condizione che siano riconosciuti a livello internazionale.
La sentenza in esame prende poi in considerazione la questione concernente la applicabilità del principio di precauzione, richiamando (punto 57) la propria giurisprudenza, secondo cui l’applicazione corretta di tale principio presuppone tanto l’individuazione delle conseguenze potenzialmente negative per l’ambiente che i rifiuti possono determinare, quanto una valutazione complessiva del rischio per l’ambiente fondata sui dati scientifici disponibili più affidabili e sui risultati più recenti della ricerca internazionale, ricordando (punto 58) che nel caso in cui sia impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio in conseguenza della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per l’ambiente nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive, purché esse siano non discriminatorie e oggettive.
Al richiamo della giurisprudenza segue poi (punto 59) un richiamo all’art. 4, paragrafo 2, terzo comma, della direttiva 2008/98, il quale stabilisce che gli Stati membri devono tener conto non soltanto dei principi generali in materia di protezione dell’ambiente di precauzione e sostenibilità, ma anche della fattibilità tecnica e della praticabilità economica, della protezione delle risorse nonché degli impatti complessivi sociali, economici, sanitari e ambientali, con la conseguenza che il legislatore dell’Unione, nel settore specifico della gestione dei rifiuti, ha effettuato un bilanciamento tra principio di precauzione, fattibilità tecnica e la praticabilità economica, affinché i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze.
Conseguentemente, osservano i giudici europei (punto 60), una misura di tutela come la classificazione di un rifiuto mediante attribuzione, se pericoloso, di codici a specchio, è necessaria qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di tale rifiuto si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare la caratteristica di pericolo che detto rifiuto presenta, sebbene (punto 61) tale impossibilità pratica non possa derivare dal comportamento del detentore stesso del rifiuto.

4. Ciò posto, occorre far rilevare come le considerazioni svolte dalla Corte di giustizia in relazione ai quesiti formulati sono state riassunte riportando, per quanto possibile, gli stessi termini utilizzati in motivazione e ciò allo scopo di evitare distorte letture di quella che altro non è se non una mera sintesi, predisposta per una migliore comprensione della vicenda esaminata, della motivazione della sentenza, cui deve ovviamente essere fatto riferimento.
Tale precisazione, ad avviso del Collegio, si rende necessaria potendosi riscontrare, in alcuni interventi dottrinari, una strumentale lettura dei contenuti dell’ordinanza di rimessione prima e della sentenza della Corte di giustizia poi, chiaramente finalizzata ad attribuire a tali provvedimenti significati rispondenti all’esclusiva esigenza di accreditare la fondatezza di determinate tesi.

Si tratta di un metodo noto ed alquanto diffuso, attuato attraverso l’estrapolazione di singoli brani di un provvedimento da sottoporre ad analisi critica, procedendo ad una lettura frazionata che, inevitabilmente, stravolge i senso del percorso argomentativo seguito dalla motivazione, la quale, al contrario, deve essere unitariamente considerata.

5. In realtà la sentenza della Corte di giustizia ha offerto, ad avviso del Collegio, una illustrazione estremamente chiara degli obblighi del detentore del rifiuto che non si limita a mere affermazioni, offrendo, invece, anche specifiche indicazioni sulle modalità con le quali deve assolversi a tali obblighi e sulle conseguenze all’inosservanza degli stessi, certamente valutabili anche in sede penale.
Inoltre, il riferimento alle garanzie di efficacia e rappresentatività che devono essere offerte dal campionamento e dall’analisi chimica, nonché la radicale esclusione di alcun margine di discrezionalità in capo al detentore del rifiuto, al quale, tuttavia, non possono essere imposti obblighi insensati sotto il profilo tecnico ed economico, non previsti da alcuna disposizione comunitaria, sancisce, inequivocabilmente, la fallacia delle due tesi interpretative che si sono contrapposte nel corso degli anni e comunemente individuate come “tesi della probabilità” e “tesi della certezza” già ritenute non condivisibili da questa Corte nell’ordinanza di rimessione.
Va poi ricordato che la sentenza emessa dalla Corte di Lussemburgo è vincolante per il giudice nazionale remittente (e per gli altri giudici chiamati a decidere nei diversi gradi di giudizio) ai fini della soluzione della controversia principale quanto all’interpretazione delle disposizioni comunitarie nei termini definiti dalla stessa (cfr. Corte di Giustizia – Grande Sezione – 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Elchinov, nonché 15 gennaio 2013, causa C-416/10, Križan).

6. Fatte tali premesse, occorre considerare la vicenda posta all’attenzione di questa Corte, tenendo conto, ovviamente, della particolare natura del giudizio cautelare e della circoscritta cognizione attribuita al giudice di legittimità, non senza ricordare, quanto all’oggetto della decisione (come già fatto nell’ordinanza di rimessione) che opera, anche con riferimento al presente giudizio, il principio devolutivo, applicabile ad ogni mezzo d'impugnazione e non derogato dall'art. 325 cod. proc. pen.
Avuto dunque riguardo ai contenuti del ricorso ed all’ordinanza impugnata, unici atti ai quali questa Corte ha accesso, occorre rilevare che, per quanto emerge dalla provvisoria incolpazione riprodotta in ricorso e sintetizzata in premessa, si ipotizza, da parte del Pubblico Ministero, la qualificazione dei rifiuti gestiti dagli indagati come non pericolosi effettuata “in forza di analisi quantitative e qualitative non esaustive” fornite da alcuni laboratori “con la consapevolezza della loro parzialità” .

Nel ricorso, il Pubblico Ministero richiama diffusamente i contenuti della normativa di settore ed, in particolare, nel paragrafo 2, dedicato ai criteri di classificazione dei rifiuti, dopo alcune considerazioni conclude affermando “è quindi evidente che il produttore, per classificare un rifiuto indicato con codice CER a specchio, deve effettuare tutte le analisi necessarie ad escludere la presenza delle sostanze appartenenti alle classi di pericolo, o, in alternativa, classificare lo stesso come pericoloso”.
Il ricorrente illustra successivamente le basi normative sulle quali ritiene fondata quella che egli stesso definisce una “presunzione relativa di pericolosità” e censura l’ordinanza dei giudici del riesame, denunciando la violazione di legge per avere il Tribunale escluso il fumus dei reati contestati sulla base di una diversa lettura della normativa applicata, ritenuta erronea.

7. In particolare, i giudici del riesame censurano la rilevanza attribuita dal Pubblico Ministero alla presunzione di pericolosità, osservando come nel corso dell'indagine non sia stata compiuta, da parte degli organi di controllo, alcuna analisi chimica attestante la pericolosità dei rifiuti e ciò sulla base di una interpretazione della norma ritenuta errata, perché presuppone che la qualificazione del rifiuto debba essere effettuata non soltanto attraverso la valutazione della scheda del produttore e la conoscenza del processo chimico, ma anche attraverso analisi chimiche esaustive del rifiuto volte ad escludere il superamento delle concentrazioni limite di riferimento attraverso l'individuazione analitica del 99,9% delle componenti del rifiuto autorizzato.

I giudici del riesame richiamano anche le tesi della difesa, che aveva dedotto l'impossibilità tecnica di operare nel senso appena indicato - stante l'assenza di una idonea metodologia che consenta di individuare la totalità o quasi dei componenti presenti in un rifiuto determinandone le concentrazioni - e rivendicato la correttezza delle analisi a campione, che si ritenevano effettuate conformemente alla vigente normativa.
Il Tribunale, richiamati altri documenti, ritiene dunque che l'analisi del rifiuto con codici a specchio, al fine di determinarne la pericolosità, deve riguardare solo le sostanze che in base al processo produttivo è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo ed ha conseguentemente escluso la sussistenza del fumus del delitto di attività organizzate finalizzata al traffico illecito di rifiuti in quanto, venendo meno il presupposto della presunzione di pericolosità in base alla non esaustività delle analisi, viene a mancare anche ogni elemento per affermare l'abusività della gestione del ciclo di smaltimento dei rifiuti.

8. Ritiene il Collegio che entrambe le soluzioni interpretative adottate siano palesemente in contrasto con le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia.

9. Va certamente esclusa la “presunzione di pericolosità” nei termini in cui vi si riferisce il Pubblico Ministero ricorrente ed il conseguente obbligo per il detentore del rifiuto di dimostrarne, attraverso analisi, la non pericolosità, dovendo in alternativa classificare comunque il rifiuto come pericoloso ostandovi, in maniera evidente, quanto indicato dai giudici di Lussemburgo nel punto 45 della sentenza.
Non può inoltre condividersi, sempre alla luce di quanto evidenziato dalla Corte di giustizia, il rilievo esplicitamente attribuito dal Tribunale al mancato espletamento, da parte degli inquirenti, di attività di analisi volta a dimostrare la pericolosità del rifiuto, accollando ad essi un dovere che la pronuncia pregiudiziale esclude, attribuendo al detentore del rifiuto (e non dunque, soltanto al produttore, che pure tale qualifica riveste), quando la composizione del rifiuto potenzialmente pericoloso non sia immediatamente nota, l’onere di raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato (punto 40).

Contrastano con le affermazioni del Tribunale anche le ulteriori precisazioni della Corte europea, laddove si esclude ogni margine di discrezionalità in capo al detentore del rifiuto circa la natura dell’accertamento, in quanto, sebbene non obbligato a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa egli deve comunque ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi.
Va peraltro osservato che la sentenza della Corte di giustizia, tanto nella risposta ai primi tre quesiti, quanto nella motivazione, porta ad escludere radicalmente la possibilità di arbitrarie scelte da parte del detentore del rifiuto circa le modalità di qualificazione del rifiuto ed accertamento della pericolosità.

In altre parole, ritiene il Collegio che il necessario riferimento della Corte europea, in precedenza richiamato, all’impossibilità di imporre al detentore del rifiuto irragionevoli obblighi sia dal punto di vista tecnico che economico, non può assolutamente, a fronte di quanto più diffusamente stabilito dai medesimi giudici, essere utilizzato come pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione del rifiuto, essendo chiaro che se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota (circostanza che rende, evidentemente, non necessaria l’analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione e l’attribuzione al rifiuto del codice appropriato. La raccolta delle informazioni, inoltre, va necessariamente effettuata secondo la precisa metodologia specificata, che non prevede esclusivamente il campionamento e l’analisi chimica, le quali, come espressamente indicato (punto 44), devono peraltro offrire garanzie di efficacia e rappresentatività.

Ciò porta anche a ritenere non condivisibile, ad avviso del Collegio, l’affermazione del Tribunale secondo cui “l’analisi del rifiuti ‘a specchio’, al fine di determinarne la pericolosità, deve riguardare solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo” in quanto riduttiva rispetto alla metodologia individuata nella pronuncia della Corte di giustizia.
Quanto al principio di precauzione, la Corte di giustizia ne ha delimitato l’ambito di applicazione nei termini in precedenza ricordati.

10. Quanto sopra impone, conseguentemente, una nuova valutazione della vicenda alla luce delle indicazioni fornite nella pronuncia pregiudiziale, dovendosi verificare, seppure entro l’ambito di operatività della competenza del giudice del riesame, se la classificazione dei rifiuti sia stata correttamente effettuata ovvero se la stessa sia conseguenza di un deliberato ricorso a procedure non adeguate finalizzate al loro illecito smaltimento.

11. Va altresì ricordato, per ciò che concerne la valutazione del fumus del reato sotto il profilo soggettivo, pure effettuata nel provvedimento impugnato, che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato come, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice sia demandata, nell'ambito della valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato, anche la verifica dell'eventuale difetto dell'elemento soggettivo del reato, purché di immediata evidenza (Sez. 3, n. 26007 del 5/4/2019, Pucci , Rv. 276015; Sez. 6, n. 16153 del 6/2/2014, Di Salvo, Rv. 259337; Sez. 2, n. 2808 del 2/10/2008 (dep. 2009), Bedino e altri, Rv. 242650; Sez. 4, n. 23944 del 21/5/2008, P.M. in proc. Di Fulvio, Rv. 240521; Sez. 1, n. 21736 del 11/5/2007, Citarella, Rv. 236474 ed altre prec. conf.).

12. L’ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio al Tribunale per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Roma.

Così deciso in data 9/10/2019

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