Le parole dell’ambiente – Rifiuto

Analisi della fattispecie sotto un triplice profilo: legislativo, giurisprudenziale e come caso pratico

(Le parole dell'ambiente - Rifiuto)

 

1. Definizione

La corretta gestione dei rifiuti occupa una posizione di rilievo nel D.Lgs. n. 152/2006 il cosiddetto “testo unico ambientale”. In particolare, la fattispecie trova collocazione nella parte IV che condivide con l’altrettanto complesso tema delle bonifiche. L’importanza della disciplina deriva principalmente da tre ordini di motivi:

  • l’impatto ambientale generato dalla produzione dei rifiuti copre trasversalmente ogni attività antropica e si registra sia a livello domestico che a livello professionale/ industriale;
  • dalla scorretta gestione dei rifiuti prodotti possono derivare responsabilità anche di tipo penale;
  • alcuni dei reati che si registrano più spesso su questa particolare attività costituiscono reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001.

Essenziale risulta, quindi, l’inquadramento di ciò che deve definirsi rifiuto.

La nozione legale vigente - oggetto di modifica da parte del D.Lgs. n. 205/2010, che ha riscritto diverse definizioni dell’art. 183, D.Lgs. 152/2006, recita: «1. Ai fini della parte quarta del presente decreto e fatte salve le ulteriori definizioni contenute nelle disposizioni speciali, si intende per "rifiuto" «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi» [art. 183, comma 1, lettera a), del richiamato decreto].

La nozione di rifiuto, dunque, comprende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi (o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi) senza che possa assumere importanza, ad esempio, il fatto che lo stesso possa o meno essere oggetto di riutilizzazione economica.

L’attuale nozione di rifiuto si presenta piuttosto ampia e, se è vero che la scelta del “disfarsi” compete al suo detentore, determinanti risultano anche essere le risultanze oggettive in grado di sostenere la sopravvenuta incapacità della sostanza o dell’oggetto di soddisfare i bisogni e svolgere le funzioni cui essi erano originariamente destinati e ciò, pare opportuno ribadirlo, a prescindere dalla conservazione di un qualche valore economico, così come ha confermato la sentenza della corte d’Appello di Napoli, sez. VII penale, 5 giugno 2013, n. 2717.

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2. La giurisprudenza

Un contributo importante quello della giurisprudenza, soprattutto quella di legittimità della Corte di Cassazione, che da sempre costituisce uno degli strumenti interpretativi più validi per leggere ed applicare la norma con lo stesso punto di vista del legislatore. In particolare, la suprema corte è intervenuta a diverse riprese sulla nozione di rifiuto.

Rilevante è la sentenza 21 aprile 2016, n. 19206, la quale ha avuto modo di chiarire che «al fine di una corretta individuazione del significato del termine “disfarsi” è necessario procedere ad una interpretazione estensiva della nozione di rifiuto per limitare inconvenienti o danni, considerare le finalità della normativa comunitaria e, in particolare, la tutela della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti nonché assicurare un elevato livello di tutela e l'applicazione dei principi di precauzione e di azione preventiva».

Sul valore che, invece, può conservare la sostanza o l’oggetto anche qualora debba definirsi rifiuto, la Corte si è pronunciata con la sentenza 24 gennaio 2018, n. 3299, la quale precisa che: «la qualifica di rifiuto deve essere dedotta da dati obiettivi, non dalla scelta personale del detentore che decide che quel bene non gli è più di nessuna utilità. Sono elementi obiettivi, ad esempio, l’oggettività dei materiali in questione, la loro eterogeneità, non rispondente a ragionevoli criteri merceologici, e le condizioni in cui gli stessi sono detenuti, così come le circostanze e le modalità con le quali l'originario produttore se ne era disfatto. Non rileva, poi, il fatto che un bene sia ancora cedibile a titolo oneroso, poiché tale evenienza non esclude comunque la natura di rifiuto».

3. Esempio pratico

Sul punto è possibile riportare un caso pratico partendo dal diverso, ma estremamente affine, istituto del sottoprodotto che permette agli scarti di produzione – fino a una manciata di anni fa gestiti per mancanza di alternative come rifiuto con conseguente annotazione nella voce dei costi nel bilancio aziendale – di costituire oggi per molte realtà produttive italiane un nuovo business a tutti gli effetti.

Questo, tuttavia, può avvenire solamente a determinate condizioni pedissequamente dettate dalle norme vigenti - l’art. 184-bis, D.Lgs. 152/2006 in particolare.

Una delle condizioni più rilevanti ai nostri fini è quella della certezza del riutilizzo, la quale richiede che i residui che discendono da un ciclo produttivo possano essere commercializzati come prodotto qualora ci siano evidenze circa la certezza del loro futuro riutilizzo nel medesimo o in un diverso ciclo di produzione, a sostituzione delle materie prime vergini che andranno via via ad essere così risparmiate con un bilancio positivo per l’ambiente.

Proprio con riferimento a questa condizione, la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che per sottoprodotto si intendono quelle sostanze, quegli oggetti dei quali sin dall’inizio sia certa, e non eventuale, la destinazione al riutilizzo – appunto - nel medesimo ciclo produttivo o alla loro utilizzazione da parte di terzi; ed è questa certezza oggettiva del riutilizzo che esclude a monte l’intenzione di disfarsi dell’oggetto o della sostanza e che concorre, insieme con le altre condizioni di cui al richiamato art. 184-bis, a escluderlo dall’ambito di applicabilità della normativa sui rifiuti (sez. III, 2 dicembre 2014,n. 50309).

La diretta conseguenza di questa impostazione è che qualora ci si attardi nello stoccaggio dei residui che si vogliano destinare al commercio come sottoprodotto, il rischio è quello del venir meno della predetta condizione e ciò ne determinerà la classificazione a rifiuto, a prescindere dal fatto, peraltro, che gli stessi continuino a conservare valore economico.

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