La disciplina dei rifiuti e la gestione di Trs, riporti, sedimenti e fanghi

Guida all'ambiente 2022 - Capitolo 4. Dalla prima formulazione riportata nel D.Lgs. n. 22/1997 la disciplina sui rifiuti si è evoluta tra modifiche legislative e sentenze, arricchendosi di nuove nozioni come il sottoprodotto, la cessazione della qualifica (cosiddetto end of waste) e via dicendo. Nel tempo si sono poi venute a profilare le discipline per la gestione delle terre e rocce da scavo, dei materiali di riporto, dei fanghi, dei sedimenti eccetera, che hanno contribuito a rendere il quadro di insieme estremamente complesso. Il capitolo 4 della Guida all'ambiente 2022 offre una lettura sinottica e puntuale di tutti gli aspetti legislativi, aggiornati alle più recenti pronunce giurisprudenziali

(La disciplina dei rifiuti e la gestione di Trs, riporti, sedimenti e fanghi)

 

La disciplina europea

La legislazione italiana in materia di rifiuti è in larga parte di derivazione europea; regolamenti, direttive e decisioni costituiscono l’ossatura comune agli stati membri, recepita nell’ordinamento nazionale in via diretta o mediata dal legislatore. I principi cardine della normativa comunitaria sono oggi alla base della disciplina rifiuti di cui alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006. Tra i più rilevanti si ricordano i «principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga» (art. 178). 

Da oltre un decennio, un ruolo sostanziale è ricoperto dalla direttiva 2008/98/Ce, recepita nell’ordinamento nazionale con il D.Lgs. n. 205/2010, modificata a opera della direttiva 2018/851/Ue[1] «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2018, che modifica la direttiva 2008/98/Ce relativa ai rifiuti» (in G.U.C.E. L del 14 giugno 2018, n. 150). . La cosiddetta “direttiva rifiuti” ha innovato l’intera disciplina con l’obiettivo di prevenire la produzione di rifiuti e ridurre gli impatti ambientali complessivi legati all’uso delle risorse (art. 1). La novità primaria della disciplina del 2008 è stata l’introduzione della gerarchia nella gestione dei rifiuti, che costituisce «ordine di priorità della normativa e della politica in materia di prevenzione e gestione dei rifiuti» (art. 4 della direttiva; si veda anche la figura 1).

Fig 1

-disciplina dei rifiutiA distanza di oltre 10 anni, per incentivare sempre più la gerarchia, in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, il D.Lgs. n. 116/2020 ha introdotto nell’allegato L-ter alla parte IV esempi di strumenti economici e altre misure, tra i quali rilevano la possibile tassazione per il conferimento in discarica, l’adozione del principio del “pay-as-you-throw”, l’implementazione di sistemi di cauzione-rimborso e l’utilizzo di Bat per il trattamento rifiuti (vedere il box 1).

Nella gerarchia, la migliore opzione ambientale è costituita dalla prevenzione nella produzione di rifiuti, da intendersi come l’insieme delle «misure adottate prima che una sostanza, un materiale o un prodotto diventi rifiuto che riducono: 1) la quantità dei rifiuti, anche attraverso il riutilizzo dei prodotti o l’estensione del loro ciclo di vita; 2) gli impatti negativi dei rifiuti prodotti sull’ambiente e la salute umana; 3) il contenuto di sostanze pericolose in materiali e prodotti»[2] 183 comma 1, lettera m), D.Lgs. n. 152/2006.. All’interno di questa base programmatica, il legislatore europeo e quello nazionale hanno introdotto forme di responsabilità anticipate (come quella “estesa” del produttore del bene; vedere il paragrafo "La responsabilità del produttore del prodotto") e incentivato gestioni dei residui di produzione che, prescindendo dalla qualifica di rifiuto[3] La direttiva comunitaria 2008/98/Ce invita gli stati membri a incentivare soluzioni che permettano «di evitare la produzione di rifiuti» (considerando 28 alla direttiva). , permettono di ridurre l’uso delle risorse e delle materie prime. In questa prospettiva, il concetto di sottoprodotto rappresenta «il fulcro di tutto il sistema comunitario di prevenzione e gestione dei rifiuti»[4] M. Magri, Rifiuto e sottoprodotto nell’epoca della prevenzione: una prospettiva di soft law, Ambiente e Sviluppo, Ipsoa, n. 1/2010, p. 29.. Allo stesso modo, grande rilievo sta assumendo anche il concetto di riutilizzo di prodotti e componenti[5] Su questo tema si registra la proposta di legge «Misure per la prevenzione della produzione di rifiuti, istituzione del Registro nazionale delle reti del riuso e agevolazioni nell’applicazione della tassa sui rifiuti in relazione all’impronta climatica dei prodotti conferiti per il riuso». A livello europeo, invece, in data 11 gennaio 2022 è stata aperta una consultazione sulla futura introduzione di un “diritto alla riparazione”, per ridurre i rifiuti e promuovere un uso più sostenibile dei beni nel loro ciclo di vita.  (vedere il paragrafo "Il riutilizzo di prodotti e la preparazione per il riutilizzo di rifiuti"). Il D.Lgs. n. 116/2020 ha poi confermato il «Programma nazionale di prevenzione rifiuti» (già adottato con decreto direttoriale del ministero dell’Ambiente 7 ottobre 2013), al quale è delegata l’adozione di una vasta serie di misure volte a promuovere e incoraggiare iniziative che prevengono la produzione di rifiuti (nuovo art. 180). 

Come detto, a distanza di un decennio, Parlamento e Consiglio europei hanno ritenuto necessario modificare, aggiornandolo, il testo del 2008. In questa prospettiva, la direttiva 2018/851/Ue, recepita con il richiamato D.Lgs. n. 116/2020, prosegue nel percorso già intrapreso e promuove i principi dell’economia circolare attraverso l’adozione di «misure aggiuntive sulla produzione e il consumo sostenibili, concentrandosi sull’intero ciclo di vita dei prodotti in modo da preservare le risorse e fungere da “anello mancante”» (considerando 1). Per far questo - e per una maggiore chiarezza - la direttiva ha introdotto nel testo del 2008 nuove definizioni come quella di «rifiuti non pericolosi» (identificati in negativo rispetto ai pericolosi), di «recupero di materia» (che si contrappone al recupero ai fini energetici), quella di «regime di responsabilità estesa del produttore» di prodotti e quella di «riempimento», ovverosia il «recupero in cui rifiuti idonei non pericolosi sono utilizzati a fini di ripristino in aree escavate o per scopi ingegneristici nei rimodellamenti morfologici». 

Negli ultimi anni, alla direttiva 2008/98/Ce si sono poi affiancate numerose altre fonti comunitarie, che hanno, a loro volta, inciso, modificato e integrato l’assetto normativo nazionale. Tra le più recenti si ricordano le tre direttive che si affiancano alla 2018/851/Ue nel cosiddetto “pacchetto” sulla circular economy:

  • la direttiva 2018/849/Ue che modifica le direttive 2000/53/Ce sui veicoli fuori uso, 2006/66/Ce sulle pile e accumulatori e sui rifiuti di pile e accumulatori e 2012/19/Ue sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche;
  • la direttiva 2018/850/Ue che modifica la direttiva 1999/31/Ce relativa alle discariche di rifiuti (vedere il paragrafo "Le discariche e gli inceneritori");
  • la direttiva 2018/852/Ue che modifica la direttiva 94/62/Ce sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio.

 

I rifiuti

Fin dalla prima formulazione nel D.Lgs. n. 22/1997, la nozione di rifiuto è stata oggetto di un dibattito giurisprudenziale che vedeva contrapporsi due tesi:

  • “tutto è rifiuto”, da un lato;
  • “è rifiuto solo ciò che non può essere riutilizzato”, dall’altro.

La soluzione del contrasto, raggiunta dalla Corte di giustizia Ue e trasfusa nella direttiva 2008/98/Ce, ha aderito alla seconda tesi e ha portato alla nascita dei concetti di «sottoprodotto» (art. 184-bis) e di «rifiuto che ha cessato di essere tale» (il cosiddetto “end of waste” di cui all’art. 184-ter). 

Dal 2010, nell’ordinamento italiano si intende per rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi» [art. 183 comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006]. Precedentemente, la nozione si riferiva anche alle categorie riportate nell’allegato A alla parte IV; con il D.Lgs. n. 205/2010 il riferimento è stato però eliminato e l’allegato A abrogato. Di conseguenza, il discrimine tra ciò che può dirsi rifiuto ai sensi di legge e ciò che, invece, costituisce ancora un bene, va oggi individuato nell’inciso per il quale «il detentore[6] Dove per «detentore», ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera h), deve intendersi «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso».  si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi» (Cassazione penale, n. 32180/2018 e n. 31213/2019). Gli elementi che differenziano un rifiuto da un bene sono, pertanto:

  • l’effettivo disfarsi del bene, oppure,
  • la volontà di disfarsi, o ancora,
  • l’obbligo di disfarsi.

La sussistenza anche di uno solo di questi requisiti comporta la qualifica della sostanza o dell’oggetto come rifiuto. Con la sentenza relativa alle cause C-241/12 e C-242/12, la Corte di giustizia Ue è intervenuta sui tre canoni specificando che:

  • l’effettivo disfarsi del bene deve essere interpretato come avvio a smaltimento o a recupero; rilevano, al riguardo, oltre al complesso delle circostanze del caso specifico, attività quali la consegna a soggetti terzi autorizzati alla gestione dei rifiuti ai fini del relativo avvio a trattamento;
  • quanto all’intenzione di disfarsi, l’accento è stato posto sulla possibile utilità del bene per il produttore e sull’esistenza di documentazione o evidenze che ne forniscano la prova (ad esempio, specifiche procedure aziendali; riutilizzabilità immediata del bene). Se l’utilità manca (ad esempio batteria definitivamente esausta, cartuccia esaurita eccetera), a detta della Corte se ne dovrà necessariamente presumere la qualifica come rifiuto, senza che possano assumere rilievo le eventuali vicende negoziali (Cassazione penale n. 25633/2022);
  • in ultimo, quanto all’obbligo di disfarsi, occorre riferirsi a specifici divieti di utilizzo del bene nelle condizioni in cui si trova. Si tratta, dunque, di una condizione che prescinde dalle intenzioni del produttore (in tema di materiali provenienti da demolizione, si veda la sentenza della Cassazione penale n. 16727/2011 e, più recentemente, la n. 48316/2016).

Il momento determinante la qualifica di rifiuto può, dunque, variare da caso a caso[7] Sul tema della rilevanza delle modalità oggettive di deposito dei materiali, a prescindere dalla effettiva intenzione di disfarsene, si veda la sentenza del Tar Piemonte n. 1303/2017. :

  • laddove si tratti di un “disfarsi” materiale, esso si avrà nel momento di produzione dello scarto;
  • ove, invece, si abbia l’intenzione di disfarsi, il momento generativo andrà individuato nel sorgere di questa intenzione;
  • con riferimento, infine, all’obbligo di disfarsi, si dovrà valutare l’integrazione dei requisiti dello stesso.

Per la giurisprudenza, la «definizione di rifiuto fornita dall’art. 183, comma 1, lett. a), d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152, si basa sul dato funzionale, con la conseguenza che, per stabilire se una determinata sostanza o un determinato oggetto siano da considerare rifiuto, non occorre individuarne gli elementi intrinseci che ne determinano la qualificazione, ma occorre piuttosto fare riferimento appunto al dato funzionale, essendo rifiuto tutto ciò di cui il detentore si sia disfatto ovvero intenda disfarsi o sia obbligato a farlo» (Tar Milano n. 2302/2019 e Tar Napoli n. 537/2021). Si tratta, peraltro, di una qualifica che non prevede necessariamente un collegamento con l’esercizio di un’attività industriale e/o di natura economica (Cassazione penale n. 26000/2021). Più recentemente, la Cassazione penale ha chiarito che «l’accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai sensi dell’articolo 183 Dlgs 3 aprile 2006, n. 152 costituisce una quaestio facti» e ha, conseguentemente, escluso la qualifica di sottoprodotto di terre e rocce da scavo non costituite unicamente da terriccio e ghiaia, ma anche da materiali provenienti dalla demolizione di edifici o dal rifacimento di strade (n. 43626/2021).

La natura, o meno, di rifiuto ha evidenti quanto fondamentali risvolti in termini gestionali. Il D.Lgs. n. 152/2006, infatti, separa nettamente le discipline del prodotto e del rifiuto; a questi ultimi sono collegati oneri quali caratterizzazione di base, classificazione, tenuta dei registri di carico/scarico, compilazione dei formulari e del Mud, conferimento a soggetti autorizzati e avvio a specifiche e individuate attività di recupero/smaltimento. Come si dirà, in tema di rifiuti la responsabilità è condivisa e coinvolge tutti i soggetti della “filiera” di gestione (art. 188, D.Lgs. n. 152/2006). Ai prodotti, invece, si applicano le specifiche discipline della categoria merceologica di riferimento, con particolare attenzione a trasporto, imballaggio, etichettatura, tracciabilità e correlate responsabilità.

 

I sottoprodotti

Nonostante gli anni trascorsi dalla sua introduzione, la disciplina in tema di sottoprodotti è ancora in evoluzione dal punto di vista normativo e giurisprudenziale. Alle problematiche legate ad alcuni passaggi interpretativi si somma il tema dell’onere della prova rispetto alla sussistenza delle condizioni richieste per aversi sottoprodotto, onere posto in capo al soggetto che invoca l’esclusione dalla qualifica di rifiuto (si vedano le sentenze della Cassazione penale n. 37280/2008, n. 16727/2011, n. 12229/2014, n. 16078/2015, n. 29084/2015, n. 16431/2017, n. 38950/2017, n. 5442/2017, n. 8848/2018 e del Tar Milano n. 1131/2014). Su questo tema, la Corte di giustizia Ue ha però precisato che la prova contraria non deve «pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione e in particolare l’obbligo di non sottoporre alle disposizioni della direttiva sui rifiuti sostanze che, in applicazione dei criteri succitati, devono, a norma della giurisprudenza della Corte, essere considerate come sottoprodotti esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva in parola» (Cgce, 3 ottobre 2013, causa C-113/12). 

Come noto, solo con il D.Lgs. n. 205/2010 al concetto di sottoprodotto è stata dedicata un’autonoma articolazione [oltre alla definizione mantenuta alla lettera qq) dell’art. 183]. L’art. 184-bis, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 riporta, infatti, le quattro condizioni che devono sussistere contestualmente (sentenza della Cassazione penale n. 16727/2011) perché qualsiasi sostanza od oggetto sia qualificabile come sottoprodotto e, come tale, sia liberamente riutilizzabile[8] Il materiale deve però essere destinato con certezza ed effettività e non come mera eventualità a un ulteriore utilizzo (sentenza della Cassazione penale n. 3202/2014). Inoltre, «l’utilizzo del materiale in un nuovo ciclo produttivo deve essere certo sin dal momento della sua produzione, dovendosi dimostrare una preventiva organizzazione alla sua riutilizzazione» (sentenza della Cassazione penale n. 17823/2012).  (vedere la tabella 1).

La nozione di sottoprodotto vigente dal 2010 è «certamente meno restrittiva» (sentenza della Cassazione penale n. 17453/2012) di quella precedente; alla condizione b) è stato, infatti, chiarito che la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato tanto dal produttore quanto terzi[9] Superando così le ambiguità legate all’interpretazione del vecchio art. 183, lettera p), numero 2: «il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito peraltro». ; allo stesso modo, il divieto di trasformazioni preliminari idonee a far perdere al sottoprodotto la sua identità (sentenza della Cassazione penale n. 14323/2007) è stato sostituito dalla possibilità di sottoporre il sottoprodotto a un trattamento rientrante nel concetto di normale pratica industriale. Proprio quest’ultimo rappresenta, oggi, l’aspetto più discusso e instabile dell’intera disciplina. La dottrina, dal 2010, non ha mancato di evidenziare la genericità della condizione, proponendo criteri di individuazione legati al processo produttivo di filiera o, alternativamente, dello specifico stabilimento. Alcune indicazioni sono state poi proposte nella prassi amministrativa[10]Un riferimento al concetto di normale pratica industriale si ritrova nella nota del ministero dell’Ambiente, di risposta a Ispra, datata 14 maggio 2014, in cui si legge: «il riferimento alla normale pratica industriale riguarda tutti i trattamenti che non hanno alcuna incidenza sulle caratteristiche chimico-fisiche della sostanza o dell’oggetto ai fini del rispetto dei requisiti sanitari ed ambientali richiesti dalla norma (ad esempio il terreno non contaminato)».. L’interpretazione più rilevante è stata però fornita dalla giurisprudenza di legittimità, che, sul punto, ha dato luogo a un contrasto interpretativo ad oggi ancora irrisolto. 

Nella sentenza n. 17453/2012, la Cassazione penale ha adottato un’interpretazione estremamente restrittiva del concetto, tale da non comprendere «attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura». Non solo; richiamando la nozione di trattamento fornita dal D.Lgs. n. 36/2003[11]La vigente definizione di “trattamento”, contenuta nel D.Lgs. n. 152/2006, è però meno stringente oltre alle operazioni di recupero e di smaltimento include anche «la preparazione prima del recupero o dello smaltimento». sulle discariche di rifiuti, la Cassazione ha escluso dalla normale pratica anche «operazioni di minor impatto sul residuo, che altra dottrina definisce “minimali”, individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione», le quali «ne determinano una modificazione dell’originaria consistenza». La suprema Corte ha, in altre parole, considerato conformi alla normale pratica industriale solo «quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire», ad esclusione, quindi, di «tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato». 

A questa prima interpretazione, confermata da una seconda pronuncia (sentenza della Cassazione penale n. 20886/2013), si è contrapposta la sentenza n. 40109/2015, nella quale la Cassazione ha ampliato il concetto di normale pratica industriale, affermando che vi rientrano tutti quei trattamenti o interventi che «non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale che esso già possiede […] ma che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico utilizzo, presso il produttore o presso altri utilizzatori (anche in altro luogo e in distinto processo produttivo)»; tra questi trattamenti, la Corte identifica le operazioni «di lavaggio, essiccazione, selezione, cernita, vagliatura, macinazione, frantumazione, ecc.». Trattando di materie plastiche, a sostegno della propria interpretazione, la Cassazione ha fatto riferimento alla norma Uni 10667 - edizione 2010[12]Si tratta della norma tecnica richiamata dal D.M. 5 febbraio 1998 in tema di recupero semplificato, quale criterio di necessaria conformità per le “materie prime seconde” plastiche e che tratta anche di sottoprodotti plastici., oggi rieditata nella revisione marzo 2017 e che tratta anche di sottoprodotti[13]La nuova Uni 10667-1 reca il titolo «Materie plastiche prime-secondarie. Generalità su materie plastiche prime secondarie e sottoprodotti di materie plastiche» e, al capitolo 4, tratta del concetto di normale pratica industriale basandosi su quanto espresso nella richiamata sentenza della corte di Cassazione n. 40109/2015. . Si deve, infine, registrare un’ulteriore virata interpretativa; in particolare, la sentenza n. 53136/2017 la Cassazione penale, trattando di fresato d’asfalto, ha, infatti, nuovamente aderito all’orientamento del 2012, ritenendo che «la definizione di normale pratica industriale appaia coerente con la tesi più restrittiva espressa in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità». Un’interpretazione restrittiva del concetto di normale pratica industriale è stata fornita, più recentemente, anche dalla Cassazione penale n. 22313/2021, in una sentenza che, tuttavia, sembra dimenticare che tanto il dato normativo-regolamentare, quanto gli esempi di prassi, ammettono, sul residuo, trattamenti di normale pratica industriale.

Nell’attuale contrasto interpretativo, l’elemento comune alla maggior parte delle pronunce resta quello dell’immodificabilità della qualificazione come rifiuto, da cui deriva l’impossibilità di qualificare come sottoprodotti residui di produzione originariamente classificati come rifiuti da chi li produce (Cassazione penale nn. 32207/2007, 2886/2013 e 53136/2017).

Il comma 2 dell’art. 184-bis permetterebbe di superare le criticità interpretative nella parte in cui prevede la possibilità di stabilire con decreto ministeriale «criteri qualitativi e/o quantitativi da soddisfare affinché una sostanza o un oggetto specifico sia considerato sottoprodotto e non rifiuto […]»[14]In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, è stati inserito il seguente inciso «garantendo un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana agevolando, altresì, l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali dando priorità alle pratiche replicabili di simbiosi industriale».. Nonostante il favore del legislatore comunitario rispetto al sottoprodotto quale strumento per prevenire la produzione di rifiuti, dal 2010 a oggi al predetto comma 2 è stata data attuazione specifica solo in poche occasioni:

  • con il D.M. n. 161/2012 - oggi abrogato e sostituito dal D.P.R. n. 120/2017, come si dirà al paragrafo "La gestione delle terre e rocce da scavo" - è stata disciplinata la gestione come sottoprodotti dei materiali da scavo relativi a opere sottoposte a Via e Aia, prevedendo all’allegato 3, per la prima volta, un’esemplificazione non tassativa dei trattamenti rientranti nel concetto normale pratica industriale;
  • successivamente, con il decreto interministeriale 25 febbraio 2016, n. 5046[15]«Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e delle acque reflue, nonché per la produzione e l’utilizzazione agronomica del digestato» (in S.O. n. 9 alla Gazzetta Ufficiale del 18 aprile 2016, n. 90). l’esecutivo ha disciplinato l’utilizzo quale ammendante ai fini agronomici del digestato sottoprodotto[16]Si veda L. Butti, A. Kiniger, S. Campigotto, Ammendanti. Effluenti di allevamento, acque reflue e digestato: i nuovi criteri per l’utilizzazione agronomica, in Ambiente&Sicurezza n. 10/2016, pag. 74. In tema di digestato sottoprodotto è intervenuta anche la corte di Cassazione penale (n. 56066/2017) e, successivamente, anche il Consiglio di stato (n. 6093/2019).;
  • infine, il D.M. n. 264/2016, ha previsto, all’allegato 1, un elenco delle principali norme che regolamentano l’impiego come sottoprodotti delle biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di biogas e le biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di energia mediante combustione.

Il D.M. n. 264/2016, recante «Criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti»[17]F. Peres e A. Kiniger, Sottoprodotti e biomasse, analisi del nuovo decreto, in Ambiente&Sicurezza n. 4/2017, pagg. 7. e in vigore dal 2 marzo 2017, è rilevante anche in termini più generali e che prescindono dalle biomasse qualificate come sottoprodotti. Con questo regolamento si è, infatti, voluto fornire agli operatori del settore indicazioni e suggerimenti non vincolanti per dimostrare, con riferimento a tutti i residui di produzione, la sussistenza dei requisiti per la qualifica come sottoprodotti, senza, tuttavia, innovare la disciplina sostanziale generale di settore. Nello specifico, il D.M. n. 264/2016 richiama alcuni possibili elementi di prova documentali, come l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra produttore del residuo e utilizzatore[18]Su questo tema vedere la sentenza della Cassazione penale n. 50628/2020 per la quale «se è vero che l’esistenza di rapporti contrattuali tra il produttore del residuo ed eventuali intermediari ed utilizzatori rilevano in termini di prova sulla certezza dell’utilizzo, il mero richiamo all’esistenza di tali rapporti non può però essere sufficiente a soddisfare le verifiche richieste, necessitando che dalla documentazione citata possano con certezza evincersi le caratteristiche tecniche dei prodotti, l’esistenza di condizioni che giustifichino la vantaggiosità della cessione, e via dicendo». , e ammette la possibilità di predisporre una scheda tecnica (riportata nell’allegato 2 al D.M. n. 264/2016 e che deve essere numerata, vidimata e gestita con le procedure e le modalità fissate dalla normativa sui registri Iva), contenente tutte le informazioni probatorie richieste dalla normativa per la gestione dei sottoprodotti. Nel D.M. n. 264/2016, per la prima volta, viene inoltre proposta una definizione di prodotto e di residuo di produzione (vedere il box 2).

Sempre in termini generali, il D.M. n. 264/2016 chiarisce che i requisiti e le condizioni richiesti per escludere un residuo di produzione dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti (e qualificarlo sottoprodotto) sono valutati e accertati alla luce del complesso delle circostanze e devono essere soddisfatti «in tutte le fasi della gestione dei residui, dalla produzione all’impiego nello stesso processo o in uno successivo» (art. 1, comma 2). Il regolamento, sulla base del quale è stato creato un portale telematico di scambio tra domanda e offerta di sottoprodotti[19]Consultabile all’indirizzo http://www.elencosottoprodotti.it/, dedica, poi, uno specifico allegato alle biomasse residuali destinate all’impiego per la produzione di energia.

Considerata la centralità del tema sottoprodotto e la complessità di alcuni aspetti sostanziali, al regolamento ha poi fatto seguito la pubblicazione di due documenti interpretativi del ministero dell’Ambiente[20]Si tratta della nota ministeriale a Unioncamere 3 marzo 2017, n. 3084, dedicata all’elenco pubblico che le camere di commercio devono istituire e la corposa circolare ministeriale esplicativa 30 maggio 2017, n. 7619. Per un approfondimento su questi temi vedere A. Kiniger, Novità sui sottoprodotti chiarimenti e un sito web, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2017, pag. 95.. In particolare, nella circolare esplicativa 30 maggio 2017, n. 7619, è stato chiarito che, in caso di sopravvenuta perdita delle caratteristiche di sottoprodotto, «la responsabilità della gestione del residuo come rifiuto ricadrà sul soggetto che si trova in possesso del medesimo immediatamente prima che diventi rifiuto». Se da un lato questa specificazione sembra affermare l’irretroattività - in termini di gestione operativa - delle responsabilità connesse al “declassamento” a rifiuto, dall’altro conferma la separazione di ruoli tra produttore e utilizzatore prevista dagli articoli 5, comma 1 e 8, comma 4, D.M. 264/2016. Sempre sul tema, la circolare specifica che «ogni soggetto che interviene durante la filiera sia tenuto alla dimostrazione dei requisiti richiesti dalla legge per la qualifica come sottoprodotto limitatamente a quanto sia nella propria disponibilità e conoscenza, non essendo esigibile una estensione degli oneri probatori a fasi rispetto alle quali il soggetto medesimo non ha possibilità di verifica e controllo»; in altre parole, la perdita delle condizioni per le quali si possa avere un sottoprodotto comporta la qualifica del detentore temporaneo come “produttore del rifiuto” e fa venire «meno la responsabilità dei detentori precedenti rispetto a eventi sopravvenuti e indipendenti dalla loro volontà ed attività». Questa specificazione, tuttavia, non è contenuta nella disciplina normativa e regolamentare di riferimento e, peraltro, si discosta fortemente da quanto previsto nella disciplina rifiuti, nella quale non si parla di responsabilità limitata «alla rispettiva sfera di competenza», ma di responsabilità “dalla culla alla tomba” che coinvolge indistintamente tutti i soggetti interessati dalla gestione (produttore, trasportatore, recuperatore o smaltitore).

Tornando al contesto normativo generale, la mancata emanazione di regolamenti ministeriali non preclude l’operatività del concetto di sottoprodotto; infatti, come dimostrano numerosi esempi oggetto di vaglio giurisprudenziale[21]A titolo esemplificativo si considerino: gli effluenti di allevamento (Tar Roma n. 3322/2022), il materiale ferroso (Cassazione penale n. 11065/2022), la pollina (sentenza del Tar Brescia n. 498/2015), il sale residuato dalla salagione delle carni riutilizzato per evitare la formazione di ghiaccio sulle strade (sentenza della Cassazione penale n. 7899/2014) e il fresato d’asfalto (sentenza del consiglio di Stato n. 4151/2013). , la sussistenza delle quattro condizioni previste alle lettere a-d) del comma 1 dell’art. 184-bis, costituisce presupposto necessario, ma sufficiente, per legittimare una gestione del residuo in deroga alla disciplina rifiuti. In termini operativi, tutte le volte in cui una società decide di modificare la gestione dei propri residui, abbandonando la qualifica di rifiuto in favore di quella di sottoprodotto, ferma la necessaria sussistenza delle condizioni richieste dall’art. 184-bis, è opportuno che formalizzi un punto zero (eventualmente anche in termini di permitting) e che garantisca una netta separazione tra il flusso dei sottoprodotti e quello dei rifiuti, anche presso gli eventuali soggetti terzi utilizzatori. La più recente modifica in tema di sottoprodotti è avvenuta a opera del D.Lgs. n. 116/2020 e ha integrato il comma 2 dell’art. 184-bis, dedicato alla possibile regolamentazione ministeriale del tema, prevedendo che i D.M. garantiscano «un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana favorendo, altresì, l’utilizzazione attenta e razionale delle risorse naturale dando priorità alle pratiche replicabili di simbiosi industriale». 

 

End of waste

Segue la disciplina del sottoprodotto quella dedicata all’end of waste, ovverosia al rifiuto che ha cessato di essere tale. Fino al 2010, l’ordinamento italiano disciplinava il rifiuto recuperato, che all’epoca prendeva il nome di «materia prima secondaria» (mps), all’art. 181-bis, abrogato dal D.Lgs. n. 205/2010. Nella versione oggi vigente, l’art. 184-ter recepisce tutte le condizioni dettate dall’art. 6 della direttiva 2008/98/Ce e riprende, quanto a struttura, quella dell’abrogato art. 181-bis, nonché dell’art. 184-bis in tema di sottoprodotto. Così, al comma 1 si trovano le quattro condizioni nel rispetto delle quali devono essere adottati i criteri specifici per aversi un rifiuto che cessa di essere tale a valle di un’operazione più o meno spinta di recupero, incluso il riciclaggio[22]Il D.Lgs. n. 116/2020 ha eliminato dal primo periodo del comma 1 il riferimento alla “preparazione per il riutilizzo”. Sembra pertanto esclusa la possibilità di ottenere end of waste all’esito di detta attività, anche se non risulta chiaro in quale altra categoria di qualificazione possa rientrare l’esito della preparazione per il riutilizzo. (vedere la tabella 2).

Rispetto alla disciplina precedente al 2010, la giurisprudenza di legittimità (si veda la sentenza della Cassazione penale n. 16423/2014) ha individuato tre principali differenze:

  • la modifica della terminologia, non esistendo più le “materie prime secondarie”, ma solo prodotti che cessano di essere rifiuti (il cosiddetto end of waste)[23]Si condivide, però, la tesi per la quale il concetto di materie prime seconde (Mps) resta attuale per effetto dei decreti ministeriali ancora in vigore e richiamati dall’art. 184-ter. ;
  • il venire meno della condizione che, oltre all’esistenza di un mercato e di una domanda per il prodotto, richiedeva anche il valore economico dello stesso (si veda anche la sentenza della Cassazione penale n. 24427/2011);
  • il fatto che l’operazione di recupero possa consistere nel controllo dei rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni.

Affinché un rifiuto cessi di essere tale non deve comunque venire meno il requisito materiale costituito dalla necessaria sottoposizione a un’operazione di recupero (sentenza della Cassazione penale n. 41075/2015 e, più recentemente, n. 36692/2019), che, dal 2010, può consistere anche «nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni»; tuttavia, trattandosi di attività di recupero, anche il mero controllo deve essere svolto da soggetto autorizzato (sentenza della Cassazione penale n. 16423/2014) nelle forme dell’autorizzazione integrata, ordinaria, semplificata o sperimentale. Affinché si abbia end of waste, il rifiuto sottoposto a un’operazione di trattamento (che dal 26 settembre 2020 non comprende più la preparazione per il riutilizzo[24]Il D.Lgs. n. 116/2020 ha, infatti, stralciato l’inciso dal primo comma dell’art. 184-ter.) deve poi essere riutilizzato nello stesso o in un altro ciclo produttivo e la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica[25]L’art. 216, comma 8-quater, prevede, infatti, che i rifiuti «cessano di essere considerati rifiuti agli utilizzi individuati». . Inoltre, l’assenza di effetti negativi su ambiente e salute, va accertata prima che il materiale venga utilizzato/commerciato come prodotto “primario” (Tar Venezia n. 124/2020).

Ai sensi del comma 2 dell’art. 184-ter, i criteri specifici sono individuati sulla base delle quattro condizioni e «in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria»[26]L’art. 6, comma 2 della direttiva rimanda a quanto previsto dall’art. 39 comma 2 della stessa direttiva, il quale, a sua volta, richiama la procedura di regolamentazione di cui alla decisione del Consiglio n. 1999/468/Ce recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione. . Allo stato attuale, malgrado i suggerimenti contenuti nella direttiva 2008/98/Ce[27]L’ultimo periodo dell’art. 6, comma 2 prevede che «criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero essere considerati, tra gli altri, almeno per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i pneumatici e i rifiuti tessili». , sono stati emanati solo tre regolamenti comunitari[28]Ai sensi dell’art. 216, comma 8-quater, D.Lgs. n. 152/2006, le attività di trattamento rifiuti disciplinate dai nuovi regolamenti, «sono sottoposte alle procedure semplificate a condizione che siano rispettati tutti i requisiti, i criteri e le prescrizioni soggettive e oggettive previsti dai predetti regolamenti [...]». :

  • regolamento 31 marzo 2011, n. 333/2011/Ue, recante «I criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio»;
  • regolamento 10 dicembre 2012, n. 1179/2012/Ue, recante «I criteri che determinano quando i rottami di vetro cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio»;
  • regolamento 25 luglio 2013, n. 715/2013/Ue, recante «I criteri che determinano quando i rottami di rame cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio».

Dall’entrata in vigore dei regolamenti Ue, il comma 8-sexies dell’art. 216 prevede un termine di sei mesi entro i quali le attività di recupero devono essere adeguate ai criteri comunitari[29]Il termine di sei mesi per l’adeguamento è stato definito sulla base del termine usuale di entrata in vigore delle fonti europee.. Restano, in ogni caso, ferme le quantità massime stabilite dalla disciplina nazionale. 

In mancanza di specifici criteri stabiliti a livello comunitario, gli Stati membri possono decidere con appositi decreti, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale. A livello nazionale, ai sensi dell’art. 184-ter, comma 2, sono stati a oggi adottati solo sei regolamenti:

  • il D.M. 14 febbraio 2013, n. 22 – «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (Css)»; 
  • il D.M. 28 marzo 2018, n. 69 in tema di «cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso»;
  • il D.M. 15 maggio 2019, n. 62 «Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto da prodotti assorbenti per la persona (Pap), ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152»[30]Per un commento A. Kiniger Prodotti assorbenti: i criteri per l’end of waste, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019. ;
  • il D.M. 31 marzo 2020, n. 78 in tema di «cessazione della qualifica di rifiuto della gomma vulcanizzata derivante da pneumatici fuori uso»[31]Per un commento A. Kiniger End of Waste: il Ministero disciplina il recupero della gomma vulcanizzata, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2020. ;
  • il D.M. 22 settembre 2020, n. 188 in tema di «cessazione della qualifica di rifiuto da carta e cartone»[32]Per un commento A. Kiniger Carta e cartone: pubblicate le regole per l’End of Waste, in Ambiente&Sicurezza n. 3/2021. ;
  • il D.M. 27 settembre 2022, n. 152 in tema di «cessazione della qualifica di rifiuto dei rifiuti inerti da costruzione e demolizione e di altri rifiuti inerti di origine minerale»[33]Sul tema si veda Butti, Peres, Kiniger e Balestreri End of waste per gli inerti: luci e ombre del nuovo decreto..

Altri decreti sono in fase di emanazione (come quello sui rifiuti da spazzamento stradale o sui rifiuti tessili) o sono sottoposti al vaglio consultivo del Consiglio di Stato. Nell’attesa, alcune autorità competenti hanno emanato linee guida per la gestione come end of waste di specifici rifiuti, aventi natura evidentemente cedevole rispetto a future regolamentazioni ministeriali o comunitarie[34]In questi termini si segnalano le “Linee guida per la gestione delle scorie nere di acciaieria a forno elettrico”, emanate dalla Regione Lombardia con D.g.r. 13 settembre 2021 n. XI/5224.. 

Al di fuori di quanto previsto dalle fonti comunitarie e nazionali, il comma 3 dell’art. 184-ter aveva previsto, fino al novembre 2019, un regime transitorio che negli ultimi anni è stato oggetto di un fervente dibattito interpretativo. Nella versione originaria, il comma 3 garantiva l’applicazione dei decreti contenenti le norme tecniche per il recupero semplificato (DD.MM. nn. 161/2002, 269/2005 e 5 febbraio 1998), nonché dell’art. 9–bis, lettera a) e b), D.L. n. 172/2008 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 210/2008), che considerava conformi ai criteri delle materie prime seconde (oggi end of waste) quanto previsto nelle «autorizzazioni rilasciate» in regime di recupero ordinario e integrato (Aia)[35]«[...]: a) fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 181-bis, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, le caratteristiche dei materiali di cui al citato comma 2 si considerano altresì conformi alle autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 210 del medesimo decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59». . A detta del ministero dell’Ambiente e del Tar Veneto (sentenza n. 1422/2016), in mancanza di regolamenti comunitari o decreti ministeriali in tema di end of waste, questa norma avrebbe dovuto comportare il potere e dovere dell’autorità competente, in sede di emanazione dei titoli autorizzativi, di valutare, caso per caso, la sussistenza delle quattro condizioni previste dall’art. 184-ter, comma 1 affinché un rifiuto potesse cessare di essere tale. Questa interpretazione è stata però osteggiata dal Consiglio di Stato (sentenza 28 febbraio 2018, n. 1229), secondo il quale il regime transitorio non permetteva alle autorità competenti di determinare “caso per caso” la cessazione della qualifica di rifiuto[36]Per un’analisi di dettaglio, si veda A. Kiniger, Criteri per l’end of waste, in arrivo un giro di vite?, in Ambiente&Sicurezza, n. 5/2018, p. 81. , trattandosi di competenza riservata allo Stato anche al fine di garantire una uniformità applicativa territoriale. In seguito alla sentenza del Consiglio di Stato, considerato il pregiudizio per il mercato italiano del recupero[37]Si veda A. Kiniger, End of Waste: tutto fermo ai blocchi di partenza, in Ambiente&Sicurezza n. 5/2019. , il legislatore è intervenuto con una successione di modifiche, alcune delle quali contestabili in quanto consideravano vincolanti i contenuti tecnici dei (superati) decreti sul recupero in forma semplificata[38]La legge n. 55/2019 di conversione, con modifiche, del D.L. n. 32/2019, il cosiddetto “sblocca cantieri” ha infatti previsto che in attesa dell’adozione di decreti ministeriali (e, ovviamente, di regolamenti comunitari), ogni attività di recupero, sia essa in regime semplificato, ordinario, <integrato o sperimentale, deve necessariamente riferirsi a quanto previsto nei D.M. 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002 n. 161 e 17 novembre 2005 n. 269. I risalenti decreti per le semplificate valgono pertanto quali riferimenti tecnici anche per il regime ordinario per quanto riguarda «tipologia, provenienza e caratteristiche dei rifiuti, attività di recupero e caratteristiche di quanto ottenuto da tale attività». Unica deroga all’obbligo di conformità ai tre decreti ministeriali riguarda i limiti alle quantità di rifiuti recuperabili, vincolanti solo per le autorizzazioni semplificate. La novella, come detto, ha scontentato molti. Su questo tema si veda A. Kiniger, End of waste indietro tutta in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.. Solo nel novembre 2019, la legge n. 129/2019 di conversione, con modifiche, del D.L. n. 101/2019, il cosiddetto decreto “crisi aziendali”, ha introdotto un’incisiva modifica dell’art. 184-ter[39]Su questo tema si veda A. Kiniger, End of waste: la possibilità di definire criteri specifici (o dettagliati) permette di rilanciare la circular economy in Ambiente&Sicurezza n. 11/2019.  che ha comportato:

  • la modifica della condizione sub a), nella quale l’inciso «comunemente utilizzato per scopi specifici» è stato modificato con «destinata/o a essere utilizzata/o per scopi specifici»[40]In conformità a quanto previsto dall’art. 1, punto 6), direttiva 2018/851/Ue. ;
  • un nuovo regime transitorio, in forza del quale, qualora non siano definiti end of waste con regolamenti comunitari o nazionali (decreti ministeriali), ai sensi del nuovo comma 3 dell’art. 184-ter i criteri specifici perché un rifiuto cessi di essere tale possono essere definiti nelle autorizzazioni ordinarie, sperimentali e integrate; 
  • la definizione da parte dell’autorità competente di questi criteri deve avvenire nel rispetto delle condizioni di cui all’articolo 6, paragrafo 1, direttiva 98/2008/Ce[41]Sovrapponibili a quelli previsti dall’art. 184-ter, comma 1., nonché sulla base di cinque criteri dettagliati (vedere la tabella 3);
  • la previsione, in una prospettiva di uniformità territoriale, di un procedimento successivo all’emanazione dell’autorizzazione volto a controllare, a campione, la conformità delle modalità operative e gestionali degli impianti agli atti autorizzatori rilasciati, nonché alle condizioni per aversi un rifiuto che cessa di essere tale; nella versione originaria, il procedimento prevedeva il coinvolgimento dell’Snpa, dell’autorità competente e del ministero e poteva comportare la revoca dell’autorizzazione; il D.L. 77/2021, convertito in legge 108/2021, ha però semplificato il procedimento prevedendo solo la verifica dell’Snpa e la redazione di una relazione tecnica, rispetto alla quale non sono però chiari i possibili destinatari e le correlate conseguenze procedimentali (vedere la figura 2);
  • l’istituzione presso il ministero della transizione ecologica un registro nazionale (REcer), attivo dal 30 settembre 2021 e nel quale sono raccolte tutte le nuove autorizzazioni rilasciate, rinnovate e riesaminate, nonché le procedure semplificate concluse, recentemente disciplinato con D.M. 21 aprile 2020[42]A. Kiniger, End of Waste: istituito il REcer, il registro nazionale per le autorizzazioni, in Ambiente&Sicurezza web, giugno 2020. ;
  • la creazione, presso il ministero della Transizione ecologica, di un gruppo di lavoro con lo scopo di avviare, velocizzare e concludere le istruttorie per la definizione con decreti relativi a criteri per la cessazione della qualifica come end of waste per specifiche tipologie di rifiuto.

Per bilanciare la semplificazione del procedimento relativo al controllo successivo delle autorizzazioni, il D.L. n. 77/2021, convertito in legge 108/2021, ha previsto la necessità di un parere obbligatorio e vincolante da parte dell’Ispra/Arpa, da rendersi nell’ambito dell’istruttoria per la definizione dei criteri specifici relativi alle autorizzazioni ordinarie, integrate e sperimentali[43]La novella non specifica alcun termine per la resa del parere e ciò potrebbe dare adito ad allungamenti procedimentali. Su questo tema vedere L. Butti, F. Peres, A. Kiniger e A. Balestreri Il “Semplificazioni-bis” è legge: cosa cambia per il D.Lgs. n. 152/2006, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2021.. Un tema di rilievo in merito al rifiuto che cessa di essere tale è costituito dalle linee guida Snpa emanate con delibera del consiglio n. 67/2020 e revisionate all’inizio del 2022 (n. 41/2022). Si tratta di criteri volti a uniformare l’attività del sistema nazionale, tanto nell’attività di controllo istituita, quanto nel supporto tecnico reso alle autorità competenti in fase istruttoria nel rilascio dell’autorizzazione (anche se l’emanazione di linee guida su quest’ultimo aspetto non è stata prevista dal legislatore). In termini di prassi, alcune amministrazioni competenti richiedono ai gestori in sede istruttoria tecnica di garantire la conformità impiantistica alle richiamate linee guida, nonostante - come detto – si tratti di criteri definiti unicamente per uniformare l’attività di Arpa e Ispra e non per stabilire criteri tecnici minimi che devono essere rispettati, indistintamente, da tutti i titolari di impianti di recupero[44]Per un approfondimento si veda A. Kiniger End of Waste: pubblicate le linee guida Snpa, in Ambiente&Sicurezza n. 5/2020. . Si segnala, infine, che, in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, all’art. 184-ter è stato inserito il nuovo comma 5-bis, relativo all’obbligo per la persona fisica o giuridica che per la prima volta utilizza o immette sul mercato un end of waste, di garantire il rispetto della disciplina sulle sostanze chimiche ed i prodotti (Reach). 

 

Il riutilizzo di prodotti e la preparazione per il riutilizzo di rifiuti

Tra i cardini della disciplina di prevenzione nella produzione dei rifiuti vi è il riutilizzo di prodotti; al gradino subito inferiore si trova, invece, la preparazione per il riutilizzo dei rifiuti. Nonostante si tratti di due tematiche centrali per realizzare la circular economy, dal 2010 a oggi non si sono registrate numerose prassi virtuose[45]Si segnala il DM 10 giugno 2016, n. 140 recante «criteri e modalità per favorire la progettazione e la produzione ecocompatibili di AEE, ai sensi dell’articolo 5, comma 1 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, di attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016, n. 171.. Per riutilizzo si intende «qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti». Nell’intenzione del legislatore, il riutilizzo permette di prevenire all’origine la produzione di rifiuti ed è strettamente correlato con la responsabilità estesa del produttore del bene nella parte in cui si richiede la produzione e commercializzazione di prodotti e componenti adatti all’uso multiplo, tecnicamente durevoli e facilmente riparabili (art. 178-bis, comma 3). L’obiettivo è permettere a prodotti e componenti di prodotto di continuare a essere utilizzati per la medesima finalità per la quale sono stati concepiti. Per incentivare queste pratiche, dal 2015 è prevista la possibilità per Ato e Comuni di individuare appositi spazi presso i centri di raccolta rifiuti:

  • per l’esposizione temporanea, finalizzata allo scambio tra privati, di beni usati e funzionanti direttamente idonei al riutilizzo;
  • per consentire la raccolta di beni da destinare al riutilizzo, «nel quadro di operazioni di intercettazione e schemi di filiera degli operatori professionali dell’usato autorizzati dagli enti locali e dalle aziende di igiene urbana» (art. 181 comma 6).

La preparazione per il riutilizzo riguarda, invece, prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti e comprende le operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione attraverso le quali i rifiuti sono preparati per essere reimpiegati senza altro pretrattamento. Considerato che il D.Lgs. n. 116/2020 ha eliminato il riferimento alla preparazione per il riutilizzo dal primo comma dell’art. 184-ter, si potrebbe ritenere che quest’attività non sia più idonea a produrre end of waste, anche se non sembra chiaro quale altro istituto possa essere legittimamente applicato.  Trattandosi di operazioni che intervengono sui rifiuti, le stesse devono in ogni caso essere autorizzate. In questi termini, il nuovo art. 214-ter prevede l’emanazione di un decreto ministeriale con il quale definire «le modalità operative, le dotazioni tecniche e strutturali, i requisiti minimi di qualificazione degli operatori necessari per l’esercizio delle operazioni di preparazione per il riutilizzo, le quantità massime impiegabili, la provenienza, i tipi e le caratteristiche dei rifiuti, nonché le condizioni specifiche di utilizzo degli stessi in base alle quali prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono sottoposti a operazioni di preparazione per il ritualizzo».

Nella formulazione del 2020 era previsto che, una volta che il decreto fosse stato emanato, le attività di preparazione per il riutilizzo potessero essere avviate mediante segnalazione certificata di inizio di attività (Scia). Sempre in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue del 30 maggio 2018 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti, all’allegato C alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006 è stato specificato che la preparazione per il riutilizzo rientra nei codici di recupero R3, R4 ed R5. Il decreto “semplificazioni-bis” ha modificato il regime autorizzativo eliminando la Scia e prevedendo che, una volta emanato il D.M., le attività di preparazioni per il riutilizzo potranno essere avviate successivamente alla verifica e al controllo dei requisiti effettuati dalle province ovvero dalle Città metropolitane territorialmente competenti[46]In uno schema di decreto di modifica della disciplina rifiuti in fase di approvazione è prevista l’introduzione di un termine di 90 giorni dalla presentazione di una comunicazione di inizio attività, entro il quale le autorità competenti potranno verificare il possesso dei requisiti richiesti e decorso il quale le operazioni di preparazione per il riutilizzo in forma semplificata potranno essere avviate. .

 

Le diverse tipologie di rifiuti

L’art. 184 classifica i rifiuti in urbani e speciali a seconda della loro origine e, sulla base delle caratteristiche di pericolosità, distingue i rifiuti pericolosi da quelli che pericolosi non sono. In particolare, fino al settembre 2020 i commi 2 e 3 dell’art. 184 riportano l’elencazione non derogabile (sentenza della Corte costituzionale n. 101/2016) dei singoli flussi di rifiuti che rientravano, rispettivamente, nella categoria degli urbani e in quella degli speciali[47]In tema di assimilazione comunale di rifiuti speciali non pericolosi agli urbani si veda la sentenza del Tar Puglia – Lecce, n. 351/2018. . In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, il D.Lgs. n. 116/2020 ha però inspiegabilmente spostato l’elencazione dei rifiuti urbani alla lettera b-ter) dell’art. 183, in tema di definizioni, norma oggi espressamente richiamata dall’art. 184 comma 2 (vedere la tabella 4).

A chiusura dell’elencazione, parzialmente rivisitata (vedere le parole in grassetto nella tabella 4), il nuovo art. 183, comma 1, lettera b-ter) specifica che i rifiuti urbani non includono i rifiuti della produzione, dell’agricoltura, della silvicoltura, della pesca, delle fosse settiche, delle reti fognarie e degli impianti di trattamento delle acque reflue, ivi compresi i fanghi di depurazione, i veicoli fuori uso o i rifiuti da costruzione e demolizione. 

Il comma 3 dell’art. 184 riporta invece l’elencazione dei rifiuti speciali (vedere la tabella 5), anch’essa parzialmente rivisitata (vedere le parole in grassetto nella tabella 5). 

La classificazione come urbano o speciale rileva ai fini della gestione del rifiuto[48]In relazione agli stabilimenti di tritovagliatura e imballaggio rifiuti (Stir) campani si è affermato che i rifiuti urbani sottoposti a trattamento (cosiddetta “tritovagliatura”) non perdono la loro qualifica e che, pertanto, nonostante l’attribuzione del codice 19, «continuano ad essere assoggettati al regime dei rifiuti urbani ai soli fini dello smaltimento, mentre tale vincolo non opera qualora siano conferiti ad impianti di recupero o avviati a operazioni finalizzate al recupero» (consiglio di Stato n. 5242/2014)., con particolare riferimento alla sottoposizione al ciclo integrato di raccolta rifiuti. In questi termini rilevava la disciplina dei rifiuti speciali assimilati agli urbani, che ha subito importanti modifiche in sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue: se in precedenza l’assimilabilità era rimessa alla regolamentazione comunale o a specifiche convenzioni, ai sensi di quanto previsto dal D.Lgs. n. 116/2020, di assimilazione non si parla più (il decreto “semplificazioni-bis” ha espunto dalla parte IV tutti i riferimenti a questo concetto) e i rifiuti possono essere alternativamente urbani o speciali. In questi termini, dal 1° gennaio 2021 rientrano tra i rifiuti urbani anche i rifiuti (indifferenziati o differenziati) simili per natura e composizione ai rifiuti domestici indicati nel nuovo allegato L-quater (vedere la tabella 6) prodotti dalle attività riportate nel nuovo allegato L-quinquies (vedere il box 3) alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006.

Per individuare i rifiuti che rientrano in questa nuova categoria di rifiuti (corrispondente ai precedenti rifiuti speciali assimilati agli urbani) occorre, pertanto, incrociare le tipologie di rifiuti previste nell’allegato L-quater, con le attività elencate nell’allegato L-quinquies.

La nuova disciplina sta creando più di una perplessità tra gli operatori del settore. Si richiamano le due principali:

  • innanzitutto, alcune attività potrebbero vedere qualificati ex lege come urbani propri rifiuti in precedenza gestiti come speciali, con tutte le correlate conseguenze in tema di Tari e di gestione degli stessi. Al riguardo, deve però essere ricordato che ai sensi del nuovo art. 198, comma 2-bis), «le utenze non domestiche possono conferire al di fuori del servizio pubblico i propri rifiuti urbani previa dimostrazione di averli avviati al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi», anche se non è chiaro quale debba essere il contenuto della attestazione richiesta;
  • in secondo luogo, ci si domanda come debbano essere gestiti i rifiuti speciali in precedenza assimilati agli urbani dai regolamenti comunali e oggi non più ricompresi nei due allegati menzionati. Tra questi rilevano, per quantità e diffusione, i rifiuti industriali. In determinate circostanze, l’attività industriale potrebbe essere considerata analoga alle attività artigianali di produzioni di beni (previste al punto 20), con la conseguente applicabilità della specificazione contenuta nella parte finale dell’allegato L-quinquies, ai sensi della quale «attività non elencate, ma ad esse simili per loro natura e per tipologia di rifiuti prodotti, si considerano comprese nel punto a cui sono analoghe». Recenti indicazioni ministeriali[49]Per un approfondimento v. A. Kiniger e A. Balestreri, Rifiuti ex assimilati e Tari novità e criticità operative, in Ambiente&Sicurezza n. 7/2021. confermate anche dalla giurisprudenza amministrativa[50]La prima pronuncia in tal senso è stata quella del Tar Cagliari n. 893/2021. Su questo aspetto v. anche TAR Milano n. 1953/2022. , hanno però confermato che per determinare il regime di gestione applicabile ai rifiuti industriali, è necessario distinguere i rifiuti della produzione e delle attività a essa funzionalmente collegate (magazzino materie prime e prodotti finiti), che hanno sempre qualifica di speciali, dagli altri rifiuti prodotti nei siti industriali (uffici, mense eccetera), che sono sempre urbani.

Particolari modalità di gestioni sono poi previste per alcuni singoli flussi di rifiuti; a titolo esemplificativo, si ricorda che, per i produttori di rifiuti speciali derivanti dalle attività di demolizione e costruzione, l’art. 190, D.Lgs. n. 152/2006 esclude la necessità di tenuta dei registri di carico e scarico. Allo stesso modo, in forza di quanto previsto dal comma 5-quater dell’art. 184, l’obbligo di etichettatura e di tenuta dei registri di carico e scarico non si applica ai rifiuti pericolosi prodotti da nuclei domestici, «fino a che siano accettat per la raccolta, lo smaltimento o il recupero da un ente o un’impresa […]».

Per quanto riguarda la distinzione tra rifiuti pericolosi e non pericolosi e, più in generale, le attività volte alla classificazione dei rifiuti, dal 1° giugno 2015 sono in vigore due importanti fonti europee[51]La nuova disciplina si è resa necessaria perché dal 1° giugno 2015 è diventato pienamente operativo il regolamento Clp (regolamento Ce n. 1272/2008 relativo alla classificazione, etichettatura e imballaggio delle sostanze e delle miscele). Il provvedimento non si applica direttamente ai rifiuti, ma, essendo innovativo per quanto riguarda la pericolosità chimica, incide indirettamente anche sulla disciplina rifiuti. Si veda lo Speciale pubblicato su Ambiente&Sicurezza n. 11/2015. :

  • il regolamento n. 2014/1357/Ue del 18 dicembre 2014;
  • la decisione n. 2014/955/Ue del 18 dicembre 2014, che modifica la precedente decisione 2000/532/Ce, introducendo un nuovo elenco europeo dei rifiuti.

Il regolamento n. 2014/1357/Ue ha riscritto l’allegato III alla direttiva 2008/98/Ce in tema di caratteristiche di pericolo dei rifiuti, aggiornando la disciplina al nuovo regolamento Clp[52]Si veda la nota precedente.. Tra le principali novità si ricordano:

  • la modifica delle sigle di pericolo che vengono rinominate HP in luogo della precedente H;
  • la modifica di molte definizioni delle caratteristiche di pericolo;
  • la modifica delle descrizioni e l’introduzione di prescrizioni tecniche per ciascuna caratteristica HP, con precisi e numerosi limiti cui fare riferimento e maggiore coordinamento con i codici di classe e le categorie di pericolo delle sostanze di cui al regolamento Clp;
  • l’introduzione della possibilità, in precedenza prevista solo limitatamente, in caso di superamento dei limiti di concentrazione, di escludere la pericolosità laddove test specifici accreditati ne dimostrino l’assenza.

Contestualmente al regolamento n. 2014/1357/Ue, è entrata in vigore anche la decisione n. 2014/955/Ue, contenente il nuovo elenco europeo dei rifiuti, che riporta il nuovo, e solo parzialmente aggiornato, elenco dei codici Eer (elenco europeo rifiuti). Le principali novità hanno riguardato la parte introduttiva, relativa all’assegnazione del codice, che richiama espressamente il regolamento Clp, le nuove caratteristiche HP e i relativi valori soglia e limiti di concentrazione.

Sia il regolamento che la decisione sono atti vincolanti dell’Unione europea, direttamente applicabili negli Stati membri e prevalenti rispetto a eventuali disposizioni nazionali contrastanti[53]La circolare del ministero dell’Ambiente 25 settembre 2015, n. 0011719/Rin, indirizzata alle regioni ha ribadito che «dal 1° giugno 2015 il regolamento e la decisione trovano piena ed integrale applicazione nel nostro ordinamento giuridico e che, di conseguenza, a decorrere dalla medesima data, gli allegati D ed I del suddetto decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, non risultano applicabili, laddove essi risultino in contrasto con le suddette disposizioni dell’Unione Europea».. Per coordinare il diritto nazionale con quello comunitario, il D.Lgs. n. 116/2020, prima, e il decreto “semplificazioni-bis”, poi, hanno interamente sostituito l’allegato D alla parte IV, D.Lgs. n. 152/2006, adeguando le regole per la corretta attribuzione del codice Eer a quanto previsto dalla disciplina comunitaria.

L’attribuzione del corretto codice Eer è centrale nell’ambito della classificazione del rifiuto e può costituire il discrimine di pericolosità dello stesso. L’elenco dei codici Eer non è sempre chiaro e, soprattutto, non è esaustivo (si ricorda che l’elencazione dei codici rifiuti non è nata per distinguere ex lege ciò che è rifiuto da ciò che non lo è, bensì per introdurre nella comunità una mera nomenclatura comune agli stati membri[54]«Il catalogo vuole essere una nomenclatura di riferimento con una terminologia comune per tutta la Comunità allo scopo di migliorare tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti. A questo riguardo, il catalogo europeo dei rifiuti dovrebbe diventare il riferimento di base del programma comunitario di statistiche sui rifiuti lanciato con la risoluzione del Consiglio, del 7 maggio 1990, sulla politica relativa alla gestione dei rifiuti» (nota introduttiva all’allegato alla decisione della Commissione europea 20 dicembre 1993, n. 94/3/Ce).). 

Da un punto di vista operativo, per attribuire il corretto codice Eer deve essere necessariamente identificata la fonte che genera il rifiuto[55]«La classificazione dei rifiuti è disciplinata dalle disposizioni di seguito richiamate, ma l’attribuzione del relativo codice CER è determinata dalla effettiva origine del rifiuto, che necessita talvolta, come pure si dirà, di accertamenti analitici, [...]. Come è noto, la classificazione dei rifiuti pericolosi mediante codice CER avviene in base all’origine ed alla composizione del rifiuto, nel qual caso il codice è contraddistinto dalla presenza di un asterisco. Nel caso in cui siano invece presenti nell’elenco di cui all’Allegato D alla Parte Quarta del d.lgs. n. 152 del 2006 le c.d. voci specchio, va effettuata la verifica delle caratteristiche di pericolo in base alla concentrazione di determinate sostanze» (sentenza della Cassazione penale n. 10937/2013)., consultando i capitoli da 01 a 12 o da 17 a 20 dell’elenco dei codici Eer (vedere la figura 3); dall’attività nel corso della quale è prodotto il rifiuto si risale, così, al codice a sei cifre riferito allo specifico rifiuto in questione (ad eccezione dei codici dei suddetti capitoli che terminano con le cifre 99). In seguito:

  • se nessuno dei codici dei capitoli da 01 a 12 o da 17 a 20 si presta per la classificazione di un determinato rifiuto, occorre poi esaminare i capitoli 13, 14 e 15 per identificare il codice corretto;
  • se anche nessuno di questi codici risulta adeguato, occorre definire il rifiuto utilizzando i codici (residuali) del capitolo 16;
  • in ultimo, se un determinato rifiuto non è classificabile neppure mediante i codici del capitolo 16, occorre utilizzare il codice generico 99 (rifiuti non specificati altrimenti) preceduto dalle cifre del capitolo che corrisponde all’attività identificata nella prima fase.

 

È, infine, possibile che un determinato impianto o stabilimento debba classificare le proprie attività in capitoli diversi, laddove ciascuna attività corrisponda a diverse voci, costituendo, comunque, sempre la provenienza, il principale criterio discretivo per individuare la specifica categoria. Qualora, invece, due o più codici Eer possano considerarsi in astratto applicabili a un determinato rifiuto, l’analisi delle prassi operative, dell’eventuale letteratura scientifica e – in subordine – l’effettuazione di analisi sul rifiuto, possono costituire validi elementi per la corretta attribuzione.

Quanto alla potenziale pericolosità, l’individuazione del codice Eer può portare a diverse conclusioni:

  • se il codice Eer del rifiuto, individuato secondo i criteri precedenti, presenta un asterisco (*) e non si tratta di un “codice a specchio”, il rifiuto è da presumersi pericoloso in assoluto. In questo caso, le analisi avranno la principale finalità di individuare la caratteristica di pericolo (da HP1 ad HP15) da attribuire al rifiuto ai fini della corretta gestione, ma non di valutarne la pericolosità o meno; come ha ricordato la Cassazione penale (16849/2021), in questi casi la valutazione sulla pericolosità di rifiuti da demolizione contenenti amianto in tracce è già stata effettuata ex ante dal D.Lgs. n. 152/2006 e, quindi, prescinde dalla necessità di accertare la pericolosità del materiale in concreto. L’accertamento relativo alla presenza di tracce di amianto in rifiuti da costruzione e demolizione, quindi, «è di per se sufficiente alla qualificazione del rifiuto come pericoloso»;
  • laddove, invece, il codice Eer del rifiuto non presenti un asterisco (e non si rientri nella casistica dei “codici a specchio”), lo stesso è considerarsi non pericoloso in assoluto, senza necessità di ulteriori indagini o analisi;
  • qualora, infine, sussista la medesima descrizione del rifiuto sia come non pericoloso che come pericoloso, seppur con diversi codici Eer, si parla di cosiddetti “codici a specchio” e la pericolosità – o meno – potrà essere accertata attraverso specifiche analisi per verificare il superamento dei limiti di pericolosità. L’indagine dovrà essere svolta con riferimento alle “sostanze pertinenti”, vale a dire quelle potenzialmente presenti nel rifiuto in relazione al processo produttivo che lo ha generato.

Sul tema della pericolosità, si ricorda infatti che, con tre distinte ordinanze del 27 luglio 2017[56]Sezione III, nn. 37460, 37461 e 37462., la corte di Cassazione penale ha disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue in tema di:

  • classificazione dei rifiuti con voci speculari;
  • metodiche per la ricerca delle sostanze pericolose;
  • ricerca, effettiva o presuntiva, delle sostanze pericolose;
  • gestione precauzionale come rifiuto pericoloso in caso di dubbio o impossibilità di individuare con certezza le sostanze pericolose.

Con la sentenza 28 marzo 2019 (cause C487 e C489/17), la Corte di giustizia ha risposto confermando, nella sostanza, la tesi della probabilità, secondo la quale, per compiere correttamente la classificazione non è necessario, sempre e comunque, verificare analiticamente la presenza di tutte le sostanze pericolose esistenti e determinarne la concentrazione (in questo senso anche Cassazione penale n. 2577/2019). Al contrario, vanno ricercate e analizzate soltanto le sostanze potenzialmente presenti nel rifiuto, applicando il criterio di “pertinenza” delle sostanze rispetto alle caratteristiche e alla genesi del rifiuto stesso. A detta della Corte, infatti, «l’allegato III della direttiva 2008/98 nonché l’allegato della decisione 2000/532 devono essere interpretati nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento n. 440/2008 o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale». Quanto alla gestione precauzionale come rifiuto pericoloso, la Corte ha bilanciato il principio di precauzione con quello di fattibilità tecnica e praticabilità economica, «in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze»[57]Per un approfondimento vedere L. Butti e F. Peres, Classificazione dei rifiuti: cosa dice la sentenza della Corte di Giustizia Ue, in Ambiente&Sicurezza n. 6/2019 (orientamento poi recepito dalla Cassazione penale nella sentenza n. 47288/2019). Sempre in tema di caratteristiche di pericolo, il regolamento n. 2017/997/Ue definisce nell’allegato III alla direttiva 2008/98/Ce le nuove condizioni per classificare un rifiuto pericoloso di tipo “HP 14 ecotossico"[58]Rispetto a questa caratteristica di pericolo si ricorda che il considerando 7 del regolamento n. 1357/2014/Ue aveva precisato che «per garantire l’adeguata completezza e rappresentatività anche per quanto riguarda le informazioni sui possibili effetti di un allineamento della caratteristica HP 14 “ecotossico” con il regolamento (CE) n. 1272/2008, è necessario uno studio supplementare».. Il regolamento, menzionato dall’art. 9, D.L. n. 91/2017, già richiamato, è applicabile dal 5 luglio 2018[59]Il dossier del servizio studi del Senato A.S. n. 2860, relativo alla conversione in legge del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91, recante disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno ha specificato che «Tali disposizioni europee, essendo contenute in atti che hanno diretta applicazione nell’ordinamento nazionale, sono entrate in vigore alla data prevista negli atti citati, vale a dire il 1° giugno 2015. Le modifiche operate dal regolamento (UE) n. 2017/997 invece, per quanto disposto dall’art. 2 del medesimo provvedimento, saranno applicate a decorrere dal 5 luglio 2018». e sostituisce la disciplina di cui all’allegato VI della direttiva 67/548/Cee[60]Su questo tema Ispra ha recentemente pubblicato la nota 8 agosto 2018 «Approccio metodologico per la valutazione della caratteristica di pericolo HP14 Ecotossico».. La caratteristica di pericolo “HP 9 infettivo” viene, invece, verificata in conformità al D.P.R. n. 254/2003. 

Da ultimo, si ricorda che anche il D.Lgs. n. 116/2020 è intervenuto in tema di classificazione, introducendo all’art. 184, comma 5 la previsione per la quale «[…] La corretta attribuzione dei Codici dei rifiuti e delle caratteristiche di pericolo dei rifiuti è effettuata dal produttore sulla base delle Linee guida redatte, entro il 31 dicembre 2020, dal Sistema nazionale per la protezione e la ricerca ambientale […]». Per espressa previsione normativa le linee guida devono essere approvate con decreto del ministero della Transizione ecologica, sentita la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Con decreto direttoriale 9 agosto 2021, n. 47, il Mite ha approvato, integrandole, le (nuove) linee guida Snpa sulla classificazione dei rifiuti (delibera del Consiglio Snpa 18 maggio 2021, n. 105), che da quella data costituiscono - di conseguenza e per quanto in esse disposto – riferimento vincolante per la corretta attribuzione del codice Eer e delle eventuali caratteristiche di pericolo (vedere la figura 4).

La responsabilità e gli obblighi di produttori e detentori di rifiuti

Il produttore di rifiuti è «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)» [art. 183, comma 1, lettera f)]. Mentre la nozione di “nuovo produttore” non incontra, né ha mai incontrato, particolari criticità interpretative (si veda la sentenza del Tar Veneto n. 772/2016), quella di “produttore iniziale”, invece, soprattutto se riferita ai contratti di appalto, è stata oggetto di un fervente contrasto interpretativo. La legge n. 125/2015 ha poi aggiunto l’inciso «e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione»[61]L’inciso era originariamente previsto dall’art. 1, D.L. n. 92/2015 (poi decaduto per mancata conversione in legge). La modifica è stata però adottata con la legge n. 125/2015 (in Gazzetta Ufficiale del 14 agosto 2015, n. 188), di conversione del D.L. n. 78/2015 («Misure finanziarie enti territoriali»). , rendendo la nozione ancora più controversa. Prima della modifica, la giurisprudenza aveva proposto due interpretazioni contrapposte:

  • il committente non è mai il produttore del rifiuto (lo produce l’appaltatore con la sua attività materiale)[62]Sentenze della Cassazione penale n. 15165/2003, n. 40618/2004, n. 22760/2010, n. 35692/2011 e n. 19072/2012.;
  • il committente è sempre produttore del rifiuto (eventualmente affiancato all’appaltatore)[63]Sentenze della Cassazione penale n. 5006/2007, n. 902/1999, n. 4957/2000 e n. 24347/2003; più recentemente, n. 12876/2019..

Con la modifica operata dalla legge n. 125/2015, il legislatore ha raggiunto una sintesi[64]In questo senso si veda anche F. Peres, Nuova nozione di produttore di rifiuti, prime riflessioni dopo la riforma, in Ambiente&Sicurezza n. 11/2015. , aderendo a un orientamento giurisprudenziale che aveva proposto una tesi intermedia[65]Sentenza della Cassazione penale n. 11029/2015: «l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, [...] è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare, come osservato in dottrina, casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto». : di regola il committente non è produttore; tuttavia, a determinate condizioni (ad esempio, se si ingerisce nella gestione dei rifiuti e se dà direttive all’appaltatore) può diventarlo (coerentemente, la nuova formulazione identifica come produttore anche colui al quale la produzione del rifiuto è «giuridicamente riferibile»[66]L’inciso relativo alla nuova nozione di produttore è poco chiaro. Nella relazione di accompagnamento al D.L. n. 92/2015, il legislatore dichiara di voler aderire, inserendo la nuova nozione in questione, all’orientamento giurisprudenziale «da ultimo ribadito» nella sentenza della Cassazione penale n. 5916/2015. Nella richiamata sentenza, la Cassazione rinvia a due diversi orientamenti relativi alla nozione di produttore: quello estensivo-generale secondo il quale il produttore di regola è sia l’appaltatore sia il committente, il proprietario e l’eventuale intestatario della concessione e quello estensivo-specifico, per cui di regola il produttore è solo l’appaltatore, mentre il committente può diventare produttore a determinate condizioni. Il secondo è quello «da ultimo ribadito». ). Per individuare nell’appaltatore l’unico produttore dei rifiuti continuano, pertanto, ad avere fondamentale rilevanza[67]Vedere le sentenze della Cassazione Penale nn. 39952/2019. requisiti quali:

  • la materiale attività di produzione del rifiuto da parte dello stesso;
  • la totale autonomia nella gestione del rifiuto;
  • gli accordi/previsioni contrattuali che specificamente e puntualmente individuino nell’appaltatore il soggetto che ha l’integrale onere di gestire il rifiuto (Cassazione penale n. 847/2020).

La centralità dell’ingerenza nell’appalto quale requisito per estendere anche al committente la qualifica di produttore del rifiuto è stata confermata anche dalla Cassazione penale nell’ordinanza n. 16975/2021.

Alla definizione di “produttore del rifiuto” si affianca poi quella di “detentore”, non controversa, che individua «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso» [art. 183 comma 1, lettera h)]. La giurisprudenza ha qualificato come detentore il soggetto che ha raccolto e commercializzato, ai fini di lucro, rifiuti prodotti da terzi, consegnandoli a un operatore professionale (sentenza della Cassazione penale n. 5719/2016); in termini di responsabilità, come il produttore, anche il detentore che affida i propri rifiuti a soggetti terzi privati, ha l’obbligo di controllare che gli stessi siano autorizzati e risponde a titolo di colpa nel reato di illecita gestione nel caso in cui ometta questa verifica (sentenza della Cassazione penale n. 3860/2015).

Sempre più frequente nella prassi è poi la nozione di intermediario, che individua qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi [art. 183 comma 1, lettera l)], sulla quale ricadono responsabilità legate alla corretta classificazione dei rifiuti e alla corretta qualificazione dei terzi in forza del principio della «vicendevole cooperazione» (Cassazione penale nn. 20734/2022 e 30582/2022). Anche in questo caso, le possibili declinazioni sono due:

  • l’«intermediario con detenzione» è il soggetto che dispone del rifiuto avendone la materiale disponibilità e che corrisponde alla figura del gestore, nelle possibili diverse declinazioni;
  • diversamente, chiunque gestisce il rifiuto prodotto da un terzo senza averne la detenzione, diventa «intermediario senza detenzione» e, come tale, deve essere iscritto alla categoria 8 dell’albo nazionale dei gestori ambientali (sentenza del Tar Venezia n. 2623/2009).

La responsabilità dei produttori e detentori di rifiuti è estesa per l’intera catena di gestione (sentenze della Cassazione penale n. 13025/2014 e Tar Veneto n. 1181/2013) e viene meno nelle ipotesi previste dal comma 4 dell’art. 188:

  • con il conferimento del rifiuto al servizio pubblico di raccolta;
  • a seguito del conferimento del rifiuto a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento, a condizione di disporre della quarta copia del formulario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero a condizione di aver trasmesso alla provincia, alla scadenza del predetto termine, una comunicazione di mancata ricezione del formulario.

Nella nuova formulazione dell’art. 188, introdotta con il D.Lgs. n. 116/2020, è ribadito che la consegna dei rifiuti a un soggetto che ne garantisce la gestione ai fini del trattamento non costituisce, per il produttore e il detentore, «esclusione automatica della responsabilità rispetto alle operazioni di effettivo recupero o smaltimento». In questa prospettiva, il nuovo comma 5, introdotto nel 2020, specificava che, in caso di destinazione dei rifiuti ad attività di raggruppamento (D13), ricondizionamento (D14) e deposito preliminare (D15), la responsabilità del produttore viene meno con la ricezione:

  • della quarta copia del Fir[68]Non sembra che la medesima disciplina trovi applicazione in caso di conferimento dei rifiuti ad attività di messa in riserva (R13).  e
  • dell’attestazione di avvenuto smaltimento, resa con autocertificazione dal titolare dell’impianto[69]Resta da chiarire se l’impianto che deve rendere questa attestazione sia quello che esegue le operazioni non definitive di smaltimento, ovvero l’impianto di trattamento finale. Considerando la ratio della norma e l’intenzione del legislatore l’attestazione dovrebbe essere resa dal titolare dell’impianto di smaltimento finale. In questo caso, tuttavia, si registrerebbero criticità legate alla privacy, alle possibili tempistiche massime di stoccaggio, nonché al diritto dei titolari dell’impianti intermedi di non fornire ai produttori dei rifiuti i nominativi degli impianti finali con i quali collaborano. . 

L’attestazione di avvenuto smaltimento, che riprendeva un concetto già noto nella disciplina previgente anche se mai formalmente adottato, avrebbe dovuto trovare applicazione fino a quando non fosse stato pienamente efficace il nuovo sistema di tracciabilità dei rifiuti - Rentri, nell’ambito del quale verrà comunque mantenuta una «comunicazione di avvenuto smaltimento». In sede di conversione in legge del decreto “semplificazioni-bis”(D.L.n.  77/2021) l’attestazione di avvenuto smaltimento è stata però eliminata prevedendo che delle fasi successive della gestione del rifiuto risponde il titolare dell’impianto intermedio. 

Il rifiuto deve in ogni caso essere consegnato «a soggetti autorizzati». A questo fine, si è precisato che i controlli sulle autorizzazioni sono di tipo formale (sentenza della Cassazione penale n. 26938/2013); si tratta cioè di verificare che l’autorizzazione/iscrizione:

  • sia stata rilasciata dalla autorità competente;
  • non sia palesemente contraffatta;
  • non sia vistosamente irregolare;
  • sia temporalmente valida;
  • consenta di trasportare/ricevere i rifiuti che si intendono conferire.

 

Il deposito temporaneo e i rifiuti da manutenzione

Il deposito temporaneo è l’unica forma di raggruppamento di rifiuti che non necessita di autorizzazione a patto che sia realizzato dal produttore e che siano rispettate le condizioni previste dalla disciplina di settore (sentenza della Cassazione penale n. 25333/2019). Trattandosi di ipotesi di deposito eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria, che prevede la necessità di un’autorizzazione, l’onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito grava sul produttore dei rifiuti che intende allestirlo (sentenza della Cassazione penale n. 16716/2019 e, più recente Cassazione penale n. 35410/2021). Qualora difetti anche solo una delle condizioni, non potrà parlarsi di deposito temporaneo e potranno venire in rilievo i concetti di «deposito incontrollato», «abbandono di rifiuti» e «discarica abusiva» (sentenza della Cassazione penale n. 8549/2018). Dal 1997 la disciplina del deposito temporaneo è sempre stata condensata nell’articolo dedicato alle definizioni, in particolare, dal 2006, all’art. 183, comma 1, lettera bb). In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, il legislatore ha scelto di dedicare al deposito temporaneo un articolo autonomo, il nuovo 185-bis. Dal punto di vista dei contenuti, la nuova formulazione non si discosta dalla precedente (Cassazione penale n. 24656/2021 e 25630/2022). Resta, infatti, la specificazione per la quale il deposito temporaneo deve avvenire «prima della raccolta», nonché le condizioni riguardanti gli inquinanti organici persistenti, il raggruppamento per categorie omogenee, l’imballaggio e l’etichettatura. Sono stati confermati anche i limiti temporali o quantitativi di deposito, pari – alternativamente (sentenza della Cassazione penale n. 42110/2019) - a: 

  • tre mesi, indipendentemente dalle quantità, ovvero 
  • 30 m3, di cui 10 di rifiuti pericolosi[70]Ai sensi dell’art. 23, DPR n. 120/2017, il criterio quantitativo per il deposito temporaneo dei rifiuti costituiti da terre e rocce da scavo (codici Eer 17.05.04 o 17.05.03*) è pari a 4.000 m3, di cui non oltre 800 m3 di rifiuti classificati come pericolosi. In ogni caso, il deposito temporaneo non può avere durata superiore a un anno., entro il termine massimo annuale[71]Si segnala che per fare fronte a criticità gestionali correlate al periodo emergenziale Covid-19, l’art. 113-bis, D.L n. 18/2020 aveva aumentato da 30 a 60 m3 (di cui al massimo 20 m3 di rifiuti pericolosi) il limite quantitativo per il deposito temporaneo, nonché a 18 mesi il termine massimo, in precedenza annuale, per l’avvio a trattamento. La novella, che non aveva inciso sul criterio temporale (quello dei 6 mesi) è stata però abrogata dalla legge n. 77/2020, di conversione del D.L. n. 34/2020 (cosiddetto “decreto rilancio”). .

Quanto al luogo di produzione, unica area nella quale può essere allestito il deposito temporaneo, il comma 1 del nuovo art. 185-bis prevede tre distinte ipotesi: 

1) l’intera area in cui si svolge l’attività[72]Resta confermata la possibilità, per gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile, di allestire il deposito presso un sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci.  che ha determinato la produzione dei rifiuti (sentenza della Cassazione penale n. 43422/2019);

2) i locali del punto vendita dei distributori, per quanto concerne i «rifiuti soggetti a responsabilità estesa del produttore, anche di tipo volontario»;

3) le aree di pertinenza dei punti di vendita dei relativi prodotti, nel caso di rifiuti da costruzione e demolizione nonché per le filiere di rifiuti «per le quali vi sia una specifica disposizione di legge».

Nelle ipotesi di cui ai punti 2) e 3), la nuova norma si riferisce al deposito preliminare alla raccolta, istituto mutuato dalla disciplina Raee e che rientra nel concetto di raccolta, ma che per il Mite deve essere considerato corrispondente al deposito temporaneo[73]Sempre il Ministero ha inoltre specificato che resta ferma la disciplina di tracciabilità ed autorizzazione ordinaria (FIR, registri, iscrizione all’Albo), dimenticando le criticità legate alla compilazione di un Formulario nel caso di destinazione di un rifiuto ad un deposito temporaneo non qualificabile come attività di trattamento. Per approfondimenti sul tema v. A. Kiniger, Novità sui rifiuti. I chiarimenti del Mite, in Ambiente&Sicurezza, n. 8/2021. . Per quanto non formalizzato nel testo della nuova disposizione, si deve ritenere confermata la possibilità di effettuare il deposito temporaneo anche in un luogo funzionalmente collegato a quello di produzione, come affermato dalla giurisprudenza[74]Su questo tema si veda, ex multis, la sentenza della Cassazione penale n. 4181/2018 e, più recentemente, n. 8498/2021 e n. 33633/2022.. Il nuovo articolo 185-bis si chiude con la specificazione (già prevista al comma 17 dell’art. 208) per la quale il rispetto delle condizioni previste dalla disciplina comporta che il deposito temporaneo «non necessita di autorizzazione da parte dell’autorità competente».

Una categoria di rifiuti strettamente collegata al concetto di deposito temporaneo è quella dei rifiuti da manutenzione, per i quali sono infatti previste specifiche deroghe nell’individuazione del luogo di produzione. Ai sensi dell’art. 230, i rifiuti «derivanti da attività di manutenzione alle infrastrutture, effettuata direttamente dal gestore dell’infrastruttura a rete e degli impianti per l’erogazione di forniture e servizi di interesse pubblico o tramite terzi» si considerano prodotti, alternativamente:

  • presso la sede del cantiere,
  • presso la sede locale del gestore dell’infrastruttura, ovvero
  • presso il luogo di concentramento, inteso quale area nella quale il materiale tolto d’opera, nel termine di 60 giorni dall’ultimazione di lavori, deve essere sottoposto a una valutazione tecnica «finalizzata all’individuazione del materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento».

Per lungo tempo non è stato chiaro se il materiale tolto d’opera dovesse essere trasportato nel luogo di concentramento con Fir ovvero con documento di trasporto. Il dubbio è stato risolto dal nuovo comma 20 dell’art. 193, dove si specifica che il trasporto avviene con Ddt e non con formulario. Analogamente ai rifiuti da manutenzione delle infrastrutture, quelli provenienti dalle attività di pulizia manutentiva delle reti fognarie (tra i quali il decreto “semplificazioni-bis” ha fatto rientrare anche i rifiuti delle fosse settiche, dei manufatti analoghi e di quelli funzionali al edifici isolati, nonché dei bagni mobili) si considerano prodotti dal soggetto che svolge l’attività[75]Il soggetto che svolge l’attività di pulizia manutentiva è comunque tenuto all’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali. e possono essere «conferiti direttamente ad impianti di smaltimento o recupero o, in alternativa, raggruppati temporaneamente presso la sede o unità locale del soggetto che svolge l’attività di pulizia manutentiva» (art. 230 comma 5). In termini di tracciabilità, con la delibera dell’Albo gestori ambientali n. 14/2021 è stato disciplinato il contenuto del documento di trasporto sostitutivo del Fir, da utilizzare per il trasporto dei rifiuti dal luogo di effettiva produzione al luogo di deposito temporaneo oppure all’impianto autorizzato al relativo smaltimento/recupero[76]Sul tema v. Kiniger e Balestreri, “Come gestire i rifiuti da manutenzione fognaria”, in questa rivista n. 4/2022, p. 37 e ss.. Il trasporto dal deposito temporaneo all’impianto di destino deve, invece, essere accompagnato dall’ordinario Fir ex art. 193, D.Lgs. n. 152/2006. Restando in tema di rifiuti da manutenzione, il D.Lgs. n. 116/2020 ha introdotto alcune novità anche in termini di tracciabilità. Così, il nuovo comma 19 dell’art. 193 dispone che i rifiuti derivanti da attività di manutenzione e piccoli interventi edili si considerano prodotti presso l’unità locale, sede o domicilio del manutentore, fermo restando che se i quantitativi sono limitati[77]In merito a questo concetto, nei chiarimenti del maggio 2021 il MiTE ha specificato che il dato normativo non si riferisce a quantitativi specifici, che dovranno pertanto essere valutati caso per caso. , tali da non giustificare l’allestimento di un deposito dove è svolta l’attività, «il trasporto dal luogo di effettiva produzione alla sede, in alternativa al formulario di identificazione, è accompagnato dal documento di trasporto (DDT) attestante il luogo di effettiva produzione tipologia e quantità dei materiali, indicando il numero di colli o una stima del peso o volume, il luogo di destinazione». Infine, i rifiuti provenienti da assistenza sanitaria domiciliare svolta al di fuori delle strutture sanitarie, si considerano prodotti presso l’unità locale, sede o domicilio dell’operatore che svolge queste attività; la loro movimentazione dal luogo dell’intervento fino alla sede di chi lo ha svolto, non configurando trasporto, non comporta l’obbligo di tenuta del Fir, né di iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali (art. 193, comma 18). 

 

La tracciabilità dei rifiuti

La tracciabilità in tema di rifiuti si declina in quattro principali adempimenti per le imprese: 

  • la tenuta dei registri di carico e scarico; 
  • l’adesione al registro nazionale di tracciabilità dei rifiuti (Rentri);
  • la compilazione del formulario identificativo del rifiuto (Fir); 
  • la comunicazione annuale del modello unico di dichiarazione ambientale (Mud). 

Come riportato al paragrafo "La responsabilità e gli obblighi di produttori e detentori di rifiuti", il D.Lgs. n. 116/2020 ha affiancato a queste quattro forme di tracciabilità anche l’attestazione di avvenuto smaltimento, applicabile tutte le volte in cui un rifiuto non viene destinato a smaltimento definitivo ma ad attività D13, D14, D15.

Entrando più nel dettaglio, sono tenuti ad annotare nei registri cronologici di carico e scarico le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti i seguenti soggetti:

  • chi effettua a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti; 
  • i commercianti;
  • gli intermediari di rifiuti senza detenzione;
  • le imprese e gli enti che effettuano operazioni di recupero e di smaltimento di rifiuti;
  • i consorzi istituiti per il recupero e il riciclaggio di particolari tipologie di rifiuti;
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi; 
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti da lavorazioni industriali [art. 184, comma 3, lettera c)];
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti da attività commerciali [art. 184, comma 3, lettera d)];
  • le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi [art. 184, comma 3, lettera g)].

Dal 26 settembre 2020 sono, invece, esonerati dall’obbligo di tenuta dei registri, oltre agli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 del codice civile (con un volume di affari annuo non superiore a euro ottomila) e le imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi (art. 212, comma 8), anche le imprese e gli enti produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che non hanno più di dieci dipendenti. Le formalità di annotazione avvengono sui registri di carico e scarico, utili anche ai fini della comunicazione annuale al catasto, numerati, vidimati dalle Camere di commercio e gestiti con le procedure e le modalità fissate dalla normativa sui registri Iva. In attesa della riforma collegata al registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti, i modelli di registri sono quelli previsti dal D.M. n. 148/1998. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 190 comma 1, le informazioni da annotare riguardano, per ogni tipologia di rifiuto, la quantità prodotta, la natura e l’origine, la quantità dei prodotti e materiali ottenuti dalle operazioni di trattamento quali preparazione per riutilizzo, riciclaggio e altre operazioni di recupero nonché, laddove previsto, gli estremi del formulario di identificazione del rifiuto (nuovo art. 190 comma 1). L’indicazione nei registri delle quantità di end of waste costituisce una novità introdotta con il D.Lgs. n. 116/2020, ma non ancora operativa, in attesa della revisione del nuovo modello di riferimento che sostituirà quello vigente di cui al D.M. n. 148/1998, come ha specificato il Mite nei chiarimenti del maggio 2021[78]A. Kiniger, Novità sui rifiuti. I chiarimenti del Mite, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2021.. Con l’operatività del Rentri, la tracciabilità di tutti i passaggi gestionali dovrebbe essere semplificata, anche in funzione dei nuovi modelli di registri che verranno adottati. Allo stato attuale, tuttavia, dovendo riferirsi ai modelli di cui al D.M. n. 148/1998, che non trattano espressamente di prodotti, sembra opportuno dare conto delle quantità di prodotti che esulano dal recupero utilizzando il campo annotazioni. In termini temporali, le annotazioni devono essere effettuate: 

  • per i produttori iniziali, almeno entro dieci giorni lavorativi dalla produzione del rifiuto e dallo scarico del medesimo; 
  • per i soggetti che effettuano la raccolta e il trasporto, almeno entro dieci giorni lavorativi dalla data di consegna dei rifiuti all’impianto di destino; 
  • per i commercianti, gli intermediari e i consorzi, almeno entro dieci giorni lavorativi dalla data di consegna dei rifiuti all’impianto di destino; 
  • per i soggetti che effettuano le operazioni di recupero e di smaltimento, entro due giorni lavorativi dalla presa in carico dei rifiuti.  

I registri devono essere conservati per tre anni (a tempo illimitato per gli impianti di discarica) presso ogni impianto o presso la sede operativa nel caso di imprese che effettuano attività di raccolta, trasporto, commercio e intermediazione di rifiuti. Esistono poi deroghe specifiche in favore dei siti dismessi e non presidiati, dei centri di raccolta, di chi effettua attività di manutenzione, dei produttori di rifiuti la cui produzione annua non eccede le 20 tonnellate di rifiuti non pericolosi e le 4 tonnellate di rifiuti pericolosi, nonché di chi effettua attività di gestione dei rifiuti costituiti da rottami ferrosi e non ferrosi.

Quando alla tracciabilità durante il trasporto, il cosiddetto decreto-legge “semplificazioni” (D.L. n. 135/2019), convertito, con modificazioni, nella legge n. 12/2019, ha soppresso il Sistri a fare data dal 1° gennaio 2019 e previsto il registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti (Rentri)[79]Per un commento alla novella si veda A. Kiniger e L. Tronconi Sistri: più che un addio un arrivederci in Ambiente&Sicurezza n. 3/2019. . Si tratta di un sistema ispirato a criteri di maggior efficacia, efficienza e semplicità, che sarà gestito direttamente dal ministero della Transizione ecologica con il supporto dell’Albo nazionale dei gestori ambientali. Il nuovo sistema di tracciabilità è già istituito ed è attualmente applicato in via sperimentale da operatori selezionati. Affinché sia pienamente operativo è, tuttavia, necessario attendere un decreto interministeriale che definirà le modalità di organizzazione e funzionamento del registro, le modalità di iscrizione, gli adempimenti cui saranno tenuti gli iscritti e gli importi dovuti. Una bozza di decreto ministeriale è stata recentemente trasmessa alla Commissione europea come notifica di norma tecnica. In attuazione di quanto disposto dall’articolo 188-bis del D.Lgs. n. 152/2006, il regolamento disciplinerà l’organizzazione e il funzionamento del nuovo sistema di tracciabilità dei rifiuti, aggiornando le procedure e gli adempimenti previsti in tema di Mud, registri di carico e scarico e formulari (vedere la tabella 7). 

Ai sensi dell’art. 6, comma 3, D.L. n. 135/2019, come convertito, saranno tenuti a iscriversi al nuovo registro i soggetti riportati nella tabella 8.

I soggetti non obbligati a iscriversi potranno aderire al registro su base volontaria. Il nuovo art. 188-bis, introdotto dal D.Lgs. n. 116/2020, al comma 3 dispone che il registro è articolato in:

  • una sezione “Anagrafica”, comprensiva dei dati sei soggetti iscritti e le informazioni relative alle specifiche autorizzazioni a questi rilasciate, e
  • una sezione “Tracciabilità”, che conterrà i dati ambientali relativi a registri di carico e scarico e formulari, nonché i dati relativi ai percorsi dei mezzi di trasporto rifiuti.
  • L’operatività del Rentri comporterà nuovi modelli digitali per registri di carico e scarico e Fir, che dovrebbero “dialogare” sia con i sistemi gestionali delle singole aziende che con il catasto nazionale, garantendo la precompilazione automatica del Mud. 
  • Fino alla operatività del Rentri, i soggetti precedentemente obbligati ad aderire al Sistri adottano le modalità cartacee di tracciabilità dei rifiuti, ferma la possibile adozione delle modalità telematiche di cui all’articolo 194-bis[80]L’art. 194-bis prevede la possibilità di tenere il registro di carico e scarico e il formulario identificativo dei rifiuti, di cui agli articoli 190 e 193, in formato digitale, nonché la facoltà di trasmettere a mezzo Pec la quarta copia del Fir.. Una volta che il Rentri sarà operativo, i soggetti che non vi aderiranno potranno continuare a utilizzare le modalità cartacee di tracciabilità, adottando però i nuovi e aggiornati format. 

Si ricorda, infine, che, come conseguenza della soppressione del Sistri, risultano abrogate dal 1° gennaio 2019 tutte le disposizioni collegate e/o dipendenti dal vecchio sistema, oggi in gran parte sostituite dal D.Lgs. n. 116/2020, e, in realtà, mai entrate in vigore. Il D.Lgs. n. 205/2010 ne aveva, infatti, condizionato l’efficacia alla piena operatività del Sistri, mai veramente avvenuta (sentenza della Cassazione penale n. 34525/2017). 

In attesa della operatività del Rentri, il formulario di identificazione del rifiuto (Fir) è un modulo numerato e vidimato, redatto in quattro esemplari sulla base del modello descritto nel D.M. n. 145/1998, dal quale devono risultare almeno i seguenti dati: 

  • nome e indirizzo del produttore e del detentore;
  • origine, tipologia e quantità del rifiuto; 
  • impianto di destinazione; 
  • data e percorso dell’istradamento; 
  • nome ed indirizzo del destinatario. 

La prima copia del formulario, compilata, datata e firmata dal produttore o dal detentore dei rifiuti resta a questo soggetto. Le altre tre, una volta controfirmate, sono acquisite dal destinatario (una copia) e dal trasportatore (due copie), che provvede a ritrasmettere la quarta copia al produttore/detentore. La trasmissione della quarta copia, che esonera il produttore da responsabilità, può essere sostituita dall’invio mediante posta elettronica certificata sempre che il trasportatore assicuri la conservazione del documento originale ovvero provveda, successivamente, all’invio dello stesso al produttore. Le copie del formulario devono essere conservate per tre anni (prima del D.Lgs. n. 116/2020 gli anni erano cinque).

Il nuovo art. 193, comma 17, D.Lgs. n. 152/2006 dispone che nella compilazione dei formulari ogni operatore sia responsabile delle informazioni inserite e sottoscritte nella parte di propria competenza e che il trasportatore non risponda per quanto indicato nel Fir dal produttore o dal detentore e per le eventuali difformità tra la descrizione dei rifiuti e la loro effettiva natura e consistenza, «fatta eccezione per le difformità riscontrabili in base alla comune diligenza». In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue è stata, inoltre, prevista la possibilità di sostituire i Fir vidimati con la stampa in duplice copia di formulari identificati da numero univoco e l’utilizzo di mere fotocopie (vedere il box 4).

Ultima modalità di tracciabilità dei rifiuti è la comunicazione annuale del modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) da parte dei medesimi soggetti obbligati alla tenuta dei registri di carico e scarico. Il modello, in particolare, contiene le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto delle predette attività, suddivise per ogni singola tipologia di gestione. Come già anticipato, ai sensi del nuovo art. 189, comma 9, il decreto ministeriale che disciplinerà il Rentri conterrà disposizioni per il coordinamento tra le comunicazioni Mud e gli adempimenti trasmessi al Rentri, «garantendone la precompilazione automatica» del modello.

 

La responsabilità del produttore del prodotto

Alla responsabilità del produttore del rifiuto e del detentore, dal 2010 si è affiancata la responsabilità estesa del produttore del prodotto (art. 178-bis, D.Lgs. n. 152/2006), che si riferisce a qualsiasi persona fisica o giuridica che professionalmente sviluppa, fabbrica, trasforma, tratta, vende o importa prodotti [art. 183, comma 1, lettera g)]. La direttiva 2008/98/Ce, nell’ottica della prevenzione, ha orientato gli Stati membri verso questa nozione «per incoraggiare una progettazione dei prodotti volta a ridurre i loro impatti ambientali e la produzione di rifiuti» (art. 8, comma 2). Coerentemente con la politica integrata dei prodotti (Ipp)[81]Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo 18.6.2003 COM (2003) n. 302. , il ruolo centrale deve essere assunto dal life-cycle thinking[82]Principio che mira a ridurre l’impatto ambientale complessivo dei prodotti (“dalla culla alla tomba”), cercando di evitare che singole iniziative incentrate su singole fasi del ciclo di vita si limitino a trasferire il carico ambientale su altre fasi. e la responsabilizzazione dei produttori dei beni deve permanere anche quanto i loro prodotti si trasformano in rifiuti[83]«Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni sul Sesto programma di azione per l’ambiente della Comunità europea “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” Sesto programma di azione per l’ambiente COM/2001/0031 def.».. Affinché la disciplina in tema di produttore del prodotto diventi effettiva, è necessario attendere l’adozione di uno o più decreti ministeriali (vedere il comma 1 dell’art. 178-bis), nei quali saranno individuate specifiche modalità e criteri (vedere la tabella 9).

A dieci anni dall’entrata in vigore della nuova disposizione, l’esecutivo non ha ancora declinato le specifiche caratteristiche di questa forma di responsabilità. Ciò però non preclude, in termini generali, la possibilità di realizzare prassi virtuose che prendano spunto da esempi già rodati (vedere la tabella 10). 

Si pensi alla gestione dei Raee, nella quale si è già da tempo concretizzato il pieno coinvolgimento e la responsabilizzazione diretta del produttore del bene, anche nella fase di gestione del rifiuto, allo scopo di garantire un recupero efficace ed effettivo[84]Sul punto, recentemente, si veda il D.M. n. 10 giugno 2016, n. 140, recante «Regolamento recante criteri e modalità per favorire la progettazione e la produzione ecocompatibili di AEE, ai sensi dell’articolo 5, comma 1 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, di attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)» (in Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016, n.171). ). Una forte accelerazione verso l’effettiva responsabilizzazione del produttore del prodotto è data dalla direttiva 2018/851/Ue. Il D.Lgs. n. 116/2020 ha infatti riscritto l’art. 178-bis e con esso i criteri e le modalità di attuazione della responsabilità estesa, nonché aggiunto il nuovo art. 178-ter che definisce i requisiti generali minimi della responsabilità. Obiettivo del legislatore è individuare con un decreto ministeriale, anche su istanza di parte[85]Uno schema di decreto legislativo di modifica della disciplina rifiuti, in fase di elaborazione, prevede l’eliminazione dal primo comma dell’art. 178-bis, dell’inciso che consente di avanzare al Ministero istanze volte all’istituzione di regimi di responsabilità. , regimi di responsabilità estesa del produttore che prevedano l’accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l’utilizzo, nonché la gestione, anche finanziaria, di questi rifiuti, favorendo la prevenzione, l’uso e il riciclaggio multipli. I requisiti e gli obblighi dei regimi di responsabilità estesa sono declinati dall’art. 178-ter, nel quale è disciplinato anche il contributo finanziario che dovrà essere versato dai produttori per la gestione, anche in forma collettiva, dei propri prodotti e dei rifiuti da essi derivanti. Al ministero della Transizione ecologica è demandata la vigilanza e il controllo sul rispetto degli obblighi derivanti dalla responsabilità estesa, nonché la gestione del registro nazionale dei produttori al quale i soggetti aderenti ai regimi di responsabilità dovranno iscriversi.

 

Le autorizzazioni e le iscrizioni ordinarie e semplificate

Per essere lecita, ogni attività di gestione di rifiuti deve essere autorizzata dall’autorità competente[86]«Ai fini della configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti, non rileva la qualifica soggettiva del soggetto agente bensì la concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalista» (sentenza della Cassazione penale n. 5716/2016).. Chiunque intenda avviare un’attività di recupero o smaltimento rifiuti, anche pericolosi, deve fare riferimento a una delle diverse tipologie di autorizzazioni previste dall’ordinamento. Analogamente, i soggetti diversi dal produttore che intendono gestire rifiuti prima del trattamento, devono disporre dell’iscrizione all’albo nazionale dei gestori ambientali. 

I principali regimi autorizzativi di gestione rifiuti sono quattro:

  • autorizzazione integrata ambientale, disciplinata nella parte seconda del D.Lgs. n. 152/2006;
  • autorizzazione unica, ex art. 208, D.Lgs. n. 152/2006;
  • autorizzazione di impianti mobili, ex art. 208, comma 15, D.Lgs. n. 152/2006;
  • autorizzazione semplificata, ex artt. 214 e 216, D.Lgs. n. 152/2006.

Entrando più nel dettaglio, l’ambito applicativo dell’Aia riguarda la gestione di impianti di recupero e smaltimento rifiuti, conformemente alla disciplina Ippc. Per individuare le attività sottoposte a questo regime è necessario fare riferimento alle condizioni e soglie riportate negli allegati VIII (per gli impianti di competenza regionale) e XII (per gli impianti di competenza statale) della parte II del D.Lgs. n. 152/2006. Con il D.Lgs. n. 46/2014[87]«Attuazione della Direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento)», in S.O. n. 27 alla Gazzetta ufficiale del 27 marzo 2014, n. 72., di recepimento della direttiva Ied (2010/75/Ue), è stato, per la prima volta, esteso l’ambito di applicazione della disciplina Ippc anche ad alcuni impianti di recupero rifiuti (vedere la tabella 11).

Il comma 2 dell’art. 208 prevede che l’Aia sostituisca l’autorizzazione unica ed elenca una serie di principi di coordinamento tra le due discipline. Rispetto alle procedure semplificate, invece, l’Aia ha valore sostitutivo «limitatamente alle attività non ricadenti nella categoria 5 dell’Allegato I del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 […]»[88]Si ritiene che l’inciso vada riferito alla categoria 5 dell’allegato VIII alla parte seconda.. Se un impianto di smaltimento o recupero rifiuti è fisicamente ricompreso in un’installazione sottoposta ad Aia, il comma 12-bis dell’art. 208 prevede che «il rinnovo, l’aggiornamento e il riesame dell’autorizzazione di cui al presente articolo sono disciplinati dal Titolo III-bis della Parte Seconda, previa estensione delle garanzie finanziarie già prestate». Per la disciplina generale in tema di Aia si rimanda al capitolo 2.

L’autorizzazione ordinaria ex art. 208 si applica in via residuale agli impianti che non rientrano nell’ambito applicativo Ippc ed è un regime che permette di ottenere, all’esito di un’attività istruttoria, un provvedimento autorizzativo perfettamente “aderente” all’attività specifica, soprattutto in termini prescrittivi. All’esito del procedimento previsto dall’art. 208, la Regione (o l’altro ente da questa individuato) rilascia l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dell’impianto, che ha natura di «autorizzazione ad ombrello»[89]«L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori» (art. 208, comma 6). (sentenza del Consiglio di Stato n. 1015/2018) e contiene le prescrizioni che il gestore deve rispettare per esercitare l’attività di recupero o di smaltimento. Le prescrizioni impartite devo garantire l’attuazione dei principi di cui all’art. 178[90]Ovverosia i «[...] principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga». , D.Lgs. n. 152/2006; per questo motivo, l’art. 208 comma 11 (come modificato dal D.Lgs. n. 205/2010), prevede un contenuto prescrittivo “minimo” (si veda la tabella 12).

Dall’inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione possono derivare sanzioni amministrative a carattere inibitorio (sentenza del Tar Lombardia – Milano n. 60/2017):

  • la diffida, in cui viene stabilito un termine entro il quale devono essere eliminate le inosservanze;
  • la diffida e la contestuale sospensione dell’autorizzazione per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente;
  • la revoca dell’autorizzazione, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino situazione di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente.

Le disposizioni dell’art. 208 si applicano anche per la realizzazione di varianti sostanziali in corso d’opera o di esercizio che comportino modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all’autorizzazione rilasciata (comma 19); l’autorizzazione ha una validità di dieci anni ed è rinnovabile a condizione che il gestore presenti formale domanda almeno centottanta giorni prima della scadenza; se questo termine è rispettato e l’autorità competente non provvede prima della scadenza del titolo, il gestore può proseguire l’attività fino alla decisione espressa, previa estensione delle garanzie finanziarie. 

Una particolare ipotesi di autorizzazione unica è quella prevista dal comma 15 dell’art. 208 per gli impianti mobili[91]L’art. 208, comma 15 manca di definire il concetto di impianto mobile; dallo stesso è nondimeno possibile di individuare almeno due elementi utili: 1) la contrapposizione con gli impianti non mobili, e quindi fissi; 2) la previsione del necessario svolgimento di «singole campagne di attività sul territorio nazionale», che lascia presumere una mobilità intesa sia come differente collocazione geografica che come precarietà di utilizzo (da intendersi come necessaria discontinuità).  con i quali si effettuano campagne di smaltimento o di recupero rifiuti. L’articolo in parola prevede un’autorizzazione rilasciata «in via definitiva» dalla Regione ove l’interessato ha la sede legale, valida per un solo impianto (sentenza del Tar Piemonte n. 171/2012); a questa deve fare seguito, almeno 20 giorni prima di ogni singola campagna di trattamento (termine ridotto, dai precedenti 60 giorni, dal D.L. n. 77/2021 convertito in legge n. 108/2021), l’invio di una comunicazione alla regione nel cui territorio si svolgerà l’attività; questa può adottare prescrizioni integrative oppure può vietare il trattamento con provvedimento motivato qualora lo svolgimento dello stesso non sia compatibile con la tutela dell’ambiente o della salute pubblica (sentenza del Tar Veneto n. 772/2016). Alla disciplina prevista dal comma 15 fanno eccezione «gli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano» e gli impianti che effettuano la «sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee»[92]Sentenza della Cassazione penale n. 21859/2011: «Sono assoggettati al procedimento autorizzatorio di cui all’art. 208, co. 15, D.Lgs. n. 152/2006 gli impianti mobili adibiti alla macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei materiali inerti prodotti da cantieri edili di demolizione, in quanto non possono essere considerati impianti che effettuano una semplice riduzione volumetrica e separazione di eventuali frazioni estranee, essendo invece impiegati per effettuare un’operazione di trattamento il cui principale risultato è quello di permettere il recupero dei residui ferrosi». . Si tratta di impianti che possono essere eserciti senza alcuna autorizzazione al trattamento.

Gli artt. 214-216, D.Lgs. n. 152/2006 disciplinano, con riguardo alle attività di smaltimento[93]In assenza dei decreti attuativi di cui all’art. 214 comma 2, quanto previsto dall’art. 215 in tema di autosmaltimento di rifiuti non pericolosi in regime semplificato, non trova oggi applicazione (sul punto si veda anche la sentenza della Cassazione penale n. 41290/2006).  e recupero di rifiuti, l’ammissione alle procedure autorizzatorie in regime semplificato. Dal 2013 questa autorizzazione è confluita nel campo di operatività dell’Aua (autorizzazione unica ambientale), disciplinata dal D.P.R. n. 59/2013[94]Si veda L. Butti, A. Kiniger, A. Balestreri, M. Molinaro, Autorizzazione Unica: novità e punti critici, in Ambiente&Sicurezza n. 12/2013, Per quanto riguarda la disciplina ed il procedimento di emanazione dell’Aua si veda il capitolo 2., ferma la facoltà per il gestore di non entrare nel procedimento unico nel caso in cui l’attività svolta sia soggetta alla sola comunicazione di cui agli artt. 214-216 (e non anche ad altri titoli tra quelli sostituiti dall’Aua) e ferma restando la presentazione della comunicazione per il tramite dello sportello unico delle attività produttive (Suap)[95]L’art. 3 comma 3, D.P.R. n. 59/2013 prevede, infatti, che «è fatta comunque salva la facoltà dei gestori degli impianti di non avvalersi dell’autorizzazione unica ambientale nel caso in cui si tratti di attività soggette solo a comunicazione, ovvero ad autorizzazione di carattere generale, ferma restando la presentazione della comunicazione o dell’istanza per il tramite del SUAP».. Quanto alla determinazione di tipologie, quantità e condizioni per l’ammissione al recupero semplificato, il riferimento è ancora il D.M. 5 febbraio 1998 per i rifiuti non pericolosi e il D.M. 12 giugno 2002, n. 161 per quelli pericolosi. 

Al netto della disciplina in tema di Aua (vedere il capitolo 2), il trattamento di rifiuti in regime semplificato può essere intrapreso decorsi novanta giorni dall’avvenuta comunicazione di inizio attività alla provincia competente per territorio. Alla comunicazione deve essere allegata una relazione nella quale dare conto del pedissequo rispetto dei decreti ministeriali[96]«Integra il reato previsto dall’art. 256, comma quarto, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 la mancata osservanza delle modalità di deposito e movimentazione dei rifiuti, e dei tempi di lavorazione, costituenti oggetto delle prescrizioni e cautele contenute nella comunicazione di inizio attività, necessaria per l’iscrizione nel registro delle imprese esercenti le operazioni di recupero di rifiuti in forma semplificata ai sensi degli artt. 214 e 216, del d.lgs. n. 152 del 2006» (sentenza della Cassazione penale n. 11495/2010).  quanto a «tipologia», «provenienza», «caratteristiche del rifiuto», «attività di recupero» e «caratteristiche delle materie prime e/o dei prodotti ottenuti»; lo stesso vale per le quantità massime di rifiuti pericolosi e non pericolosi che possono essere recuperate in ogni impianto. Ricevuta la comunicazione di inizio attività, la Provincia iscrive l’impresa in un apposito registro ed entro il termine di 90 giorni verifica d’ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti. 

Qualora sia accertato il mancato rispetto delle norme tecniche, ferme le responsabilità penali (sentenza della Corte di Cassazione penale n. 9132/2017), la provincia è vincolata all’adozione del provvedimento inibitorio (Tar Lecce n. 95/2022), a meno che il privato non provveda a conformarsi alla normativa vigente «entro il termine e secondo le prescrizioni stabiliti dall’amministrazione». Se il mancato rispetto delle norme tecniche è rilevato successivamente, la provincia deve far precedere la dichiarazione di inefficacia della comunicazione di rinnovo da una diffida con un termine per provvedere (Tar Lombardia – Milano n. 1694/2018). La comunicazione di inizio attività deve essere rinnovata ogni cinque anni e comunque in caso di modifica sostanziale dell’operazione di recupero; se compresa nell’Aua, la validità è di 15 anni[97]Se l’impianto è sottoposto ad autorizzazione unica ambientale (Aua) può profittare del termine di validità di quindici anni previsto dall’art. 3, comma 6, D.P.R. n. 59/2013..

Specifici provvedimenti abilitativi per l’esercizio delle attività di gestione rifiuti sono poi previsti dall’art. 212 in tema di:

  • raccolta e trasporto di rifiuti;
  • bonifica dei siti;
  • bonifica dei beni contenenti amianto;
  • commercio e intermediazione dei rifiuti senza detenzione.

Non si tratta di autorizzazioni, ma dell’iscrizione all’albo nazionale dei gestori ambientali, che abilita lo svolgimento delle attività (sentenze della Cassazione penale nn. 52632/2017, 31390/2018 e 1574/2020) e che deve essere rinnovata ogni cinque anni (la domanda di rinnovo deve essere presentata entro il termine di cinque mesi prima della scadenza della precedente iscrizione – sentenza del Tar Puglia – Lecce n. 1208/2018). Più nel dettaglio, l’iscrizione all’Albo gestori ambientali «è un requisito di natura soggettiva relativo alla idoneità professionale degli operatori […] e costituisce titolo indispensabile per l’esercizio dell’attività di raccolta e trasporti dei rifiuti conforme all’immanente principio di ragionevolezza e di proporzionalità […]» (Tar Catanzaro n. 102/2020). L’iscrizione è rilasciata dalla sezione regionale dell’albo della Regione dove ha sede legale l’impresa interessata[98]Avverso i provvedimenti delle sezioni regionali dell’albo gli interessati possono proporre, nel termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica dei provvedimenti stessi, ricorso al comitato nazionale dell’albo. ed è subordinata alla prestazione di idonee garanzie finanziarie a favore dello Stato[99]Per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi, per l’attività di intermediazione e di commercio dei rifiuti senza detenzione dei medesimi. o della Regione territorialmente competente (per ogni intervento di bonifica, anche di amianto); gli importi sono ridotti del cinquanta per cento per le imprese registrate ai sensi del regolamento Emas e del quaranta per cento nel caso di imprese certificate Uni En Iso 14001. Devono essere iscritte all’albo anche le imprese e gli operatori logistici attivi nell’ambito del trasporto intermodale. Per le aziende speciali, i consorzi di comuni e le società di gestione dei servizi pubblici, l’iscrizione segue la comunicazione effettuata dal comune o dal consorzio di comuni alla sezione territorialmente competente dell’Albo ed è valida per i servizi di gestione dei rifiuti urbani prodotti nei comuni medesimi. Sono, invece, esonerate dall’obbligo d’iscrizione, limitatamente all’attività di intermediazione e commercio senza detenzione di rifiuti, determinate organizzazioni di filiera[100]Quelle di cui agli articoli 221, comma 3, lettere a) e c), 223, 224, 228, 233, 234, 235 e 236, al decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188, e al decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151.; sono, infine, previste discipline peculiari per gli imprenditori agricoli, i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti e i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno.

Le discariche e gli inceneritori

Le principali attività di smaltimento di rifiuti avvengono in discariche e inceneritori. Il D.Lgs. n. 152/2006 contiene la disciplina dell’incenerimento di rifiuti solo dal 2014 e rimanda, invece, ancora, al D.Lgs. n. 36/2003 la disciplina delle discariche (art. 182, comma 5). Nel testo unico ambientale sono, nondimeno, presenti disposizioni che regolano a livello programmatico e di principi la più generale attività di smaltimento, definita come il trattamento che non costituisce recupero («anche quando l’operazione ha come conseguenza secondaria il recupero di sostanze o di energia») e che trova nell’allegato B alla parte IV un elenco non esaustivo di attività (vedere la tabella 13). Lo smaltimento rappresenta dell’opzione ambientale che dal 2010 chiude la gerarchia della gestione di rifiuti e che, come tale, deve avere applicazione residuale; principio, questo, ribadito anche dall’art. 182, comma 1, dove lo smaltimento è subordinato alla «previa verifica, da parte della competente autorità, della impossibilità tecnica ed economica di esperire le operazioni di recupero».

Tra i principi generali per il conferimento in discarica, l’art. 182 comma 2 – norma non modificata dal recente D.Lgs. n. 116/2020 - individua quello della massima riduzione in massa e in volume dei rifiuti; il comma 3 afferma poi il divieto di smaltimento extraregionale dei rifiuti urbani non pericolosi, derogabile solo da accordi regionali o internazionali, qualora gli aspetti territoriali e l’opportunità tecnico economica di raggiungere livelli ottimali di utenza servita lo richiedano; nel perseguimento dei principi di autosufficienza e prossimità, l’art. 182-bis prevede che lo smaltimento dei rifiuti sia attuato mediante «una rete integrata ed adeguata di impianti, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili e del rapporto tra i costi e i benefici complessivi». Il D.Lgs. n. 36/2003[101]«Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti», pubblicato in S.O. n. 40 alla Gazzetta Ufficiale del 12 marzo 2003, n. 59. stabilisce «requisiti operativi e tecnici per i rifiuti e le discariche, misure, procedure e orientamenti tesi a prevenire o a ridurre il più possibile la ripercussioni negative sull’ambiente […], nonché i rischi per la salute umana risultanti dalle discariche di rifiuti» (art. 1, comma 1). Nella prospettiva della circular economy, la direttiva 2018/850/Ue ha aggiornato la disciplina europea in tema di discariche al fine di ridurre «gradualmente al minimo la collocazione in discarica dei rifiuti destinati alle discariche per rifiuti non pericolosi» (considerando 2), anche vietando il conferimento in discarica dei rifiuti biodegradabili raccolti in maniera differenziata (considerando 7) e prevedendo una preliminare sottoposizione dei rifiuti al trattamento più adatto per «ridurre il più possibile gli effetti negativi del collocamento in discarica di tali rifiuti sull’ambiente e sulla salute umana» (considerando 12). La direttiva 2018/850/Ue è stata recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. n. 121/2020, in vigore dal 29 settembre 2020, per mezzo del quale:

  • è stato abrogato il D.M. 27 settembre 2010;
  • è stata trasferita la relativa disciplina nel D.Lgs. n. 36/2003, che diviene dunque il principale riferimento normativo in materia;
  • è stato, infine, modificando questo ultimo decreto. 

Per raggiungere gli obiettivi della direttiva 2018/850/Ue, sono stati definiti nuovi target di riduzione del conferimento di rifiuti in discarica (nuovo art. 5, D.Lgs. n. 36/2003), riassunti nella figura 5. In particolare, dal 2030 sarà vietato lo smaltimento in discarica di tutti i rifiuti idonei al riciclaggio o al recupero di altro tipo, in particolare i rifiuti urbani, a eccezione di specifici flussi di rifiuti per i quali «il collocamento in discarica produca il miglior risultato ambientale». È posto in capo alle Regioni l’impegno ad adeguare, sin d’ora, la pianificazione di settore e, entro la fine del 2029, tutti gli atti autorizzativi che lo necessitino. Al 2035 è, invece, fissata la scadenza per l’obiettivo di riduzione dei rifiuti urbani collocati in discarica al 10 % (o meno) del totale in peso dei rifiuti urbani prodotti, secondo i criteri cristallizzati nel neo-introdotto art. 5-bis, D.Lgs. n. 36/2003.

 

Venendo alla disciplina normativo-regolamentare, per la definizione di discarica, il D.Lgs. n. 36/2003 individua tre distinte aree:

  • quella adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo[102]Perché si abbia una discarica non è richiesta l’esistenza di un apparato organizzato di uomini e mezzi, essendo sufficiente «l’abitualità dello smaltimento di rifiuti in un’area determinata e la consistenza del loro accumulo, idonea a provocare il degrado dell’ambiente» (Cassazione penale n. 25047/2011). Allo stesso modo «ciò che conta è la destinazione di una area a ricettacolo di rifiuti in via permanente e non la relativa durata» (Cassazione penale n. 19330/2009). , compresa
  • la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi (sentenza della Cassazione penale n. 10258/2007), nonché
  • qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a un deposito temporaneo per più di un anno[103]Secondo la Cassazione penale, il deposito temporaneo di rifiuti protratto per più di un anno in assenza di autorizzazione costituisce deposito incontrollato (sentenza n. 7386/2014) e non il reato di discarica non autorizzata o abusiva, salvo non si tratti di abbandono reiterato (sentenza n. 9849/2009). .

Alla gestione della discarica è preposto un soggetto – il gestore - individuabile nel titolare dell’autorizzazione e/o in colui che partecipa in concreto a una o più fasi della gestione (Cassazione penale n. 8684/2019), responsabile delle fasi di vita dell’impianto che vanno dalla realizzazione fino al termine della gestione post-operativa (Cassazione penale n. 32797/2013). Nella gestione operativa della discarica sono conferiti e abbancati i rifiuti; in quella post-operativa (anche detta post-mortem), il gestore garantisce il controllo del sito dopo la chiusura e non risulta destinatario di una minore responsabilità rispetto alle condizioni stabilite dall’autorizzazione (Consiglio di Stato n. 572/2007). L’esercizio di una discarica costituisce attività di preminente interesse pubblico (Tar Puglia n. 342/2019) ed è, pertanto, sottoposto all’ottenimento di un’autorizzazione di carattere costitutivo avente contenuto differenziato in base alla tipologia di impianto.

Esistono tre tipologie di discariche, a seconda della qualità merceologica dei rifiuti che nelle stesse vengono conferiti:

  • discariche per rifiuti inerti;
  • discariche per rifiuti pericolosi;
  • discariche per rifiuti non pericolosi.

In ogni discarica può essere ammessa solamente la specifica tipologia di rifiuto per il ricevimento del quale l’impianto è stato autorizzato; più nel dettaglio, ai sensi dell’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 36/2003, «i rifiuti sono ammessi in discarica, esclusivamente, se risultano conformi ai criteri di ammissibilità della corrispondente categoria di discarica secondo quanto stabilito dal presente decreto». In termini operativi, per accertare l’ammissibilità dei rifiuti nelle discariche si procede al campionamento e alle determinazioni analitiche per la caratterizzazione di base degli stessi, «nonché alla verifica di conformità, con oneri a carico del detentore dei rifiuti o del gestore della discarica, effettuati da persone e istituzioni indipendenti e qualificate, tramite laboratori accreditati» (art. 7 comma 4). Dopo l’elencazione di rifiuti non ammessi in discarica di cui all’art. 6 (vedere la tabella 14), l’art. 7 comma 1, D.Lgs. n. 36/2003 prevede che i rifiuti possano essere abbancati solo previo trattamento per ridurne il volume, l’eventuale natura pericolosa, «nonché per evitare o ridurre il più possibile le ripercussioni negative sull’ambiente nonché i rischi per la salute umana» (Tar Roma n. 121/2013)[104]Si ricorda che a Ispra è stata demandata l’individuazione dei criteri tecnici da applicare per stabilire quando il trattamento non è necessario (art. 48, legge n. 221/2015). . Fanno eccezione:

  • i rifiuti inerti il cui trattamento non sia tecnicamente fattibile;
  • i rifiuti il cui trattamento non contribuisce al raggiungimento delle finalità di cui all’art. 1, riducendo la quantità dei rifiuti o i rischi per la salute umana e l’ambiente.

L’autorizzazione all’impianto è condizione per la costruzione e l’esercizio e per fare venire meno la permanenza dell’eventuale reato di discarica abusiva (sul punto si veda la sentenza della Cassazione penale n. 45931/2014); l’autorizzazione unica di cui all’art. 208, D.Lgs. n. 152/2006 ha carattere residuale rispetto all’Aia, che si applica ai codici Ippc da 5.1 a 5.6, tra i quali rilevano le «discariche, che ricevono più di 10 Mg di rifiuti al giorno o con una capacità totale di oltre 25000 Mg, ad esclusione delle discariche per i rifiuti inerti». Sempre in tema di Aia, l’art. 29-bis, comma 3 prevede che, fino all’emanazione delle relative conclusioni comunitarie sulle Bat, per le discariche i requisiti tecnici richiesti dalla disciplina Ippc si considerano soddisfatti se l’installazione è conforme ai requisiti tecnici di cui al D.Lgs. n. 36/2003. Rileva, poi, l’art. 8, D.Lgs. n. 36/2003, che individua tra i requisiti della domanda di autorizzazione i cinque piani relativi alle modalità di esercizio e gestione della discarica:

  • piano di gestione operativa;
  • piano di gestione post-operativa;
  • piano di sorveglianza e controllo;
  • piano economico-finanziario;
  • piano di ripristino ambientale del sito a chiusura della discarica (vedere la figura 6).

Il conferimento dei rifiuti in discarica richiede una serie di adempimenti a carico sia del produttore/detentore del rifiuto che del gestore della discarica. Il nuovo art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 36/2003 prevede, al riguardo, che «per accertare l’ammissibilità dei rifiuti nelle discariche si procede al campionamento ed alle determinazioni analitiche per la caratterizzazione di base degli stessi, nonché alla verifica di conformità, con oneri a carico del detentore dei rifiuti o del gestore della discarica, effettuati da persone e istituzioni indipendenti e qualificate, tramite laboratori accreditati. I metodi di campionamento e analisi garantiscono l’utilizzazione delle tecniche e delle metodiche riconosciute a livello nazionale e internazionale, e sono individuati all’allegato 6». Con specifico riferimento alla caratterizzazione di base, in base al nuovo art. 7-bis, D.Lgs. n. 36/2003, il produttore dei rifiuti è tenuto:

  • a effettuarla, per ogni tipologia di rifiuto, prima del conferimento in discarica ovvero dopo l’ultimo trattamento effettuato;
  • a determinare le caratteristiche dei rifiuti attraverso la raccolta di tutte le informazioni necessarie per lo smaltimento finale in condizioni di sicurezza;
  • a rispettare le prescrizioni stabilite all’allegato 5 al D.Lgs. n. 36/2003;
  • relativamente ai rifiuti regolarmente generati, a effettuarla in corrispondenza del primo conferimento e ripetuta a ogni variazione significativa del processo che origina i rifiuti e, comunque, almeno una volta l’anno;
  • relativamente ai rifiuti non regolarmente generati, a effettuarla per ciascun lotto[105]«Per la definizione di lotto e di rifiuti regolarmente o non regolarmente generati si rinvia alle definizioni riportate in Allegato 5» (art. 7-bis, comma 3). .

Se i rifiuti soddisfano i criteri di ammissibilità per una categoria di discarica, sono considerati ammissibili nella corrispondente categoria, mentre la mancata conformità ai criteri comporta l’inammissibilità dei rifiuti. Quanto alla verifica di conformità , la stessa è finalizzata a stabilire se i rifiuti possiedano le caratteristiche della relativa categoria di discarica a cui sono destinati e se soddisfino i criteri di ammissibilità richiesti dalla normativa. Per i rifiuti regolarmente generati, la verifica è effettuata dal gestore sulla base dei dati forniti dal produttore in esito alla fase di caratterizzazione, con la medesima frequenza prevista per quest’ultima[106]In relazione alle frequenze di verifica di conformità dei rifiuti la Cassazione penale ha affermato che la locuzione «almeno una volta l’anno» non vuole significare «ogni dodici mesi», ma almeno una volta nell’anno civile di riferimento, cioè il periodo che va dal 1° gennaio al 31 dicembre (n. 36400/2019). . Per i rifiuti non generati regolarmente, devono, invece, «essere determinate le caratteristiche di ogni lotto; pertanto, non deve essere effettuata la verifica di conformità». In termini operativi, per verificare la conformità il gestore utilizza una o più delle determinazioni analitiche impiegate per la caratterizzazione di base, determinazioni che devono comprendere almeno un test di cessione e che si basano sui metodi di campionamento e analisi di cui all’allegato 6. 

Aspetti peculiari della gestione di una discarica riguardano poi percolato e biogas. Il percolato è costituito da qualsiasi liquido che si origina prevalentemente dall’infiltrazione dell’acqua nella massa dei rifiuti e/o dalla decomposizione degli stessi e che è emesso da una discarica o contenuto nella stessa (art. 2, D.Lgs. n. 36/2003). Generalmente gestito come rifiuto liquido da destinare a smaltimento, il percolato può anche essere sottoposto a trattamento per ottenerne una frazione acquosa (cosiddetto “permeato” o “chiarificato”) e una solida (cosiddetto “concentrato”) che, a determinate condizioni, può essere ricircolata nel corpo della discarica dopo trattamento in impianti tecnicamente idonei. Del percolato deve, in ogni caso, esserne prevenuta la formazione e disciplinata la gestione per un tempo non inferiore a 30 anni dalla data di chiusura definitiva dell’impianto (allegato 1, punto 2.3., D.Lgs. n. 36/2003; termine ripreso anche in tema di durata della garanzia finanziaria, come ricorda la sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia, n. 270/2018). Anche il biogas è generato dai rifiuti in discarica; l’allegato 1 al D.Lgs. n. 36/2003 impone ai gestori di discariche che accettano rifiuti biodegradabili di dotarsi di impianti per l’estrazione dei gas garantendo la massima efficienza di captazione e il conseguente utilizzo energetico, ove ritenuto tecnicamente fattibile. Il punto 2.5. prevede che il biogas sia «di norma utilizzato per la produzione di energia, anche a seguito di un eventuale trattamento, senza che questo pregiudichi le condizioni di sicurezza per la salute dell’uomo e per l’ambiente»; laddove il recupero non sia praticabile, il biogas deve essere destinato in torcia[107]Si tratta di un presidio di sicurezza costituito da idonea camera di combustione a temperatura T>850°, concentrazione di ossigeno ≥ 3% in volume e tempo di ritenzione ≥ 0,3 s.. Tanto il sistema di estrazione del gas quanto quello di trattamento devono essere mantenuti in esercizio per tutto il tempo in cui nella discarica è presente la formazione del gas e, comunque, per il periodo necessario.

Alle operazioni di incenerimento e coincenerimento di rifiuti solidi o liquidi è dedicato il titolo III-bis della parte IV (artt. 237-bis e seguenti), introdotto dal D.Lgs. n. 46/2014[108]Si segnala che, al fine di ottenere la chiusura della procedura di infrazione Ue Pilot 8978/16/Envi, nel disegno di legge europea 2017, in fase di approvazione, sono previste alcune modifiche tanto normative quanto tecniche alla disciplina relativa agli impianti di incenerimento e coincenerimento rifiuti.. La disciplina mira a «prevenire oppure, qualora non sia possibile, a ridurre gli effetti negativi delle attività di incenerimento e coincenerimento dei rifiuti» (art. 237-bis, comma 1) e prevede specifiche esclusioni (si veda la tabella 15).

L’impianto di incenerimento è finalizzato al trattamento termico di rifiuti con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione; quello di coincenerimento ha come funzione principale la produzione di energia o di materiali attraverso l’utilizzo di rifiuti (come combustibile normale o accessorio o ai fini del loro smaltimento)[109]Per questa ragione gli impianti di coincenerimento devono operare a «saturazione del carico termico» (Tar Toscana n. 954/2015).. Pertanto, se in un impianto di coincenerimento la funzione principale non è la produzione di energia, ma lo smaltimento di rifiuti, l’impianto sarà considerato di incenerimento. La realizzazione e l’esercizio degli impianti devono essere autorizzati in via ordinaria (ex art. 208) o integrata (Aia).

Gli impianti di coincenerimento per i quali il gestore provi che la percentuale di energia elettrica producibile da fonti rinnovabili nei primi cinque anni di esercizio sarà superiore al 50% del totale, sono sottoposti al procedimento di cui all’art. 12, D.Lgs. n. 387/2003. L’art. 237-septies individua specifiche precauzioni che il gestore dell’impianto deve adottare in fase di consegna e ricezione dei rifiuti «per evitare o limitare per quanto praticabile gli effetti negativi sull’ambiente» 

In generale, l’impianto deve essere gestito «in modo da ridurre le emissioni e gli odori, secondo le migliori tecniche disponibili»; a questo fine:

  • deve essere perseguito il più completo livello di incenerimento possibile anche tramite operazioni di pretrattamento dei rifiuti;
  • i gas prodotti dall’incenerimento devono essere portati per almeno due secondi a una temperatura di almeno 850°C (1100°C in caso di utilizzo di rifiuti pericolosi contenenti oltre 1% di sostanze organiche alogenate, espresse in cloro);
  • ciascuna linea di incenerimento deve essere dotata di almeno un bruciatore ausiliario (art. 237-octies, commi 2-6)[110]Queste prescrizioni possono essere derogate dall’autorità competente in sede di autorizzazione, alle condizioni previste dall’art. 237-nonies, comma 1. .

Il calore generato deve, invece, essere recuperato per quanto tecnicamente possibile. Per i limiti di emissione in atmosfera si deve fare riferimento a quanto previsto all’allegato 1, paragrafo A e all’allegato 2, paragrafo A al titolo III- bis[111]Si applica solo l’allegato 1, paragrafo A nel caso in cui il calore liberato dal coincenerimento di rifiuti pericolosi sia superiore al 40% del calore totale liberato o qualora l’impianto coincenerisca rifiuti urbani misti non trattati (art. 237-duodecies, comma 3). , che si intendono rispettati alle condizioni previste nell’allegato 1, paragrafo C e dell’allegato 2, paragrafo C. Resta ferma la facoltà, per le autorità regionali, di imporre limiti emissivi più rigorosi (Tar Molise n. 202/2017). Lo scarico delle acque reflue derivanti dalla depurazione degli effluenti gassosi deve essere limitato per quanto possibile ed è disciplinato dall’autorizzazione; se si tratta di scarico in acque superficiali, devono essere rispettati almeno i valori previsti dall’allegato 1, paragrafo D al titolo III-bis; è, in ogni caso, vietato lo scarico sul suolo, sottosuolo e nelle acque sotterranee. I residui prodotti durante la gestione devono essere il più possibile ridotti in termini di quantità e pericolosità; gli stessi devono essere destinati preferibilmente a riciclo nell’impianto o fuori di esso; in caso contrario devono essere destinati a smaltimento.

La disciplina in tema di inceneritori è stata recentemente modificata dalla legge europea del 2017, in vigore dal 12 dicembre 2017[112]Legge 20 novembre 2017, n. 167 «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea Legge europea 2017» (in Gazzetta Ufficiale del 27 novembre 2017 n. 277). . Tra le modifiche più rilevanti si evidenzia l’introduzione di un periodico obbligo di riesame e aggiornamento (qualora necessario) dell’autorizzazione da parte dell’autorità competente (comma 3-bis dell’articolo 237-sexies), nonché l’obbligo per il gestore, in caso di anomalia al funzionamento dell’impianto, di informare anche l’autorità competente, oltre a quella di controllo (art. 237-octiesdecies, comma 5).

 

La gestione delle terre e rocce da scavo

La qualificazione giuridica delle terre e rocce da scavo è da sempre altalenante:

  • l’art. 8, comma 2, lettera c), D.Lgs. n. 22/1997, inizialmente aveva escluso dalla nozione di rifiuto i materiali non pericolosi derivanti da attività di escavo;
  • dopo meno di un anno, il D.Lgs. n. 389/1997 ha eliminato l’esclusione;
  • con la circolare 28 luglio 2000, n. UL/200/1013, il ministero dell’Ambiente ha condizionato la qualifica come rifiuti al superamento dei limiti stabiliti dal D.M. n. 471/1999;
  • la legge n. 93/2001 ha sottratto le terre dalla qualifica di rifiuti a patto che fossero destinate a un utilizzo effettivo[113]Reinterri, riempimenti, rilevati e macinati. e che non provenissero da siti inquinati e da bonifiche con concentrazioni di inquinanti superiori ai limiti di legge [art. 8, comma 1, lettera f-bis), D.Lgs. n. 22/1997];
  • nello stesso anno, su questa ultima modifica, è intervenuta la legge n. 443/2001 (cosiddetta “legge Lunardi”) che escludeva dalla disciplina rifiuti le terre «anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti»;
  • con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152/2006 la disciplina veniva condensata nell’art. 186 e successivamente ampliata nell’ambito delle esclusioni dalla disciplina rifiuti (art. 185).

Negli anni più recenti, numerosi interventi normativo-regolamentari hanno determinato una disciplina frammentata e complessa, che oggi non si esaurisce più nel solo D.Lgs. n. 152/2006. L’esigenza di rendere più agevole la realizzazione degli interventi che comportano la produzione e gestione delle terre e rocce, ha portato il legislatore nazionale del 2014[114]L’art. 8, D.L. n. 133/2014 (convertito nella legge n. 164/2014) ha individuato i principi e i criteri direttivi della nuova disciplina.  a prevedere l’emanazione di un D.P.R. di riordino e semplificazione, del quale si dirà a breve. Fattore comune a tutti gli interventi normativo-regolamentari succedutisi negli anni è stata l’individuazione delle condizioni e dei criteri in presenza dei quali le terre da scavo potessero essere sottratte alla qualifica di rifiuto. La disciplina di cui alla parte IV rappresenta, infatti – anche oggi – la regola generale, derogabile in presenza di puntuali presupposti (si veda la sentenza della Cassazione penale n. 23788/2007 e, più recentemente Cassazione penale n. 34398/2021), tali da permettere di qualificare le terre come sottoprodotti o come materiali esclusi dalla disciplina rifiuti. Elementi comuni alle diverse ipotesi derogatorie sono la volontà di riutilizzare le terre e l’assenza di contaminazione[115]Da intendersi quale mancato superamento dei valori di Csc di cui alla tabella 1 dell’allegato 5 alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006, per le matrici suolo e sottosuolo. .

In data 22 agosto 2017 è entrato in vigore il D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120[116]«Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164» (in Gazzetta Ufficiale del 7 agosto 2017, n. 183). Per un approfondimento si veda Peres, Terre e rocce da scavo il nuovo regolamento, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2017.  che, in attuazione del decreto “sblocca Italia” del 2014, ha riordinato e semplificato la disciplina sulla gestione delle terre e rocce da scavo. Il nuovo regolamento (vedere la figura 7), che si compone di 31 articoli suddivisi in 6 titoli e 10 allegati, disciplina (Cassazione penale n. 8026/2018):

  • la gestione delle terre escluse dalla normativa sui rifiuti, limitatamente ad alcuni cantieri;
  • il riutilizzo in qualsiasi cantiere delle terre qualificate come sottoprodotti;
  • il deposito temporaneo delle terre gestite come rifiuti;
  • la gestione delle terre nel sito oggetto di procedimenti di bonifica.
Figura 7
Riutilizzo delle Trs

In tema di sottoprodotti, il regolamento distingue tre tipi di cantiere (Cassazione penale, n. 18892/2018), ai quali applica due distinti iter procedimentali:

  • grandi cantieri, oltre i 6.000 m3 e relativi a opere sottoposte a Via/Aia; per questi cantieri, in precedenza sottoposti al D.M. n. 161/2012, il procedimento prevede la redazione di un piano di utilizzo, una dichiarazione di utilizzo sostitutiva di atto notorio e una dichiarazione finale di avvenuto utilizzo (Dau);
  • piccoli cantieri, fino a 6.000 m3 anche se sottoposti ad Aia/Via; si tratta dei cantieri precedentemente disciplinati dall’art. 41-bis, D.L. n. 69/2013. L’iter prevede l’adozione della dichiarazione di utilizzo sostitutiva di atto notorio e della dichiarazione finale di avvenuto utilizzo (Dau);
  • grandi cantieri, oltre i 6.000 m3, ma non sottoposti ad Aia/Via; anche a questi, in precedenza disciplinati dall’art. 41-bis, D.L. n. 69/2013, si applica la medesima disciplina prevista per i piccoli cantieri.

In merito al riutilizzo nello stesso sito di escavo delle terre escluse dalla disciplina rifiuti, il nuovo D.P.R. non ha previsto l’abrogazione dell’art. 185 comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 152/2006, bensì una sua integrazione. Il suolo escavato (comprensivo dell’eventuale materiale di riporto[117]Al quale si applicherà la disciplina prevista dall’art. 3, commi 2 e 3, D.L. n. 2/2012 convertito, con modificazioni, nella legge n. 28/2012, come modificato dall’art. 41, comma 3, lettera a), D.L. n. 69/2013 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/20013.) continua, pertanto, a essere escluso dalla disciplina rifiuti in presenza di tre condizioni:

  • la provenienza da un’attività di costruzione, che deve costituire la ragione dello scavo;
  • il riutilizzo allo stato naturale, ovverosia senza trattamento alcuno;
  • il riutilizzo nello stesso sito di escavo, che deve essere certo e realizzato a fini di costruzione.

A integrazione di quanto previsto dall’art. 185, l’art. 24, D.P.R. n. 120/2017 disciplina, ai commi 1-2, il riutilizzo del suolo escluso dalla disciplina rifiuti in qualunque cantiere, prevedendo che l’assenza di contaminazione sia verificata ai sensi dell’allegato 4 del regolamento. I commi 3-6 sono, invece, dedicati al riutilizzo, sempre dei terreni esclusi dalla disciplina rifiuti, all’interno di cantieri sottoposti a Via e prevedono un procedimento, articolato e più gravoso rispetto alla disciplina europea, che parte dalla redazione di un “piano preliminare” (da predisporre in fase di stesura dello studio di impatto ambientale - Sia) e termina con la presentazione di un “progetto definitivo” nel quale sono indicate:

  • le volumetrie definitive di scavo;
  • la quantità delle terre e rocce da riutilizzare;
  • la collocazione e la durata dei depositi;
  • la collocazione definitiva delle terre.

In tema di terre gestite come rifiuti (codici Eer 17.05.04 o 17.05.03*), il D.P.R. n. 120/2017 integra la definizione di deposito temporaneo di cui all’articolo 183, comma 1, lettera bb), D.Lgs. n. 152/2006, prevedendo:

  • il rispetto delle norme tecniche che regolano lo stoccaggio dei rifiuti contenenti sostanze pericolose e la conformità al regolamento 850/2004/Ce per le terre e rocce contenenti inquinanti organici persistenti;
  • i seguenti e alternativi criteri di deposito:

- tre mesi, indipendentemente dalle quantità;

- 4.000 metri cubi, di cui non oltre 800 metri cubi di rifiuti classificati come pericolosi, fermo restando che il deposito temporaneo non può avere durata superiore a un anno;

  • il rispetto delle norme tecniche in tema di deposito;
  • il rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose eventualmente contenute nelle terre in modo da evitare la contaminazione delle matrici ambientali.

In tema di gestione delle terre e rocce in siti sottoposti a procedimenti di bonifica, gli artt. 25 e 26, D.P.R. n. 120/2017, fanno, innanzitutto, salvo quanto disposto dall’utile comma 7 dell’art. 34[118]Ai sensi del quale «nei siti inquinati, nei quali sono in corso o non sono ancora avviate attività di messa in sicurezza e di bonifica, possono essere realizzati interventi e opere richiesti dalla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, di manutenzione ordinaria e straordinaria di impianti e infrastrutture, compresi adeguamenti alle prescrizioni autorizzative, nonché opere lineari necessarie per l’esercizio di impianti e forniture di servizi e, più in generale, altre opere lineari di pubblico interesse a condizione che detti interventi e opere siano realizzati secondo modalità e tecniche che non pregiudicano né interferiscono con il completamento e l’esecuzione della bonifica, né determinano rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell’area». del cosiddetto decreto “sblocca Italia"[119]D.L. n. 133/2014, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n. 164.. Sono poi previsti campionamenti e cautele specifiche da adottare previso accordo con Arpa, che è chiamata a pronunciarsi in forma espressa sul piano di dettaglio. L’utilizzo delle terre in siti in bonifica è consentito nel rispetto delle concentrazioni soglia di contaminazione (Csc) relative alla specifica destinazione d’uso (o valori di fondo naturale). Se questi valori sono superati ma si rispettano le Csr (concentrazioni soglia di rischio), l’utilizzo delle terre nello stesso sito è subordinato a due condizioni:

  • analisi di rischio approvata e rispetto delle concentrazioni rilevate nelle diverse sub-aree;
  • rispetto delle condizioni e delle limitazioni d’uso previste nell’ analisi di rischio qualora, per la determinazione delle Csr, non sia stato preso in considerazione il percorso di lisciviazione in falda.

Gli allegati, per lo più dedicati agli aspetti tecnici della disciplina, sono corposi e riprendono molti concetti già presenti nel D.M. n. 161/2012. Tra le novità, si segnalano l’avvenuta eliminazione del trattamento a calce dal concetto di normale pratica industriale[120]Nell’ambito della procedura Eu-Pilot n. 5554/13/ENVI, la Commissione europea ha ritenuto che il trattamento a calce e la riduzione della presenza nel materiale da scavo di elementi/materiali antropici, sarebbero una operazione di trattamento di rifiuti e non una normale pratica industriale. , nonché, in tema di caratterizzazione, la disciplina relativa alle terre con presenza di sostanze non tabellate e per le quali non sia individuabile una sostanza affine.

In conseguenza dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 120/2017, dal 22 agosto 2017 il D.M. n. 161/2012 e l’art. 41-bis, D.L. n. 69/2013 risultano abrogati, ferma la loro applicazione tanto ai progetti già approvati alla data di entrata in vigore del D.P.R. n. 120/2017, quanto ai procedimenti in corso a quella data, per i quali non sia stato chiesto il passaggio alla nuova disciplina[121]I commi 1 e 2 dell’art. 27, D.P.R. n. 120/2017 prevedono infatti che «I piani e i progetti di utilizzo già approvati prima dell’entrata in vigore del presente regolamento restano disciplinati dalla relativa normativa previgente, che si applica anche a tutte le modifiche e agli aggiornamenti dei suddetti piani e progetti intervenuti successivamente all’entrata in vigore del presente regolamento. Resta fermo che i materiali riconducibili alla definizione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), del presente regolamento utilizzati e gestiti in conformità ai progetti di utilizzo approvati ai sensi dell’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ovvero ai piani di utilizzo approvati ai sensi del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela e del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161, sono considerati a tutti gli effetti sottoprodotti e legittimamente allocati nei siti di destinazione. I progetti per i quali alla data di entrata in vigore del presente regolamento è in corso una procedura ai sensi della normativa previgente restano disciplinati dalle relative disposizioni. Per tali progetti è fatta comunque salva la facoltà di presentare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, il piano di utilizzo di cui all’articolo 9 o la dichiarazione di cui all’articolo 21 ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente regolamento». . Considerata la rilevanza della disciplina in tema di gestione delle terre e rocce da scavo, il consiglio del Sistema nazionale protezione ambientale (Snpa) con delibera 9 maggio 2019, n. 54, ha approvato le «Linea guida sull’applicazione della disciplina per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo». L’obiettivo è quello di «produrre manualistica per migliorare l’azione dei controlli attraverso interventi ispettivi sempre più qualificati, omogenei e integrati» e assicurare, in questo modo, «l’armonizzazione, l’efficacia, l’efficienza e l’omogeneità dei sistemi di controllo e della loro gestione nel territorio nazionale, nonché il continuo aggiornamento, in coerenza con il quadro normativo nazionale e sovranazionale, delle modalità operative del sistema nazionale e delle attività degli altri soggetti tecnici operanti nella materia ambientale»[122]Si veda F. Peres Terre e rocce da scavo le linee guida Snpa in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019. (vedere la figura 8).

Le matrici materiali di riporto

Il consolidamento del terreno, il livellamento, il riempimento dei vuoti e il rimodellamento utilizzando terra, rocce e residui antropici ha costituito per decenni una prassi consolidata. Per questo motivo la gestione dei cosiddetti riporti, o più correttamente, delle matrici materiali di riporto, rappresenta oggi una tematica molto applicata.

Le prime indicazioni sulla gestione delle frazioni antropiche nel suolo risalgono al D.M. 5 febbraio 1998, ma una disciplina esaustiva è stata introdotta solo a partire dal 2012. L’art. 3, comma 1, D.L. n. 2/2012, come modificato dall’art. 41, D.L. n. 69/2013, ha, infatti, previsto l’interpretazione autentica dell’articolo 185, D.Lgs. n. 152/2006 in merito ai riferimenti al “suolo” di cui al comma 1, lettere b) e c) e al comma 4, nella quale rientrano anche le matrici materiali di riporto. Il comma 3 dell’art. 3 è stato recentemente modificato a opera del decreto “semplificazioni-bis” (D.L. n. 77/2021 convertito nella legge n. 108/2021; vedere il box 5).

Per essere considerate tali, le matrici materiali di riporto debbono innanzitutto essere costituite «da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito, e utilizzate per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri». Occorre, dunque, che gli scarti antropici e il terreno, utilizzati per riempimenti, rilevati e reinterri, siano mescolati tra loro e che costituiscano uno strato differenziato dal terreno naturale sottostante (ed eventualmente sovrastante). In difetto di queste condizioni non si potrà parlare di matrice materiale di riporto e non si potrà procedere con l’assimilazione al concetto di suolo, con la conseguenza che i materiali antropici dovranno essere necessariamente gestiti come rifiuti (Tar Brescia n. 787/2019). Fermo il rispetto delle condizioni richieste dalla definizione di matrici materiali di riporto, a queste ultime possono applicarsi le qualifiche di sottoprodotti e di materiali esclusi dalla disciplina rifiuti in conformità all’art. 185 commi 1 lettera b), c) e 4, D.Lgs. n. 152/2006 (vedere il box 6).

Più nel dettaglio:

1. Le matrici materiali di riporto assimilate al concetto di suolo che non si intende scavare, per essere esclude dalla disciplina rifiuti dovranno rispettare: 

  • l’art. 185, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 152/2006, nonché 
  • i commi 2 e 3 dell’art. 3, D.L. n. 2/2012. 

La miscela eterogenea dovrà, pertanto, essere conforme al test di cessione, da realizzare secondo le metodiche del D.M. 5 febbraio 1998 e utilizzando, quali limiti, i valori di Csc per le acque di falda, nonché rispettare i limiti di Csc per la matrice suolo/sottosuolo (da individuare rispetto alla destinazione urbanistica dell’area di scavo)[123]Su questo tema il Tar Toscana n. 996/2020 ha evidenziato la necessità dei “test di cessione” effettuati sui materiali di riporto, giacché la normativa correla all’esito di questi test differenti conseguenze giuridiche nonché operative: anche in caso di rispetto dei limiti propri del test di cessione è comunque necessario rispettare quanto previsto dalla normativa sulle bonifiche dei siti contaminati, mentre in caso di accertato mancato rispetto dei suddetti limiti i materiali di riporto sono assimilati a sorgenti di contaminazione ed il legislatore indica quali sono i precisi trattamenti tecnici da eseguire. . Le matrici materiali di riporto non conformi ai limiti del test di cessione sono gestite nell’ambito dei procedimenti di bonifica, al pari dei suoli, utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentano di utilizzare l’area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute e per l’ambiente.

2. Le matrici materiali di riporto assimilate al concetto di suolo che si intende scavare e riutilizzare in situ come materiali esclusi dalla disciplina rifiuti, dovranno rispettare: 

  • l’art. 185, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 152/2006,
  • i commi 2 e 3 dell’art. 3, D.L. n. 2/2012, nonché
  • l’art. 24, D.P.R. n. 120/2017. 

Pertanto, ferma la negatività al test di cessione e il rispetto delle Csc (per la verifica delle quali l’art. 24 del D.P.R. n. 120/2017 rimanda all’allegato 4 al D.P.R. stesso), occorrerà rispettare le condizioni previste dall’art. 185, comma 1, lettera c) (vedere il paragrafo "La gestione delle terre e rocce da scavo") e quanto disposto dall’art. 24 del menzionato D.P.R., soprattutto per quanto concerne la presenza naturale di amianto e le opere sottoposte a Via. Anche in questo caso, le matrici materiali di riporto non conformi ai limiti del test di cessione saranno gestite a costi sostenibili nell’ambito dei procedimenti di bonifica al pari dei suoli. Qualora invece, unitamente alle terre e rocce scavate non rispettino le condizioni previste per il riutilizzo in situ, dovranno essere gestite come rifiuti.

3. Le matrici materiali di riporto assimilate al concetto di suolo che si intende scavare e riutilizzare extra situ come sottoprodotti, dovranno rispettare: 

  • l’art. 185, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006, nonché
  • l’art. 4, comma 3, D.P.R. n. 120/2017. 

Affinché le matrici materiali di riporto non facciano perdere alle terre e rocce la qualifica di sottoprodotti, è pertanto necessario che la quantità massima di frazione antropica corrisponda al 20% in peso (da determinarsi secondo la metodologia di cui all’allegato 10 al D.P.R.), che rispettino le Csc e che siano negativi al test di cessione, da condurre in conformità al D.M. 5 febbraio 1998 e i cui risultati sono da confrontare con le Csc (o con i valori di fondo naturale) previsti per le acque sotterranee (Tar Lombardia n. 326/2019). Restano poi valide le previsioni in tema di amianto allo stato naturale e la necessaria formalizzazione all’interno del piano di utilizzo e/o nelle dichiarazioni previste dal D.P.R. (commi 4 e 5). In difetto di queste condizioni, non potrà trovare applicazione la qualifica come sottoprodotto. Come noto, la disciplina in tema di materiali di riporto è particolarmente complessa (Tar Brescia n. 1161/2016). Per questa ragione, il ministero dell’Ambiente è già intervenuto con due circolari interpretative (nota 14 maggio 2014, n. 13338/tri inviata all’Ispra e nota 10 novembre 2017, n. 15786[124]Si veda Peres e Kiniger Sui materiali di riporto i chiarimenti del minAmb in Ambiente&Sicurezza n. 1/2018.) e il consiglio del Sistema nazionale protezione ambientale (Snpa) ha trattato delle matrici materiali di riporto nelle «Linea guida sull’applicazione della disciplina per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo» approvate con delibera del 9 maggio 2019, n. 54[125]Si veda F. Peres Terre e rocce da scavo: le linee guida Snpa in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019. . Se queste indicazioni di prassi permettono certamente di agevolare la gestione delle matrici materiali di riporto, non mancano però di suscitare qualche perplessità[126]Come la prevista necessaria storicità dei riporti, non più espressamente richiamata nella disciplina normativa..

I sedimenti dragati

La gestione di ciò che è scavato/dragato nel fondale marino, sia esso un materiale “originario” (ad esempio, la roccia) o qualcosa che si è accumulato nel tempo (sedimento), trova nell’ordinamento italiano una disciplina normativo-regolamentare stratificatasi negli anni e, per questa ragione, complessa. Si parla generalmente di gestione dei sedimenti dragati, anche se le diverse fonti si riferiscono, indistintamente, a «materiali di scavo» di fondali marini, a «sedimenti» oppure a «sedimenti dragati» o, ancora, a «materiali da operazioni di dragaggio», nonché a «fanghi di dragaggio». 

Di seguito le disposizioni oggi vigenti:

  • art. 185, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006: esclude dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti «i sedimenti spostati all’interno di acque superficiali o nell’ambito delle pertinenze idrauliche». Due le condizioni richieste:

- i sedimenti devono essere non pericolosi; 

- il loro spostamento deve realizzare una delle finalità indicate nella norma, ossia la gestione delle acque e dei corsi d’acqua, la prevenzione di inondazioni, la riduzione degli effetti di inondazioni o di siccità, il ripristino dei suoli;

  • art. 109, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006: consente l’immersione in mare dei «materiali di escavo di fondali marini o salmastri o di terreni litoranei emersi» previa autorizzazione della autorità competente rilasciata in conformità alle disposizioni stabilite con decreto ministeriale[127]Su questo tema si veda la sentenza della Cassazione penale n. 45844/2019. ;
  • art. 39, comma 13, D.Lgs. n. 205/2010: estende la nozione di sottoprodotto di cui all’art. 184-bis al «materiale che viene rimosso, per esclusive ragioni di sicurezza idraulica, dagli alvei di fiumi, laghi e torrenti»;
  • art. 5-bis, legge n. 84/1994: contiene una disciplina specifica per i sedimenti dragati nelle aree portuali e marino-costiere nei siti di bonifica di interesse nazionale (Sin). Le operazioni di dragaggio possono essere svolte contestualmente alla bonifica sulla base di un progetto approvato dalle autorità competenti che non pregiudichi gli interventi futuri di risanamento. Il comma 2, lettere a), b), c) individua le possibili modalità di reimpiego dei materiali dragati; la lettera d) prevede che, qualora i materiali dragati presentino concentrazioni di inquinanti al di sotto dei valori di riferimento specifici individuati con decreto ministeriale, le aree interessate vengono escluse dal perimetro del Sin. Ai sensi del comma 8, i materiali di dragaggio dei fondali di porti non ricompresi nei Sin possono essere immersi in mare nel rispetto dell’art. 109, D.Lgs. n. 152/2006 (già citato) oppure utilizzati a fini di ripascimento, anche con sversamento nel tratto di spiaggia sommersa attiva o per la realizzazione di casse di colmata o altre strutture di contenimento nei porti;
  • D.M. 5 febbraio 1998: il punto 12.1 dell’allegato 1 individua quali possibili operazioni di recupero in regime semplificato dei fanghi derivanti da «attività di dragaggio di fondali di laghi, dei canali navigabili o irrigui e corsi d’acqua (acque interne), pulizia di bacini idrici», previo essiccamento ed eventuale igienizzazione:

- la formazione di rilevati e sottofondi stradali;

- l’esecuzione di terrapieni e arginature, ad esclusione delle opere a contatto diretto o indiretto con l’ambiente marino;

- l’utilizzo per riprofilare porzioni della morfometria della zona d’alveo interessata;

  • D.M. 7 novembre 2008: in relazione ai Sin, contiene i criteri per la verifica dell’idoneità del materiale dragato a essere gestito secondo una delle modalità di cui all’art. 5-bis, comma 2 legge n. 84/1994;
  • decreto direttoriale del ministero dell’Ambiente 8 giugno 2016: contiene i criteri per la definizione dei valori di riferimento specifici di concentrazione degli inquinanti per i materiali risultanti dalle attività di dragaggio;
  • D.M. 15 luglio 2016, n. 172: disciplina modalità e norme tecniche per le operazioni di dragaggio nei siti di interesse nazionale, ai sensi dell’articolo 5-bis, comma 6, legge 28 gennaio 1994, n. 84;
  • D.M. 15 luglio 2016, n. 173: contiene le modalità e i criteri tecnici per l’autorizzazione all’immersione in mare dei materiali di escavo di fondali marini ai sensi dell’art. 109 già menzionato.

Due necessarie precisazioni. I DD.MM. 15 luglio 2016, nn. 172 e 173, affrontano ambiti più vasti di quelli riportati nei rispettivi titoli, disciplinando, infatti, l’intera attività di dragaggio ovunque svolta e imponendo, pertanto, una rimeditazione del quadro generale, come precisato dalla dottrina[128]Sul tema si veda Peres e Cappucci Dragaggi, procedure per i Siti di Interesse Nazionale, in Ambiente&Sicurezza n. 16/2016.. Si ricorda, inoltre, che, fino al 2017, il D.M. n. 161/2012 disciplinava i sedimenti qualificabili, a determinate condizioni, come “sottoprodotti” ai sensi dell’art. 184-bis. Il D.P.R. n. 120/2017 ha, però, previsto l’abrogazione del D.M. n. 161/2012 e non contiene disposizioni specifiche sulla gestione dei sedimenti. 

Recentemente, infine, l’art. 6-bis del D.L. 77/2021, convertito nella legge n. 108/2021, ha istituito il piano nazionale dei dragaggi sostenibili, da approvarsi con futuro decreto interministeriale e avente l’obiettivo di sviluppare l’accessibilità marittima e della resilienza delle infrastrutture portuali ai cambiamenti climatici e la manutenzione degli invasi e dei bacini idrici. Il comma 2 del medesimo art. 6-bis attribuisce alle attività di dragaggio nelle (sole) infrastrutture portuali del territorio nazionale e nelle acque marino-costiere la natura di interventi di pubblica utilità e indifferibili e urgenti, che costituiscono, ove occorra, variante al piano regolatore portuale e al piano regolatore del sistema portuale. In questi termini, il comma 3 prevede che l’autorizzazione al dragaggio venga rilasciata con provvedimento conclusivo della conferenza di servizi, da convocare da parte dell’autorità competente individuata in base al comma 2 dell’art. 109, e costituisce titolo alla realizzazione dei lavori, in conformità al progetto approvato. 

 

I fanghi da depurazione

L’art. 127, D.Lgs. n. 152/2006 prevede che ferma la disciplina di cui al D.Lgs. n. 99/1992, i fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue siano sottoposti alla disciplina dei rifiuti e debbano essere «riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato». In Italia, la principale modalità di recupero dei fanghi di depurazione di acque reflue urbane e miste, gestiti come rifiuto, è il loro impiego agronomico[129]A queste pratiche se ne stanno però affiancando di innovative quali, ad esempio, la lombricoltura ed il lombricompostaggio. , che può avvenire attraverso lo spandimento nel terreno, ovvero mediante il compostaggio per la produzione di ammendante (non-rifiuto). L’utilizzazione agronomica dei fanghi mediante spandimento è disciplinata dal D.Lgs. n. 99/1992[130]«Attuazione della direttiva 86/278/Cee concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura». , che si riferisce ai fanghi intesi quali residui derivanti dai processi di depurazione delle acque reflue provenienti esclusivamente da insediamenti civili, da insediamenti civili e produttivi e, infine, esclusivamente da insediamenti produttivi (assimilabili per qualità a quelli civili). L’attività di recupero dei fanghi per la produzione di ammendante è invece disciplinata dal D.Lgs. n. 75/2010[131]«Riordino e revisione della disciplina in materia di fertilizzanti, a norma dell’articolo 13 della legge 7 luglio 2009 n. 88»., che definisce ammendanti i «materiali da aggiungere al suolo in situ, principalmente per conservarne o migliorarne le caratteristiche fisiche o chimiche o l’attività biologica, disgiuntamente o unitamente tra loro, i cui tipi e caratteristiche sono riportati nell’allegato 2» e che richiama i limiti dettati dal D.Lgs. n. 99/1992.

Secondo un orientamento della corte di Cassazione penale (sentenza n. 27959/2017) e del Tar Lombardia (sentenza n. 1782/2018), per i parametri non normati, i fanghi destinati all’utilizzazione agronomica avrebbero dovuto rispettare i valori di Csc stabiliti in tema di bonifica di siti contaminati. Nella seconda metà del 2018 questa interpretazione, particolarmente restrittiva, ha portato alla paralisi del mercato italiano del recupero dei fanghi di depurazione[132]Si vedano i contributi di B. Stefanelli, in Ambiente&Sicurezza nn. 9/2018, 11/2018, 1/2019 e 5/2019.  e ha richiesto un intervento normativo di chiarimento. Il tema controverso riguardava, in particolare, il parametro idrocarburi. La situazione di impasse è stata sbloccata dal D.L. n. 109/2018, il cosiddetto decreto “Genova”, che all’art. 41, da un lato ha ricordato che i valori limite da rispettare sono quelli stabiliti dall’allegato IB al D.Lgs. n. 99/1992, mentre, dall’altro, ha introdotto un’eccezione con riferimento a uno specifico parametro, non contemplato dalla normativa speciale, ovvero gli idrocarburi totali C10-C40 (parametro aspecifico e generico posto che sembra poter ricomprendere potenzialmente non solo frazioni di natura fossile/minerale, ma anche quelle di origine biologica). Per questo parametro il decreto-legge ha fissato il limite ≤ 1.000 mg/kg, da ritenersi comunque rispettato qualora la ricerca dei marker di cancerogenicità avesse restituito valori inferiori a quelli definiti dal regolamento n. 2008/1272/Ce (cosiddetto regolamento Clp, in particolare dalla nota L, allegato VI, richiamata nella decisione 955/2014/Ue). La legge n. 130/2018, di conversione, con modificazioni, del decreto “Genova”, ne ha confermato l’approccio e ha previsto specifici valori limite anche per parametri e sostanze diversi dai soli idrocarburi C10-C40 (vedere la tabella 16).

Della novella ha già preso atto la Cassazione penale, che nella sentenza n. 4238/2019, ha rilevato che la questione giuridica relativa al rispetto dei valori di Csc «deve ritenersi superata, a seguito dell’entrata in vigore del DL 28 settembre 2018 n. 109». Sempre in tema di fanghi, l’art. 37-bis del D.L. n. 77/2021, convertito nella legge n. 108/2021, al fine di prevenire la contaminazione del suolo dovuta all’utilizzo di alcuni tipi di correttivi nell’agricoltura, ha modificato alcune parti dell’allegato 3, tabella 2.1 al D.Lgs. n. 75/2010, disponendo che nella preparazione di “Gesso di defecazione” e “Carbonato di calcio di defecazione” non sono ammessi fanghi di depurazione. 

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Note   [ + ]

1. «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2018, che modifica la direttiva 2008/98/Ce relativa ai rifiuti» (in G.U.C.E. L del 14 giugno 2018, n. 150).
2. 183 comma 1, lettera m), D.Lgs. n. 152/2006.
3. La direttiva comunitaria 2008/98/Ce invita gli stati membri a incentivare soluzioni che permettano «di evitare la produzione di rifiuti» (considerando 28 alla direttiva).
4. M. Magri, Rifiuto e sottoprodotto nell’epoca della prevenzione: una prospettiva di soft law, Ambiente e Sviluppo, Ipsoa, n. 1/2010, p. 29.
5. Su questo tema si registra la proposta di legge «Misure per la prevenzione della produzione di rifiuti, istituzione del Registro nazionale delle reti del riuso e agevolazioni nell’applicazione della tassa sui rifiuti in relazione all’impronta climatica dei prodotti conferiti per il riuso». A livello europeo, invece, in data 11 gennaio 2022 è stata aperta una consultazione sulla futura introduzione di un “diritto alla riparazione”, per ridurre i rifiuti e promuovere un uso più sostenibile dei beni nel loro ciclo di vita.
6. Dove per «detentore», ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera h), deve intendersi «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso».
7. Sul tema della rilevanza delle modalità oggettive di deposito dei materiali, a prescindere dalla effettiva intenzione di disfarsene, si veda la sentenza del Tar Piemonte n. 1303/2017.
8. Il materiale deve però essere destinato con certezza ed effettività e non come mera eventualità a un ulteriore utilizzo (sentenza della Cassazione penale n. 3202/2014). Inoltre, «l’utilizzo del materiale in un nuovo ciclo produttivo deve essere certo sin dal momento della sua produzione, dovendosi dimostrare una preventiva organizzazione alla sua riutilizzazione» (sentenza della Cassazione penale n. 17823/2012).
9. Superando così le ambiguità legate all’interpretazione del vecchio art. 183, lettera p), numero 2: «il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito peraltro».
10. Un riferimento al concetto di normale pratica industriale si ritrova nella nota del ministero dell’Ambiente, di risposta a Ispra, datata 14 maggio 2014, in cui si legge: «il riferimento alla normale pratica industriale riguarda tutti i trattamenti che non hanno alcuna incidenza sulle caratteristiche chimico-fisiche della sostanza o dell’oggetto ai fini del rispetto dei requisiti sanitari ed ambientali richiesti dalla norma (ad esempio il terreno non contaminato)».
11. La vigente definizione di “trattamento”, contenuta nel D.Lgs. n. 152/2006, è però meno stringente oltre alle operazioni di recupero e di smaltimento include anche «la preparazione prima del recupero o dello smaltimento».
12. Si tratta della norma tecnica richiamata dal D.M. 5 febbraio 1998 in tema di recupero semplificato, quale criterio di necessaria conformità per le “materie prime seconde” plastiche e che tratta anche di sottoprodotti plastici.
13. La nuova Uni 10667-1 reca il titolo «Materie plastiche prime-secondarie. Generalità su materie plastiche prime secondarie e sottoprodotti di materie plastiche» e, al capitolo 4, tratta del concetto di normale pratica industriale basandosi su quanto espresso nella richiamata sentenza della corte di Cassazione n. 40109/2015.
14. In sede di recepimento della direttiva 2018/851/Ue, è stati inserito il seguente inciso «garantendo un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana agevolando, altresì, l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali dando priorità alle pratiche replicabili di simbiosi industriale».
15. «Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e delle acque reflue, nonché per la produzione e l’utilizzazione agronomica del digestato» (in S.O. n. 9 alla Gazzetta Ufficiale del 18 aprile 2016, n. 90).
16. Si veda L. Butti, A. Kiniger, S. Campigotto, Ammendanti. Effluenti di allevamento, acque reflue e digestato: i nuovi criteri per l’utilizzazione agronomica, in Ambiente&Sicurezza n. 10/2016, pag. 74. In tema di digestato sottoprodotto è intervenuta anche la corte di Cassazione penale (n. 56066/2017) e, successivamente, anche il Consiglio di stato (n. 6093/2019).
17. F. Peres e A. Kiniger, Sottoprodotti e biomasse, analisi del nuovo decreto, in Ambiente&Sicurezza n. 4/2017, pagg. 7.
18. Su questo tema vedere la sentenza della Cassazione penale n. 50628/2020 per la quale «se è vero che l’esistenza di rapporti contrattuali tra il produttore del residuo ed eventuali intermediari ed utilizzatori rilevano in termini di prova sulla certezza dell’utilizzo, il mero richiamo all’esistenza di tali rapporti non può però essere sufficiente a soddisfare le verifiche richieste, necessitando che dalla documentazione citata possano con certezza evincersi le caratteristiche tecniche dei prodotti, l’esistenza di condizioni che giustifichino la vantaggiosità della cessione, e via dicendo».
19. Consultabile all’indirizzo http://www.elencosottoprodotti.it/
20. Si tratta della nota ministeriale a Unioncamere 3 marzo 2017, n. 3084, dedicata all’elenco pubblico che le camere di commercio devono istituire e la corposa circolare ministeriale esplicativa 30 maggio 2017, n. 7619. Per un approfondimento su questi temi vedere A. Kiniger, Novità sui sottoprodotti chiarimenti e un sito web, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2017, pag. 95.
21. A titolo esemplificativo si considerino: gli effluenti di allevamento (Tar Roma n. 3322/2022), il materiale ferroso (Cassazione penale n. 11065/2022), la pollina (sentenza del Tar Brescia n. 498/2015), il sale residuato dalla salagione delle carni riutilizzato per evitare la formazione di ghiaccio sulle strade (sentenza della Cassazione penale n. 7899/2014) e il fresato d’asfalto (sentenza del consiglio di Stato n. 4151/2013).
22. Il D.Lgs. n. 116/2020 ha eliminato dal primo periodo del comma 1 il riferimento alla “preparazione per il riutilizzo”. Sembra pertanto esclusa la possibilità di ottenere end of waste all’esito di detta attività, anche se non risulta chiaro in quale altra categoria di qualificazione possa rientrare l’esito della preparazione per il riutilizzo.
23. Si condivide, però, la tesi per la quale il concetto di materie prime seconde (Mps) resta attuale per effetto dei decreti ministeriali ancora in vigore e richiamati dall’art. 184-ter.
24. Il D.Lgs. n. 116/2020 ha, infatti, stralciato l’inciso dal primo comma dell’art. 184-ter.
25. L’art. 216, comma 8-quater, prevede, infatti, che i rifiuti «cessano di essere considerati rifiuti agli utilizzi individuati».
26. L’art. 6, comma 2 della direttiva rimanda a quanto previsto dall’art. 39 comma 2 della stessa direttiva, il quale, a sua volta, richiama la procedura di regolamentazione di cui alla decisione del Consiglio n. 1999/468/Ce recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione.
27. L’ultimo periodo dell’art. 6, comma 2 prevede che «criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero essere considerati, tra gli altri, almeno per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i pneumatici e i rifiuti tessili».
28. Ai sensi dell’art. 216, comma 8-quater, D.Lgs. n. 152/2006, le attività di trattamento rifiuti disciplinate dai nuovi regolamenti, «sono sottoposte alle procedure semplificate a condizione che siano rispettati tutti i requisiti, i criteri e le prescrizioni soggettive e oggettive previsti dai predetti regolamenti [...]».
29. Il termine di sei mesi per l’adeguamento è stato definito sulla base del termine usuale di entrata in vigore delle fonti europee.
30. Per un commento A. Kiniger Prodotti assorbenti: i criteri per l’end of waste, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.
31. Per un commento A. Kiniger End of Waste: il Ministero disciplina il recupero della gomma vulcanizzata, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2020.
32. Per un commento A. Kiniger Carta e cartone: pubblicate le regole per l’End of Waste, in Ambiente&Sicurezza n. 3/2021.
33. Sul tema si veda Butti, Peres, Kiniger e Balestreri End of waste per gli inerti: luci e ombre del nuovo decreto.
34. In questi termini si segnalano le “Linee guida per la gestione delle scorie nere di acciaieria a forno elettrico”, emanate dalla Regione Lombardia con D.g.r. 13 settembre 2021 n. XI/5224.
35. «[...]: a) fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 181-bis, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, le caratteristiche dei materiali di cui al citato comma 2 si considerano altresì conformi alle autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 210 del medesimo decreto legislativo n. 152 del 2006, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59».
36. Per un’analisi di dettaglio, si veda A. Kiniger, Criteri per l’end of waste, in arrivo un giro di vite?, in Ambiente&Sicurezza, n. 5/2018, p. 81.
37. Si veda A. Kiniger, End of Waste: tutto fermo ai blocchi di partenza, in Ambiente&Sicurezza n. 5/2019.
38. La legge n. 55/2019 di conversione, con modifiche, del D.L. n. 32/2019, il cosiddetto “sblocca cantieri” ha infatti previsto che in attesa dell’adozione di decreti ministeriali (e, ovviamente, di regolamenti comunitari), ogni attività di recupero, sia essa in regime semplificato, ordinario, <integrato o sperimentale, deve necessariamente riferirsi a quanto previsto nei D.M. 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002 n. 161 e 17 novembre 2005 n. 269. I risalenti decreti per le semplificate valgono pertanto quali riferimenti tecnici anche per il regime ordinario per quanto riguarda «tipologia, provenienza e caratteristiche dei rifiuti, attività di recupero e caratteristiche di quanto ottenuto da tale attività». Unica deroga all’obbligo di conformità ai tre decreti ministeriali riguarda i limiti alle quantità di rifiuti recuperabili, vincolanti solo per le autorizzazioni semplificate. La novella, come detto, ha scontentato molti. Su questo tema si veda A. Kiniger, End of waste indietro tutta in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.
39. Su questo tema si veda A. Kiniger, End of waste: la possibilità di definire criteri specifici (o dettagliati) permette di rilanciare la circular economy in Ambiente&Sicurezza n. 11/2019.
40. In conformità a quanto previsto dall’art. 1, punto 6), direttiva 2018/851/Ue.
41. Sovrapponibili a quelli previsti dall’art. 184-ter, comma 1.
42. A. Kiniger, End of Waste: istituito il REcer, il registro nazionale per le autorizzazioni, in Ambiente&Sicurezza web, giugno 2020.
43. La novella non specifica alcun termine per la resa del parere e ciò potrebbe dare adito ad allungamenti procedimentali. Su questo tema vedere L. Butti, F. Peres, A. Kiniger e A. Balestreri Il “Semplificazioni-bis” è legge: cosa cambia per il D.Lgs. n. 152/2006, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2021.
44. Per un approfondimento si veda A. Kiniger End of Waste: pubblicate le linee guida Snpa, in Ambiente&Sicurezza n. 5/2020.
45. Si segnala il DM 10 giugno 2016, n. 140 recante «criteri e modalità per favorire la progettazione e la produzione ecocompatibili di AEE, ai sensi dell’articolo 5, comma 1 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, di attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016, n. 171.
46. In uno schema di decreto di modifica della disciplina rifiuti in fase di approvazione è prevista l’introduzione di un termine di 90 giorni dalla presentazione di una comunicazione di inizio attività, entro il quale le autorità competenti potranno verificare il possesso dei requisiti richiesti e decorso il quale le operazioni di preparazione per il riutilizzo in forma semplificata potranno essere avviate.
47. In tema di assimilazione comunale di rifiuti speciali non pericolosi agli urbani si veda la sentenza del Tar Puglia – Lecce, n. 351/2018.
48. In relazione agli stabilimenti di tritovagliatura e imballaggio rifiuti (Stir) campani si è affermato che i rifiuti urbani sottoposti a trattamento (cosiddetta “tritovagliatura”) non perdono la loro qualifica e che, pertanto, nonostante l’attribuzione del codice 19, «continuano ad essere assoggettati al regime dei rifiuti urbani ai soli fini dello smaltimento, mentre tale vincolo non opera qualora siano conferiti ad impianti di recupero o avviati a operazioni finalizzate al recupero» (consiglio di Stato n. 5242/2014).
49. Per un approfondimento v. A. Kiniger e A. Balestreri, Rifiuti ex assimilati e Tari novità e criticità operative, in Ambiente&Sicurezza n. 7/2021.
50. La prima pronuncia in tal senso è stata quella del Tar Cagliari n. 893/2021. Su questo aspetto v. anche TAR Milano n. 1953/2022.
51. La nuova disciplina si è resa necessaria perché dal 1° giugno 2015 è diventato pienamente operativo il regolamento Clp (regolamento Ce n. 1272/2008 relativo alla classificazione, etichettatura e imballaggio delle sostanze e delle miscele). Il provvedimento non si applica direttamente ai rifiuti, ma, essendo innovativo per quanto riguarda la pericolosità chimica, incide indirettamente anche sulla disciplina rifiuti. Si veda lo Speciale pubblicato su Ambiente&Sicurezza n. 11/2015.
52. Si veda la nota precedente.
53. La circolare del ministero dell’Ambiente 25 settembre 2015, n. 0011719/Rin, indirizzata alle regioni ha ribadito che «dal 1° giugno 2015 il regolamento e la decisione trovano piena ed integrale applicazione nel nostro ordinamento giuridico e che, di conseguenza, a decorrere dalla medesima data, gli allegati D ed I del suddetto decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, non risultano applicabili, laddove essi risultino in contrasto con le suddette disposizioni dell’Unione Europea».
54. «Il catalogo vuole essere una nomenclatura di riferimento con una terminologia comune per tutta la Comunità allo scopo di migliorare tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti. A questo riguardo, il catalogo europeo dei rifiuti dovrebbe diventare il riferimento di base del programma comunitario di statistiche sui rifiuti lanciato con la risoluzione del Consiglio, del 7 maggio 1990, sulla politica relativa alla gestione dei rifiuti» (nota introduttiva all’allegato alla decisione della Commissione europea 20 dicembre 1993, n. 94/3/Ce).
55. «La classificazione dei rifiuti è disciplinata dalle disposizioni di seguito richiamate, ma l’attribuzione del relativo codice CER è determinata dalla effettiva origine del rifiuto, che necessita talvolta, come pure si dirà, di accertamenti analitici, [...]. Come è noto, la classificazione dei rifiuti pericolosi mediante codice CER avviene in base all’origine ed alla composizione del rifiuto, nel qual caso il codice è contraddistinto dalla presenza di un asterisco. Nel caso in cui siano invece presenti nell’elenco di cui all’Allegato D alla Parte Quarta del d.lgs. n. 152 del 2006 le c.d. voci specchio, va effettuata la verifica delle caratteristiche di pericolo in base alla concentrazione di determinate sostanze» (sentenza della Cassazione penale n. 10937/2013).
56. Sezione III, nn. 37460, 37461 e 37462.
57. Per un approfondimento vedere L. Butti e F. Peres, Classificazione dei rifiuti: cosa dice la sentenza della Corte di Giustizia Ue, in Ambiente&Sicurezza n. 6/2019
58. Rispetto a questa caratteristica di pericolo si ricorda che il considerando 7 del regolamento n. 1357/2014/Ue aveva precisato che «per garantire l’adeguata completezza e rappresentatività anche per quanto riguarda le informazioni sui possibili effetti di un allineamento della caratteristica HP 14 “ecotossico” con il regolamento (CE) n. 1272/2008, è necessario uno studio supplementare».
59. Il dossier del servizio studi del Senato A.S. n. 2860, relativo alla conversione in legge del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91, recante disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno ha specificato che «Tali disposizioni europee, essendo contenute in atti che hanno diretta applicazione nell’ordinamento nazionale, sono entrate in vigore alla data prevista negli atti citati, vale a dire il 1° giugno 2015. Le modifiche operate dal regolamento (UE) n. 2017/997 invece, per quanto disposto dall’art. 2 del medesimo provvedimento, saranno applicate a decorrere dal 5 luglio 2018».
60. Su questo tema Ispra ha recentemente pubblicato la nota 8 agosto 2018 «Approccio metodologico per la valutazione della caratteristica di pericolo HP14 Ecotossico».
61. L’inciso era originariamente previsto dall’art. 1, D.L. n. 92/2015 (poi decaduto per mancata conversione in legge). La modifica è stata però adottata con la legge n. 125/2015 (in Gazzetta Ufficiale del 14 agosto 2015, n. 188), di conversione del D.L. n. 78/2015 («Misure finanziarie enti territoriali»).
62. Sentenze della Cassazione penale n. 15165/2003, n. 40618/2004, n. 22760/2010, n. 35692/2011 e n. 19072/2012.
63. Sentenze della Cassazione penale n. 5006/2007, n. 902/1999, n. 4957/2000 e n. 24347/2003; più recentemente, n. 12876/2019.
64. In questo senso si veda anche F. Peres, Nuova nozione di produttore di rifiuti, prime riflessioni dopo la riforma, in Ambiente&Sicurezza n. 11/2015.
65. Sentenza della Cassazione penale n. 11029/2015: «l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, [...] è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare, come osservato in dottrina, casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto».
66. L’inciso relativo alla nuova nozione di produttore è poco chiaro. Nella relazione di accompagnamento al D.L. n. 92/2015, il legislatore dichiara di voler aderire, inserendo la nuova nozione in questione, all’orientamento giurisprudenziale «da ultimo ribadito» nella sentenza della Cassazione penale n. 5916/2015. Nella richiamata sentenza, la Cassazione rinvia a due diversi orientamenti relativi alla nozione di produttore: quello estensivo-generale secondo il quale il produttore di regola è sia l’appaltatore sia il committente, il proprietario e l’eventuale intestatario della concessione e quello estensivo-specifico, per cui di regola il produttore è solo l’appaltatore, mentre il committente può diventare produttore a determinate condizioni. Il secondo è quello «da ultimo ribadito».
67. Vedere le sentenze della Cassazione Penale nn. 39952/2019.
68. Non sembra che la medesima disciplina trovi applicazione in caso di conferimento dei rifiuti ad attività di messa in riserva (R13).
69. Resta da chiarire se l’impianto che deve rendere questa attestazione sia quello che esegue le operazioni non definitive di smaltimento, ovvero l’impianto di trattamento finale. Considerando la ratio della norma e l’intenzione del legislatore l’attestazione dovrebbe essere resa dal titolare dell’impianto di smaltimento finale. In questo caso, tuttavia, si registrerebbero criticità legate alla privacy, alle possibili tempistiche massime di stoccaggio, nonché al diritto dei titolari dell’impianti intermedi di non fornire ai produttori dei rifiuti i nominativi degli impianti finali con i quali collaborano.
70. Ai sensi dell’art. 23, DPR n. 120/2017, il criterio quantitativo per il deposito temporaneo dei rifiuti costituiti da terre e rocce da scavo (codici Eer 17.05.04 o 17.05.03*) è pari a 4.000 m3, di cui non oltre 800 m3 di rifiuti classificati come pericolosi. In ogni caso, il deposito temporaneo non può avere durata superiore a un anno.
71. Si segnala che per fare fronte a criticità gestionali correlate al periodo emergenziale Covid-19, l’art. 113-bis, D.L n. 18/2020 aveva aumentato da 30 a 60 m3 (di cui al massimo 20 m3 di rifiuti pericolosi) il limite quantitativo per il deposito temporaneo, nonché a 18 mesi il termine massimo, in precedenza annuale, per l’avvio a trattamento. La novella, che non aveva inciso sul criterio temporale (quello dei 6 mesi) è stata però abrogata dalla legge n. 77/2020, di conversione del D.L. n. 34/2020 (cosiddetto “decreto rilancio”).
72. Resta confermata la possibilità, per gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile, di allestire il deposito presso un sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola, ivi compresi i consorzi agrari, di cui gli stessi sono soci.
73. Sempre il Ministero ha inoltre specificato che resta ferma la disciplina di tracciabilità ed autorizzazione ordinaria (FIR, registri, iscrizione all’Albo), dimenticando le criticità legate alla compilazione di un Formulario nel caso di destinazione di un rifiuto ad un deposito temporaneo non qualificabile come attività di trattamento. Per approfondimenti sul tema v. A. Kiniger, Novità sui rifiuti. I chiarimenti del Mite, in Ambiente&Sicurezza, n. 8/2021.
74. Su questo tema si veda, ex multis, la sentenza della Cassazione penale n. 4181/2018 e, più recentemente, n. 8498/2021 e n. 33633/2022.
75. Il soggetto che svolge l’attività di pulizia manutentiva è comunque tenuto all’iscrizione all’Albo dei gestori ambientali.
76. Sul tema v. Kiniger e Balestreri, “Come gestire i rifiuti da manutenzione fognaria”, in questa rivista n. 4/2022, p. 37 e ss.
77. In merito a questo concetto, nei chiarimenti del maggio 2021 il MiTE ha specificato che il dato normativo non si riferisce a quantitativi specifici, che dovranno pertanto essere valutati caso per caso.
78. A. Kiniger, Novità sui rifiuti. I chiarimenti del Mite, in Ambiente&Sicurezza n. 8/2021.
79. Per un commento alla novella si veda A. Kiniger e L. Tronconi Sistri: più che un addio un arrivederci in Ambiente&Sicurezza n. 3/2019.
80. L’art. 194-bis prevede la possibilità di tenere il registro di carico e scarico e il formulario identificativo dei rifiuti, di cui agli articoli 190 e 193, in formato digitale, nonché la facoltà di trasmettere a mezzo Pec la quarta copia del Fir.
81. Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo 18.6.2003 COM (2003) n. 302.
82. Principio che mira a ridurre l’impatto ambientale complessivo dei prodotti (“dalla culla alla tomba”), cercando di evitare che singole iniziative incentrate su singole fasi del ciclo di vita si limitino a trasferire il carico ambientale su altre fasi.
83. «Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni sul Sesto programma di azione per l’ambiente della Comunità europea “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” Sesto programma di azione per l’ambiente COM/2001/0031 def.».
84. Sul punto, recentemente, si veda il D.M. n. 10 giugno 2016, n. 140, recante «Regolamento recante criteri e modalità per favorire la progettazione e la produzione ecocompatibili di AEE, ai sensi dell’articolo 5, comma 1 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, di attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)» (in Gazzetta Ufficiale del 23 luglio 2016, n.171).
85. Uno schema di decreto legislativo di modifica della disciplina rifiuti, in fase di elaborazione, prevede l’eliminazione dal primo comma dell’art. 178-bis, dell’inciso che consente di avanzare al Ministero istanze volte all’istituzione di regimi di responsabilità.
86. «Ai fini della configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti, non rileva la qualifica soggettiva del soggetto agente bensì la concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalista» (sentenza della Cassazione penale n. 5716/2016).
87. «Attuazione della Direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento)», in S.O. n. 27 alla Gazzetta ufficiale del 27 marzo 2014, n. 72.
88. Si ritiene che l’inciso vada riferito alla categoria 5 dell’allegato VIII alla parte seconda.
89. «L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori» (art. 208, comma 6).
90. Ovverosia i «[...] principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga».
91. L’art. 208, comma 15 manca di definire il concetto di impianto mobile; dallo stesso è nondimeno possibile di individuare almeno due elementi utili: 1) la contrapposizione con gli impianti non mobili, e quindi fissi; 2) la previsione del necessario svolgimento di «singole campagne di attività sul territorio nazionale», che lascia presumere una mobilità intesa sia come differente collocazione geografica che come precarietà di utilizzo (da intendersi come necessaria discontinuità).
92. Sentenza della Cassazione penale n. 21859/2011: «Sono assoggettati al procedimento autorizzatorio di cui all’art. 208, co. 15, D.Lgs. n. 152/2006 gli impianti mobili adibiti alla macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei materiali inerti prodotti da cantieri edili di demolizione, in quanto non possono essere considerati impianti che effettuano una semplice riduzione volumetrica e separazione di eventuali frazioni estranee, essendo invece impiegati per effettuare un’operazione di trattamento il cui principale risultato è quello di permettere il recupero dei residui ferrosi».
93. In assenza dei decreti attuativi di cui all’art. 214 comma 2, quanto previsto dall’art. 215 in tema di autosmaltimento di rifiuti non pericolosi in regime semplificato, non trova oggi applicazione (sul punto si veda anche la sentenza della Cassazione penale n. 41290/2006).
94. Si veda L. Butti, A. Kiniger, A. Balestreri, M. Molinaro, Autorizzazione Unica: novità e punti critici, in Ambiente&Sicurezza n. 12/2013, Per quanto riguarda la disciplina ed il procedimento di emanazione dell’Aua si veda il capitolo 2.
95. L’art. 3 comma 3, D.P.R. n. 59/2013 prevede, infatti, che «è fatta comunque salva la facoltà dei gestori degli impianti di non avvalersi dell’autorizzazione unica ambientale nel caso in cui si tratti di attività soggette solo a comunicazione, ovvero ad autorizzazione di carattere generale, ferma restando la presentazione della comunicazione o dell’istanza per il tramite del SUAP».
96. «Integra il reato previsto dall’art. 256, comma quarto, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 la mancata osservanza delle modalità di deposito e movimentazione dei rifiuti, e dei tempi di lavorazione, costituenti oggetto delle prescrizioni e cautele contenute nella comunicazione di inizio attività, necessaria per l’iscrizione nel registro delle imprese esercenti le operazioni di recupero di rifiuti in forma semplificata ai sensi degli artt. 214 e 216, del d.lgs. n. 152 del 2006» (sentenza della Cassazione penale n. 11495/2010).
97. Se l’impianto è sottoposto ad autorizzazione unica ambientale (Aua) può profittare del termine di validità di quindici anni previsto dall’art. 3, comma 6, D.P.R. n. 59/2013.
98. Avverso i provvedimenti delle sezioni regionali dell’albo gli interessati possono proporre, nel termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica dei provvedimenti stessi, ricorso al comitato nazionale dell’albo.
99. Per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi, per l’attività di intermediazione e di commercio dei rifiuti senza detenzione dei medesimi.
100. Quelle di cui agli articoli 221, comma 3, lettere a) e c), 223, 224, 228, 233, 234, 235 e 236, al decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188, e al decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151.
101. «Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti», pubblicato in S.O. n. 40 alla Gazzetta Ufficiale del 12 marzo 2003, n. 59.
102. Perché si abbia una discarica non è richiesta l’esistenza di un apparato organizzato di uomini e mezzi, essendo sufficiente «l’abitualità dello smaltimento di rifiuti in un’area determinata e la consistenza del loro accumulo, idonea a provocare il degrado dell’ambiente» (Cassazione penale n. 25047/2011). Allo stesso modo «ciò che conta è la destinazione di una area a ricettacolo di rifiuti in via permanente e non la relativa durata» (Cassazione penale n. 19330/2009).
103. Secondo la Cassazione penale, il deposito temporaneo di rifiuti protratto per più di un anno in assenza di autorizzazione costituisce deposito incontrollato (sentenza n. 7386/2014) e non il reato di discarica non autorizzata o abusiva, salvo non si tratti di abbandono reiterato (sentenza n. 9849/2009).
104. Si ricorda che a Ispra è stata demandata l’individuazione dei criteri tecnici da applicare per stabilire quando il trattamento non è necessario (art. 48, legge n. 221/2015).
105. «Per la definizione di lotto e di rifiuti regolarmente o non regolarmente generati si rinvia alle definizioni riportate in Allegato 5» (art. 7-bis, comma 3).
106. In relazione alle frequenze di verifica di conformità dei rifiuti la Cassazione penale ha affermato che la locuzione «almeno una volta l’anno» non vuole significare «ogni dodici mesi», ma almeno una volta nell’anno civile di riferimento, cioè il periodo che va dal 1° gennaio al 31 dicembre (n. 36400/2019).
107. Si tratta di un presidio di sicurezza costituito da idonea camera di combustione a temperatura T>850°, concentrazione di ossigeno ≥ 3% in volume e tempo di ritenzione ≥ 0,3 s.
108. Si segnala che, al fine di ottenere la chiusura della procedura di infrazione Ue Pilot 8978/16/Envi, nel disegno di legge europea 2017, in fase di approvazione, sono previste alcune modifiche tanto normative quanto tecniche alla disciplina relativa agli impianti di incenerimento e coincenerimento rifiuti.
109. Per questa ragione gli impianti di coincenerimento devono operare a «saturazione del carico termico» (Tar Toscana n. 954/2015).
110. Queste prescrizioni possono essere derogate dall’autorità competente in sede di autorizzazione, alle condizioni previste dall’art. 237-nonies, comma 1.
111. Si applica solo l’allegato 1, paragrafo A nel caso in cui il calore liberato dal coincenerimento di rifiuti pericolosi sia superiore al 40% del calore totale liberato o qualora l’impianto coincenerisca rifiuti urbani misti non trattati (art. 237-duodecies, comma 3).
112. Legge 20 novembre 2017, n. 167 «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea Legge europea 2017» (in Gazzetta Ufficiale del 27 novembre 2017 n. 277).
113. Reinterri, riempimenti, rilevati e macinati.
114. L’art. 8, D.L. n. 133/2014 (convertito nella legge n. 164/2014) ha individuato i principi e i criteri direttivi della nuova disciplina.
115. Da intendersi quale mancato superamento dei valori di Csc di cui alla tabella 1 dell’allegato 5 alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006, per le matrici suolo e sottosuolo.
116. «Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164» (in Gazzetta Ufficiale del 7 agosto 2017, n. 183). Per un approfondimento si veda Peres, Terre e rocce da scavo il nuovo regolamento, in Ambiente&Sicurezza n. 9/2017.
117. Al quale si applicherà la disciplina prevista dall’art. 3, commi 2 e 3, D.L. n. 2/2012 convertito, con modificazioni, nella legge n. 28/2012, come modificato dall’art. 41, comma 3, lettera a), D.L. n. 69/2013 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/20013.
118. Ai sensi del quale «nei siti inquinati, nei quali sono in corso o non sono ancora avviate attività di messa in sicurezza e di bonifica, possono essere realizzati interventi e opere richiesti dalla normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, di manutenzione ordinaria e straordinaria di impianti e infrastrutture, compresi adeguamenti alle prescrizioni autorizzative, nonché opere lineari necessarie per l’esercizio di impianti e forniture di servizi e, più in generale, altre opere lineari di pubblico interesse a condizione che detti interventi e opere siano realizzati secondo modalità e tecniche che non pregiudicano né interferiscono con il completamento e l’esecuzione della bonifica, né determinano rischi per la salute dei lavoratori e degli altri fruitori dell’area».
119. D.L. n. 133/2014, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n. 164.
120. Nell’ambito della procedura Eu-Pilot n. 5554/13/ENVI, la Commissione europea ha ritenuto che il trattamento a calce e la riduzione della presenza nel materiale da scavo di elementi/materiali antropici, sarebbero una operazione di trattamento di rifiuti e non una normale pratica industriale.
121. I commi 1 e 2 dell’art. 27, D.P.R. n. 120/2017 prevedono infatti che «I piani e i progetti di utilizzo già approvati prima dell’entrata in vigore del presente regolamento restano disciplinati dalla relativa normativa previgente, che si applica anche a tutte le modifiche e agli aggiornamenti dei suddetti piani e progetti intervenuti successivamente all’entrata in vigore del presente regolamento. Resta fermo che i materiali riconducibili alla definizione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), del presente regolamento utilizzati e gestiti in conformità ai progetti di utilizzo approvati ai sensi dell’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ovvero ai piani di utilizzo approvati ai sensi del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela e del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161, sono considerati a tutti gli effetti sottoprodotti e legittimamente allocati nei siti di destinazione. I progetti per i quali alla data di entrata in vigore del presente regolamento è in corso una procedura ai sensi della normativa previgente restano disciplinati dalle relative disposizioni. Per tali progetti è fatta comunque salva la facoltà di presentare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente regolamento, il piano di utilizzo di cui all’articolo 9 o la dichiarazione di cui all’articolo 21 ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente regolamento».
122. Si veda F. Peres Terre e rocce da scavo le linee guida Snpa in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.
123. Su questo tema il Tar Toscana n. 996/2020 ha evidenziato la necessità dei “test di cessione” effettuati sui materiali di riporto, giacché la normativa correla all’esito di questi test differenti conseguenze giuridiche nonché operative: anche in caso di rispetto dei limiti propri del test di cessione è comunque necessario rispettare quanto previsto dalla normativa sulle bonifiche dei siti contaminati, mentre in caso di accertato mancato rispetto dei suddetti limiti i materiali di riporto sono assimilati a sorgenti di contaminazione ed il legislatore indica quali sono i precisi trattamenti tecnici da eseguire.
124. Si veda Peres e Kiniger Sui materiali di riporto i chiarimenti del minAmb in Ambiente&Sicurezza n. 1/2018.
125. Si veda F. Peres Terre e rocce da scavo: le linee guida Snpa in Ambiente&Sicurezza n. 8/2019.
126. Come la prevista necessaria storicità dei riporti, non più espressamente richiamata nella disciplina normativa.
127. Su questo tema si veda la sentenza della Cassazione penale n. 45844/2019.
128. Sul tema si veda Peres e Cappucci Dragaggi, procedure per i Siti di Interesse Nazionale, in Ambiente&Sicurezza n. 16/2016.
129. A queste pratiche se ne stanno però affiancando di innovative quali, ad esempio, la lombricoltura ed il lombricompostaggio.
130. «Attuazione della direttiva 86/278/Cee concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura».
131. «Riordino e revisione della disciplina in materia di fertilizzanti, a norma dell’articolo 13 della legge 7 luglio 2009 n. 88».
132. Si vedano i contributi di B. Stefanelli, in Ambiente&Sicurezza nn. 9/2018, 11/2018, 1/2019 e 5/2019.

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